A oltre tre decenni dalla morte, gli interrogativi che rimangono aperti sul delitto e l’eredità civile del dirigente politico italiano. Conversazione con Franco La Torre.
L’uccisione di Pio La Torre e del suo collaboratore Rosario Di Salvo avveniva in un clima convulso. Dalla fine degli anni settanta nella capitale siciliana era stata una sequela di delitti che avevano scosso l’opinione pubblica dell’intero Paese. Erano stati assassinati il segretario provinciale della DC Michele Reina, il giornalista Mario Francese, il vicequestore Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il giudice Gaetano Costa. Tutto questo evocava già allora un disegno coeso. Lo stesso La Torre ne era in convinto, e interpretava i delitti di quel periodo come «terrorismo mafioso». Dopo l’uccisione di Mattarella intitolava un editoriale di «Rinascita» Se terrorismo e mafia si scambiano le tecniche. Poi venne il suo turno, e dopo di lui, ancora con ritmi incalzanti, fu la volta del generale Dalla Chiesa, dei magistrati Ciaccio Montalto e Rocco Chinnici, dei poliziotti Calogero Zucchetto, Beppe Montana e Ninni Cassarà, del giornalista Giuseppe Fava, dell’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco. Infine, nel pieno dell’offensiva giudiziaria di Falcone e Borsellino, che avrebbe prodotto il maxiprocesso alla mafia, il gioco cambiava. Ma era stato decapitato a quel punto il ceto politico e istituzionale della Sicilia.
Si era arrivati in realtà a uno snodo. I proventi del narcotraffico e del contrabbando incrostavano ormai da anni l’economia regionale, e le famiglie mafiose, a loro modo, avevano giocato la carta della «modernizzazione», attraverso la partecipazione alle grandi opere, sullo sfondo dei patti che correvano da decenni con la politica. Ma da tempo, tanto più dopo l’implosione del sistema Sindona, qualcosa scricchiolava. Nella relazione di minoranza della Commissione Antimafia, del 1976, Pio La Torre, dopo aver documentato gli affari illeciti della capitale siciliana, chiamando in causa tra gli altri Vito Ciancimino, Giovanni Gioia, Salvo Lima e Giovanni Matta, affermava: «Il sistema di potere mafioso è entrato ormai irrimediabilmente in crisi anche a Palermo. Ne sono una testimonianza gli ultimi sviluppi della lotta politica all’interno della DC palermitana». L’analisi, molto lucida, riusciva a interpretare una tensione reale, che sarebbe divenuta esplosiva a fine decennio, quando dentro il partito democristiano andavano polarizzandosi due visioni della politica. Da una parte era la DC di Piersanti Mattarella, presidente della Regione, che, come era nelle ispirazioni del popolarismo cattolico, guardava in avanti, in direzione di una modernizzazione conseguente, che tenesse conto dei principi di trasparenza e di moralità. Dall’altra era quella andreottiana di Salvo Lima e Mario D’Acquisto, che con varie declinazioni si ergeva a difesa del sistema che a lungo aveva retto Palermo e la Sicilia.
