Il giorno del 68° anniversario dell'eccidio di Sant'Anna ho deciso, insieme a mia moglie Giovanna, a alcuni amici, di andare sul luogo di quell'orrenda strage.
Generalmente non amo le "celebrazioni" rituali, ma quel giorno è sicuramente un'esperienza diversa, molto poco rituale.
Nel lasciare la macchina all'inizio della strada per Sant'Anna abbiamo deciso di non prendere la navetta, ma di ripercorrere i sei chilometri e mezzo di strada a piedi.
In quel procedere ha fatto compagnia il silenzio, interrotto dal passaggio periodico della navetta, ma non un silenzio anonimo, un qualcosa di profondo, come se, in qualche modo, celebrasse la sacralità di quel luogo.
Forse era quella la strada percorsa dalle truppe naziste accompagnate dai fascisti versiliesi, dirette a sant'Anna per compiere un eccidio, non per un'azione militare contro le forze di liberazione partigiane.
A sant'Anna bisogna andarci apposta, non ci si passa, così come a Forno di Massa, dove qualche settimana prima i nazisti avevano compiuto un'altra strage.
Camminando il silenzio accompagnava questi pensieri, nei quali inesorabilmente si accavallavano le immagini di quei tragici, assurdi e irraccontabili momenti, quegli istanti nei quali la barbarie umana ha ancora una volta dimostrato la sua capacità distruttiva e devastante.
In lontananza, all'improvviso, il rintocco di una campana, come a riaffermare “non semplice ricorrenza, ma percorso della memoria”.
Non si vedeva ancora il paese, in lontananza emergeva tra la fitta boscaglia la punta del campanile di quella chiesa dove si è consumata una parte della tragedia.
Finalmente, dopo un'ora e tre quarti, l'arrivo nella piazza della chiesa. La sensazione improvvisa di smarrimento, forse anche la paura di inadeguatezza, di non voler profanare quel luogo con la curiosità... la sensazione chiara di non voler parlare, ma solo guardare e leggere in silenzio, con rispetto verso quel luogo, verso quei morti innocenti, quelle donne, quei bimbi, quei vecchi che sono caduti sotto il fuoco dell'esercito nazista e dei fascisti.
I volti dei bimbi caduti raccolti nella chiesa e all'improvviso quell'organo donato da due musicisti tedeschi qualche anno fa.
Un dono tedesco... un dono di una Germania diversa, la capacità della comunità ferita di percorsi di riconciliazione, di perdono.
Perdono che non vuol dire dimenticare e cancellare l'orrore subito, né vuol dire stendere un velo sulle responsabilità dei colpevoli dell'eccidio: questo mai!
Proprio mantenendo vivo il ricordo e la memoria forse è possibile costruire una cultura, una convivenza, un'etica che impedisca il ripetersi di quelle tragedie...
La memoria... la percezione di come stiamo progressivamente smarrendo le nostre radici, diventa quasi un vortice terrificante.
Quel luogo, insieme a tanti altri luoghi, come i campi di concentramento, l'olocausto, ma anche anche i genocidi compiuti in Africa, nel più assordante silenzio dell'occidente, o le menzogne delle guerre irachene e afgane, possono essere l'opportunità per rinverdire la memoria.
Quanti dei nostri ragazzi conoscono gli eccidi di allora e quelli odierni? Quanta consapevolezza vi è nella struttura “antifascista” della nostra Costituzione?
Recentemente persone di un'associazione locale hanno ritenuto superfluo, perché troppo rituale, richiamare i valori dell'antifascismo tra i fondamenti della realtà associativa.
Non è che nel ritenere rituali quei valori costituenti della nostra repubblica, rischiamo poi di aprire una voragine culturale che fa scorrere un fiume di oblio sulla nostra storia?
Non è casuale il fatto che ormai sia ritenuto naturale che forze dichiaratamente fasciste e naziste possano esprimersi nelle nostre città, senza che siano perseguite giuridicamente.