Insediatosi a palazzo d’Orleans il 20 marzo 1978 con l’appoggio esterno del Pci, Piersanti Mattarella per le cosche e i loro referenti diventava in poco tempo, per l’incisività della sua azione, un problema di difficile gestione. Venivano fermati appalti sospetti, si cominciava a rivoluzionare la macchina burocratica e arrivavano atti politici conseguenti, come nell’autunno del 1978, quando il presidente della Regione rimuoveva dalla sua giunta l’assessore ai Lavori Pubblici Rosario Cardillo, repubblicano, ritenuto a capo di un sistema illecito di controllo degli appalti. Ma erano percepiti altri pericoli. Cesare Terranova, finita la sesta legislatura, che gli aveva consentito di operare in seno alla Commissione Antimafia e di collaborare con La Torre e altri parlamentari della Sinistra alla stesura della relazione di minoranza, rientrava al palazzo di giustizia di Palermo con l’incarico di consigliere istruttore presso la Corte d’Appello. Da procuratore della Repubblica era riuscito a fermare Luciano Liggio, e con il nuovo incarico, oltre che con il bagaglio di conoscenze acquisite all’Antimafia, avrebbe potuto infliggere danni non meno significativi ai poteri criminali della città. La Guardia di Finanza aveva schedato intanto circa tremila imprese sospettate di collusione mafiosa, mentre da diverse parti si rivendicava una legge che consentisse di portare le indagini oltre i santuari delle banche. La bancarotta di Sindona, che registrava un clamoroso colpo di scena nel giugno 1979, con l’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, nominato commissario liquidatore della BPI, restava infine un nervo scoperto. E su tale sfondo di tensioni e timori cresceva con rapidità, fino a occupare in poco tempo il centro della scena, la presenza politica e legislativa di Pio La Torre.
Dopo la conclusione dei lavori della Commissione Antimafia, nel 1976, il politico siciliano, allora responsabile nazionale dell’Ufficio agricoltura del PCI, aveva continuato a seguire con scrupolo il fenomeno mafioso nel Sud, denunciandone l’evoluzione nelle sedi di partito, sulla stampa e in diverse sedute parlamentari. Egli sostenne quindi con convinzione la ricerca delle sinergie che resero possibile l’esperimento del Governo Mattarella, facendo arrivare, quando necessario, la propria voce sui percorsi della Regione, con suggerimenti anche forti. Alla Conferenza dell’agricoltura che si tenne a Villa Igea il 9 febbraio 1979 non esitò a denunciare l’assessorato regionale al ramo di illeciti gravi, additandone il capo, l’andreottiano Giuseppe Aleppo, come colluso alla criminalità organizzata. E in quella occasione, Piersanti Mattarella, che chiuse i lavori con un’ampia relazione, si guardò bene dal difendere il proprio assessore, sconcertando i presenti. Il segnale che giungeva alle consorterie era chiaro.
Quando si mise in moto a Palermo la macchina degli omicidi, Pio La Torre fu tra i primi, appunto, a comprendere la complessità strategica del progetto. Intervenendo alla Camera il 26 settembre 1979, appena un giorno dopo l’uccisione di Cesare Terranova e del maresciallo Lenin Mancuso, egli affermava che si era di fronte a un salto qualitativo, «ad una sfida frontale allo Stato democratico da parte dell’organizzazione mafiosa». E due giorni dopo l’assassinio di Piersanti Mattarella sottolineava, ancora alla Camera, che in Sicilia era in corso una battaglia cruciale «fra le forze impegnate per il cambiamento contro il sistema di potere mafioso per il rinnovamento economico, sociale e democratico delle strutture dell’isola, e quanti invece difendono tenacemente il sistema di potere mafioso». Il dirigente politico non limitava però il proprio intervento all’analisi e alla denuncia. Egli riteneva che per sostenere lo scontro occorressero strumenti nuovi, soprattutto di livello normativo. Il 6 marzo alla Camera dei Deputati annunciava quindi una legge che avrebbe proposto «misure di prevenzione e di accertamento e misure patrimoniali nei confronti degli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, la modifica del codice penale, con la definizione di associazione mafiosa, con l’obiettivo di perseguire come reato la semplice appartenenza all’associazione stessa». La legge nota come 416 bis, di cui Pio La Torre era il redattore e il primo firmatario, veniva presentata alla Camera dei Deputati il 31 marzo 1980.
Gli eventi incalzavano. Ancora nel Palermitano venivano assassinati Emanuele Basile a Gaetano Costa, e il dirigente del PCI, mentre faceva il possibile per allontanare dalle secche il suo disegno di legge, continuava ad esporsi pericolosamente. In una Tribuna politica televisiva del 30 maggio 1981 egli si domandava: «Perché sottovalutare la spaventosa coincidenza tra la presenza di Sindona a Palermo e l’esecuzione mafiosa del giudice Terranova?». Rompendo ogni indugio, tornava poi in Sicilia, a dirigere il comitato regionale del partito. Finiva quindi sotto una pressante minaccia, mentre si accendeva nel Paese la vicenda dei missili Cruise e Pershing che la NATO, con l’avallo del governo italiano, intendeva installare nei pressi di Comiso. L’uccisione di Pio La Torre e Rosario Di Salvo avveniva appena otto mesi dopo l’arrivo del primo a Palermo. Quale ne era il significato? Ugo Pecchioli, responsabile del partito per il problemi dello Stato, in un’intervista su «L’Ora» del 2 maggio 1982, parlava di una decisione presa in alto, «dai burattinai della mafia, perché piena di implicazioni politiche». In una relazione interna dell’11 maggio rilevava inoltre che non poteva essere esclusa nessuna ipotesi, «neppure quella da qualche parte affacciatasi di connessioni straniere». E da allora l’argomento delle possibili convergenze, politiche e atlantiche, ha attraversato i decenni. Mancati però i riscontri, la morte di La Torre e del suo compagno di partito, addebitata in via definitiva a Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca e altri capimafia, resiste tra i segreti di Palermo e della Repubblica.
La considerazione del lavoro politico e civile di Pio La Torre è cresciuta di molto lungo gli anni, maggiormente per l’evoluzione, abnorme, registrata dalle narcoeconomie e dagli imperi criminali. In numerosi Paesi il dirigente del PCI è riconosciuto come un legislatore che ha anticipato i tempi, per avere inaugurato la storia delle leggi di contrasto alla criminalità finanziaria. La Torre ebbe tuttavia una vicenda complessa, che solo in parte è riferibile al suo impegno contro la mafia. Egli fu, prima di tutto, un meridionalista, che dagli anni del latifondo operò per il riscatto del Sud. Da questa storia meno nota, o meno considerata, ma importante, prendiamo allora le mosse, con il figlio Franco La Torre, esperto di cooperazione allo sviluppo, per definire i percorsi del dirigente politico assassinato, fino all’epilogo e ai perché senza risposta.
Franco, come merita di essere ripensata oggi l’esperienza politica e di vita di Pio La Torre? Ritieni che in questi decenni sia stato ricordato in maniera adeguata?
Nonostante Pio La Torre, a trenta anni dal suo omicidio, sia ricordato come un uomo politico impegnato sul fronte antimafia, chi ha avuto la fortuna o la ventura di conoscerlo e di lavorare con lui sin dall’inizio della sua carriera, che comincia alla fine degli anni quaranta, sa che egli ha dedicato il suo impegno al riscatto della Sicilia, e la lotta antimafia era uno degli strumenti per perseguire questo fine. Il punto di vista che restringe la figura di Pio La Torre all’impegno antimafia, gli fa quindi torto. Questo non vuol dire che sin dai primi anni egli non abbia svolto un ruolo importante su questo terreno. Dopo la carcerazione che subì per le occupazioni delle terre a Bisacquino, giovanissimo fu eletto al consiglio comunale di Palermo, dove si distinse per una costante denuncia degli interessi politico-mafiosi, legati al sacco della città. Nel corso degli anni poi la sua facoltà di analisi del mondo mafioso andò affinandosi. È comprensibile allora che nella memoria pubblica del nostro Paese rimangano impresse alcune conquiste a lui associate: la legge che porta il suo nome, la definizione del reato di associazione mafiosa, le procedure legali di confisca dei beni alla criminalità organizzata. Limitare tuttavia il racconto della sua storia, l’analisi del suo impegno, a questo aspetto, rischia di oscurare il dirigente politico che operava appunto per lo sviluppo della Sicilia e del Mezzogiorno.