La piazza della chiesa di Sant'Anna, quel monumento che richiama altre stragi... “come a Marzabotto”, “come a... “, “come a ….”, la campana della chiesa...
I “suoni della memoria”, opera dei ragazzi del laboratorio delle Meraviglie della Scuola Media di Marzabotto.
Ancora la memoria ritorna... quel posto è memoria, memoria di una tragedia, ma memoria ancora viva, vitale... che chiede di essere alimentata.
I suoni delle gocce di argilla bianca mosse dal vento, come una leggera melodia che accompagna quel nostro pellegrinaggio.
Salendo fino all'ossario, lungo il bosco, percorriamo la via crucis che abbina l'immagine del calvario del Cristo con il calvario imposto dai soldati tedeschi alle vittime inermi.
Mentre saliamo all'ossario prende la parola, per l'intervento conclusivo, un tedesco, il Presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz (quello che fu definito da Berlusconi Kapò).
Che contrasto sentire quelle parole in tedesco, in quel luogo profanato dai tedeschi. Chissà se ancora quella lingua fa paura tra le vittime dell'eccidio?
Eppure al tempo stesso è un segnale... un tedesco che chiude le celebrazioni dell'anniversario, un tedesco che non nega colpe o responsabilità, un tedesco che si inchina dinanzi a quell'orribile tragedia...
Un discorso vero, reale, per nulla rituale... parole vive che si incarnano nel dolore di quel luogo, facendo si che dalla disperazione possa crescere un albero diverso...
"Tutte le volte che la Germania ha provato ad imporre la sua volontà ne sono derivate conseguenze tragiche..."
"Mio padre era un soldato tedesco, in Russia, in Francia... ma non era un nazista... la Germania è anche questa..."
"Non voglio una Europa tedesca, voglio una Germania Europea, perché solo nell'Europa possiamo trovare la forza affinché questi drammi non si ripetano", parole queste che forse contrastano con la politica attuale del governo tedesco dinanzi a questa crisi che viviamo.
La musicalità dura di quella lingua e l'umanità delle parole... Il suono di parole tedesche come bisogno, ancora una volta, di riconciliazione, di perdono e, al tempo stesso, di mantenere la memoria, memoria di quello che è avvenuto, memoria della tragedia, memoria e assunzione delle responsabilità.
Scendendo ci avviamo al museo, ancora una volta luogo per coltivare e rendere dirompente la memoria... la storia della lotta partigiana, i bombardamenti... l'eccidio.
Gli oggetti ritrovati delle vittime, una bambola, un vestito, un orologio... i racconti e i ricordi scritti dei pochi sopravvissuti, parole semplici, immediate che esprimono la drammaticità inenarrabile di quei fatti.
Ci prepariamo a lasciare quel luogo carico di emozioni attendendo la navetta nella piazza
intitolata ad Anna Pardini, una bimba di soli 20 giorni che la crudeltà dei soldati nazisti ha strappato al girotondo nel mondo.
Non una vittima di un bombardamento, ma una bimba uccisa dalle raffiche di mitra e dalle baionette.
Scendiamo verso la macchina lasciata alle "Balze", nel piano... ancor una volta in silenzio ci abbraccia, guardando quei boschi, quei sentieri... ci accorgiamo di come fare memoria non sia un gesto rituale, ma una necessità a cui dobbiamo riabituarci. Abbiamo accettato di vivere il nunc, senza pensare alle nostre radici ed incapaci di sognare l'utopia del futuro.
Nel lasciare quel luogo risuona nella mente una frase dei ragazzi della scuola media di Marzabotto a commento della loro opera "... una goccia per dissetare chi ha sete di verità...".
Chi ha sete di verità deve avere memoria e deve sognare un futuro diverso.
Memoria delle origini e utopia come elemento per costruire un mondo diverso, rieducando noi stessi ed educando i nostri ragazzi a percorrere i sentieri della memoria e al tempo stesso alimentando l'idea di un futuro diverso.
Gino Buratti
Giovanna Menchetti
Massa, 14 agosto 2012