Come si sono espressi in concreto il meridionalismo e l’impegno politico di Pio La Torre? Oltre alla legge che porta il suo nome, tenuta in alta considerazione in gran parte dei Stati dell’Europa e in altri continenti, quali eredità civili ha lasciato al Paese?
Pio La Torre ha esercitato il suo impegno di meridionalista in varie sedi, all’Assemblea ragionale siciliana, in Parlamento, in seno alla Commissione Agricoltura, dove ha contribuito alla stesura di leggi importanti per il progresso delle popolazioni meridionali. Ma lo ha espresso in modo operativo e fattivo in momenti significativi della vita nazionale. Fu un animatore delle battaglie contro il latifondo, per l’applicazione della legge Gullo, da quelle fondamentali quelle del 1946-47 e quelle del 1949-50. Nei primi anni settanta, dopo gli anni di Ciccio Franco, fu lui a riportare il movimento sulla piazza di Reggio Calabria, con l’organizzazione della prima grande manifestazione di sinistra, nella quale Pietro Ingrao tenne un discorso memorabile. Nel 1980 fu ancora mio padre, a fianco di Enrico Berlinguer, a coordinare una grande azione di solidarietà verso le vittime del terremoto dell’Irpinia. In quei frangenti, furono la lega delle cooperative, i giovani comunisti e le federazioni del Pci, in particolare quelle della Toscana, le prime organizzazioni italiane a mobilitarsi, mentre Pertini, recatosi sul luogo della tragedia, denunciava le inefficienze dello Stato. Mi preme dire poi che fu ancora Pio La Torre, negli ultimi anni della sua vita, a organizzare una delle più straordinarie mobilitazioni pacifiste avvenute in Italia, contro l’installazione dei missili atomici in Europa, gli SS20 e in particolare i Cruise e i Pershing in Sicilia, presso la base militare dell’aeroporto di Comiso. Ecco, pure per ragioni di questo tipo, che sono quelle che meno si conoscono, la lezione di La Torre merita di essere ricordata e ripensata.
Negli anni 49-50 il movimento contadino entrava in una fase molto delicata. Emergevano tensioni significative, soprattutto con il Pci, che considerava esaurita la fase di lotte che con l’occupazione delle terre aveva dato avvio al «vento del sud». Le iniziative di quella stagione diedero comunque una ulteriore spallata al latifondo siciliano, con la legge agraria votata dall’ARS nel 1950, che obbligava alla limitazione della proprietà, oltre che alla miglioria e alla coltivazione della terra. In quel contesto tanto travagliato, quale fu il rapporto tra Pio La Torre, giovane sindacalista, e il dirigente comunista Girolamo Li Causi?
Faccio riferimento alla mia memoria, a partire dai primi ricordi, che mi riportano alla casa di Palermo dove abitavamo. Ricordo mio padre e Girolamo Li Causi che di frequente, seduti nel giardino, parlavano di politica. Ecco, basta questo a testimoniare che tra loro doveva esserci un rapporto molto stretto, franco, autenticamente politico, garantito dal prestigio, l’autorevolezza, le capacità, la dignità, il carattere di Girolamo Li Causi. La storia ci dice tuttavia che, per ragioni di linea politica, il loro rapporto fu attraversato pure da divergenze, in particolare in alcuni snodi del dopoguerra. Dall’autunno 1949 alla primavera del 1950 mio padre, allora responsabile della Federterra, e un altro giovane dirigente del movimento democratico siciliano, Pancrazio De Pasquale, all’epoca segretario della federazione provinciale di Palermo, ritenevano fosse il momento opportuno per rilanciare le lotte contadine in Sicilia. E si mossero in questo senso con determinazione. Essi non furono sostenuti però pienamente dal partito, e dallo stesso Girolamo Li Causi, il quale, in sintonia con le scelte della direzione nazionale, riteneva che la battaglia del mondo contadino avrebbe dovuto essere canalizzata a quel punto nella dialettica parlamentare. Gli scritti di Francesco Renda e di altri studiosi hanno restituito poi la verità storica su quegli avvenimenti.
Passiamo a un altro dettaglio. Nel 1948, dopo l’uccisione di Rizzotto, il giovane sindacalista Pio La Torre conosceva a Corleone il giovane capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa. Due mondi molto distanti s’incontravano. Come e perché questo accadeva? E quel rapporto di stima, ebbe un seguito lungo gli anni?
L’episodio risale al 1948. Pio La Torre s’incontrò il giovane capitano Carlo Alberto Della Chiesa a Corleone, quando quest’ultimo, a capo della tenenza locale, svolgeva le indagini sull’omicidio di Placido Rizzotto. Mio padre aveva appena assunto la reggenza della camera del lavoro che fino ad allora era stata guidata dal sindacalista ucciso. L’occasione dell’incontro fu il comizio che La Torre tenne in memoria del giovane compagno. Finito il discorso l’allora capitano Dalla Chiesa si presentò a mio padre, gli strinse la mano e si complimentò con lui. Era la dichiarazione reciproca di un rispetto che si sarebbe perpetuato e consolidato lungo gli anni. Si ritrovarono, ancora nell’isola, negli anni sessanta, quando Dalla Chiesa assumeva l’incarico di generale comandante della legione della Sicilia occidentale e mio padre era segretario regionale del Pci. Anche quelli erano tempi difficili: era in atto il sacco edilizio di Palermo ed era in atto una guerra di mafia. All’inizio degli anni ottanta infine, quando fu chiaro che i poteri criminali avevano dichiarato guerra alle istituzioni, con l’adozione del metodo terroristico, Pio La Torre fu tra i principali sostenitori della nomina di Carlo Alberto Dalla Chiesa ad alto commissario per la lotta alla mafia in Sicilia. Gli effetti di quella sollecitazione furono produttivi ma amari: il generale si trovò a Palermo con l’incarico di prefetto il giorno successivo all’assassinio di mio padre. Ma la nomina di alto commissario per la lotta alla mafia dovette essere conferita al prefetto De Francesco, perché anche Dalla Chiesa, dopo 100 giorni di servizio in Sicilia, era stato ucciso, il 3 settembre 1982.
Gli assassinii di quegli anni sconvolsero la vita siciliana e sgomentarono l’intero Paese. Dopo tanti anni, cosa si può dire delle ragioni di fondo, del calcolo strategico che vi era sotteso?
Credo che occorra partire da un dato di fatto. Dalla fine degli anni settanta la mafia riuscì a decapitare la leadership della politica e delle istituzioni in Sicilia. In poco tempo eliminò il capo del governo regionale, Bernardo Mattarella, il capo dell’opposizione, Pio La Torre, il più alto rappresentante dello Stato, Carlo Alberto Dalla Chiesa, numerosi giudici e funzionari di pubblica sicurezza. Di certo esistevano motivi di autoconservazione. Per la prima volta nella storia della Repubblica si stava consolidando nell’isola una leadership politico-istituzionale coesa e determinata, con un obiettivo categorico: sconfiggere la mafia. Le cosche avevano quindi sufficienti motivi per cercare di impedirlo, di correre ai ripari, prima che fosse tardi. Questa penso fosse la motivazione di carattere generale. Poi, la scelta dei bersagli, di volta in volta, dovette essere ispirata da motivazioni specifiche. Ognuna delle vittime costituiva un ostacolo da eliminare: Chinnici e Costa a causa delle loro inchieste giudiziarie, Montana e Cassarà per le loro investigazioni sul terreno, e così via. Per quanto riguarda infine la politicità dell’intera operazione, non ho dubbi per due motivi. Il primo è che, in linea di massima, i bersagli furono appunto politici e istituzionali. Il secondo è che, come testimonia la storia della mafia, quando le cosche puntano a obiettivi di quel livello, non lo fanno senza garanzie e condivisioni politiche.
In quella stagione in Sicilia e in tutto il Paese esordiva un grande movimento pacifista. Era la risposta democratica e unitaria alla decisione della NATO, avallata dal governo italiano, di installare nell’isola oltre un centinaio di missili a testata nucleare Cruise e Pershing. Pio La Torre, sceso in Sicilia per dirigere il partito, era il maggiore animatore di questo movimento, che assumeva presto dimensioni continentali. Dopo la sua uccisione, da più parti, si è presa quindi in considerazione l’ipotesi di una trama complessa, con sinergie di livello internazionale. Questa pista è ancora sostenibile?
Numerosi analisti, in larga parte non italiani, hanno sostenuto in effetti che una motivazione in più alla necessità di eliminare mio padre poté derivare proprio dal suo impegno sul fronte della pace, perché era inaccettabile che la decisione della NATO di installare i missili in Sicilia fosse messa in discussione. All’origine, come documentano gli storici, i missili Cruise e Pershing dovevano essere installati nella Germania occidentale. Ma l’allora cancelliere della Repubblica Federale Tedesca Helmut Smith si oppose con fermezza, buttando sul tavolo l’importanza strategica della politica di apertura verso l’Est. L’installazione dei missili nel territorio tedesco avrebbe vanificato gli sforzi di distensione di quegli anni, che avrebbero dato peraltro risultati importanti dopo il crollo del muro di Berlino e l’implosione del blocco sovietico. La decisione di installare i missili atomici in Sicilia era concepita allora come definitiva e irrevocabile. Mio padre era consapevole di questo, e sapeva, di conseguenza, che un movimento come quello che si era formato in Europa e in Italia, che aveva assunto proporzioni impensabili, non poteva essere tollerato dagli ambienti del patto atlantico. Sono passati trenta anni e forse il ricordo è andato affievolendosi. Quel movimento coinvolse milioni di persone. Solo in Sicilia furono raccolte un milione di firme. Un siciliano su cinque appose la sua. Ogni famiglia aveva quindi un firmatario. Tutta l’isola, o comunque la stragrande maggioranza di essa, era contro. Se mio padre avesse avuto la possibilità di proseguire la battaglia, la vicenda si sarebbe potuta complicare seriamente. Ed è questo il motivo per cui la sentenza definitiva del processo sul delitto, con cui sono stati condannati tutti i componenti della cupola mafiosa, ha lasciato aperto uno spiraglio pure in questa direzione.
Sono emersi indizi che portano, ancora oggi, a valorizzare questa pista aggiuntiva? E in che modo il movente militarista e atlantico poté essersi combinato con quello politico-mafioso, che rimane fuori discussione?
C’è un indizio che non andrebbe sottovalutato. Mio padre, che aveva sempre fatto politica alla luce del sole, era osservato dai servizi segreti da circa un ventennio. Dagli archivi sono usciti rapporti dettagliati, che sono stati riportati negli atti del processo. Poi, improvvisamente, questa attività di osservazione, si interruppe. E questo avvenne appena quindici giorni prima dell’omicidio. Si tratta di un fatto curioso, il cui significato non è stato mai chiarito. Il movente politico-mafioso del delitto è assodato. Pio La Torre faceva paura alla mafia e ai politici collusi per il suo impegno, la sua determinazione, ma più di tutto, in quegli anni terribili, per essere stato il primo firmatario e il relatore d una legge che segnava una svolta nelle normative di contrasto alla criminalità organizzata. Non può essere escluso tuttavia che, in quelle particolari circostanze, si fossero create delle sinergie aggiuntive.
Anche sul delitto La Torre-Di Salvo si sono avuti dei depistaggi. Uno dei più significativi è stato quello della «pista interna», con cui si è cercato di far leva su alcune zone d’ombra del Partito Comunista in Sicilia. Cosa si può dire oggi al riguardo?
Era appunto una pista falsa, che è evaporata da sola. Il magistrato Giovanni Falcone la prese in considerazione solo per scrupolo, perché il pubblico ministero ha il dovere di sottoporre a esame qualsiasi ipotesi, anche la più inverosimile. Ma la rigettò in modo definitivo. Indubbiamente, nel PCI dell’isola esistevano delle zone d’ombra. In seno alle cooperative e in altri ambiti si erano sedimentati interessi di tipo affaristico, che deturpavano la storia civile del partito. Pio La Torre ne era a conoscenza ed era motivato a combatterli. Non può escludersi allora che queste realtà, avvertendo i pericoli che correvano, avessero soffiato sul fuoco. Ma non esistevano dentro il PCI le capacità organizzative e logistiche per portare a termine e gestire un crimine di stampo mafioso di quella portata. In conclusione, si è cercato solo di intralciare il lavoro degli inquirenti e di disorientare l’opinione pubblica.
L’uccisione di tuo padre era nell’aria. Enrico Berlinguer che commemorò il suo compagno a Palermo disse che si trattava di un delitto politico e che Pio La Torre sapeva di essere nel mirino. Lo sapeva e, come si è venuti poi a conoscenza, ne parlava con compagni di partito e amici. Da dove derivava questa consapevolezza?
Dopo il delitto si seppe che nei mesi del suo soggiorno palermitano mio padre aveva ricevuto numerose telefonate minacciose. Per la prima volta nella sua vita aveva deciso di chiedere quindi il porto d’armi e si era dotato di una pistola, anche se non possedeva nessuna cognizione di meccanica. E la stessa cosa aveva fatto Rosario Di Salvo. Su suggerimento del partito mio padre aveva cambiato inoltre abitazione e aveva suggerito al suo compagno di modificare di continuo i percorsi in auto che ogni mattina lo portavano in ufficio, alla sede regionale del Partito. Era consapevole in realtà che la sua vita era appesa a un filo. L’ultima volta che incontrò Emanuele Macaluso, pochi giorni prima di essere ucciso, gli disse: «Emanuele, la prossima volta tocca a noi».
Dal latifondo alla Palermo dei primi anni ottanta, cioè dalla Sicilia alla Sicilia, passando per un gran numero di vicende politiche e civili, nel Paese. Chi era Pio La Torre al capolinea di questo lungo viaggio?
Alcuni giorni fa abbiamo visto alcune carte di mio padre. Abbiamo trovato le tessere dell’AMAT di Palermo. Negli anni del latifondo il partito non dava ai suoi quadri l’automobile, né l’autista. Dava la tessera dell’autobus. Erano altri tempi. Allora Pio La Torre era un giovane dirigente della Federterra. Nel 1981, quando decise di tornare in Sicilia e riprendere il posto di segretario regionale che aveva occupato negli anni sessanta, era un dirigente nazionale del Partito Comunista e un parlamentare tra i più noti e attivi nella politica italiana. C’era di mezzo una maturazione organizzativa di trent’anni. E fu soprattutto questo a renderlo, in quei frangenti, un obiettivo della mafia.
Il processo per l’uccisione di La Torre e Di Salvo si è chiuso con la condanna degli esecutori materiali e dei componenti della cupola. Fino a che punto si può dire che giustizia è stata fatta?
Nonostante l’impegno dei magistrati, che è fuori discussione, non possiamo dire che, fino ad oggi, giustizia sia stata fatta. Il pubblico ministero Nino Di Matteo, che condusse un’inchiesta molto rigorosa, rilevò che gli elementi acquisiti lasciavano intendere una convergenza di interessi, ma in assenza di indizi determinanti non poté continuare l’azione penale in questa direzione. Gli input politici, seppure impliciti e nella logica dei fatti, sono rimasti perciò fuori dal processo. La condanna degli esecutori e dei membri della cupola rimane ovviamente un fatto importante, ma non è tutto: avremmo voluto di più. Sono passati trent’anni, e la situazione non è cambiata. Si può fare ancora qualcosa? Non lo so.
Fonte: Rivista mensile “Narcomafie”