Pubblichiamo l'intervento fatto da Gino Buratti al seminario "Regolamento comunale per la partecipazione", svoltosi a Massa il 16 e 17 gennaio 2014, orgqnizzato da MassaLab e Massa è Tua
Il tema della politiche e azioni partecipative è stato un elemento centrale di tutto il percorso della Comasca, avendolo assunto come metodo con il quale declinare l'agire politico: questa diventa quindi un'occasione importante per dare concretezza a quelle parole.
In questo mio intervento non entrerò “direttamente” nello specifico del regolamento sulla partecipazione avanzato dall'Amministrazione Comunale, oggetto dei lavori di questi due giorni, bensì vorrei provare a riflettere insieme a voi su quello che dovrebbe stare a monte della decisione di dare una regolamentazione alle forme della partecipazione: contenuti, scelte e motivazioni che, nella opportuna forma, debbano essere esplicitati nel documento.
Sono infatti convinto che, ancor prima delle scelte tecniche e operative, affrontare il tema delle politiche partecipative richieda di definire la cornice culturale e politica che ne determina la scelta, ancor più che limitarsi ad individuare gli strumenti della partecipazione, per quanto necessari.
Mi piace citare Giovanni Allegretti, dell'Università di Firenze, che, rileggendo il dibattito degli anni 1980/90, segnalava come questo spesso abbia “legittimato uno slittamento di sguardi, ossificando tecniche e protocolli partecipativi fino a renderli incapaci di cogliere il carattere sostantivo dei problemi sottesi da ogni processo di dialogo territoriale”.
Per dirla sempre con Allegretti “il concentrarsi sui processi (sul software funzionale) piuttosto che sui loro contenuti (hardware) rischia di sottostimare gli output dei percorsi di progettazione condivisa, ovvero la qualità degli spazi e dei servizi prodotti e trasformati dagli stessi processi partecipativi”.
Credo proprio che quelle parole, scritte nel 2005, siano ancora attuali.
Non vi è un obbligo a scegliere la strada dei percorsi partecipativi, ma se si sceglie questa strada, in un momento di grave crisi della politica e delle istituzioni, non è possibile pensare di adottare puramente scelte e strategie formali, e al tempo stesso si deve essere consapevoli delle implicazioni, delle ricadute e dei cambiamenti che esse inducono.
Allora la prima domanda alla quale un regolamento deve dare una risposta è il perché?: perché un'amministrazione comunale decida di adottare politiche partecipative e se, in questo contesto, ritenga fondamentale tener conto dei fenomeni di aggregazione che nascono, anche spontaneamente, magari per interessi specifici, in un territorio; perché un cittadino, un'associazione, un gruppo organizzato debba richiedere o voler prendere parte a percorsi partecipativi.
Sembrano domande retoriche, ma secondo me non lo è... ed anzi inviterei a riflettere bene prima di rispondere, perché la scelta di percorsi partecipativi comporta paradigmi di lettura dei processi progettuali e decisionali completamente diversi, ci spinge in un ambito in cui l'incertezza può essere il volano di una ridisegnazione delle relazioni sociali, della costruzione di comunità, e al tempo stesso, dalla parte della società, impone un'assunzione di responsabilità e di visione allargata rispetto agli ambiti stretti nei quali spesso ci muoviamo.
Sono già previsti, ad esempio, dalla legislazione vigente, l'obbligo di percorsi partecipativi prima di concludere un processo decisionale (es. la materia urbanistica). E' questa una sorta di partecipazione istituzionale e formale (aggettivo per nulla negativo), ma che rischia, se non supportata da una scelta forte, di rimanere uno strumento semplicemente di valutazione dell'operato di una amministrazione, senza andare a modificare il sistema delle relazioni dentro la città, dell'organizzazione sociale degli spazi e dei servizi.
In tale ottica, voglio condividere con voi, in maniera sicuramente parziale e non esaustiva, la prospettiva dalla quale voglio osservare e analizzare le scelte partecipative.
Viviamo un tempo di crisi della politica e delle relazioni sociali di appartenenza, in un contesto in cui la crisi economico-sociale-culturale può diventare veramente devastante rispetto al modello di società che vogliamo costruire, rendendo spesso sterili tutti i tentativi anche di buona amministrazione.
Viviamo il tempo della parcellizzazione e dell'atomizzazione, anche nelle relazioni sociali, che determina spesso un'incapacità ad andare oltre la propria esperienza, il proprio microcosmo.
In tale ottica, dal mio punto di vista, la scelta di adottare forme partecipative è strettamente connessa con la necessità di mettere in campo azioni di facilitazione di processi aggregativi, invertendo questa tendenza all'atomizzazione, con l'obiettivo di creare comunità consapevoli nella città, siano queste formate da abitanti che hanno uno stesso interesse, da residenti in un luogo o da associazioni che vogliono costruire un sistema di rete per svolgere determinati servizi.
Comunità consapevoli, ovvero comunità capaci di leggere un territorio e di misurarsi, insieme alle amministrazioni, per farlo vivere.
Comunità consapevoli nelle quali si declina la cittadinanza attiva, ma si riscoprono saperi, conoscenze, competenze che spesso rimangono ai margini del contesto.
In qualche modo tutto il percorso della Comasca che abbiamo svolto fino all'elezione di questa Amministrazione comunale è stato anche quello di creare una comunità consapevole, che fosse capace di interrogarsi sulle scelte di governo di questa città, esprimendo programmi, contenuti e classe dirigente.
Come scrive Amerio “la dimensione della partecipazione è quella che allarga il senso della relazione all'intera comunità in quanto conduce gli individui alla discussione, al dialogo come strumento che va a costruire mondi possibili e condivisi, decisioni comuni e responsabilità”.
Può sembrare pura astrazione questa, ma io credo che invece sia la scommessa su come rendere efficaci le politiche che vogliono essere adottate.
Ce lo dicono anche esperienze vicine, la raccolta differenziata, le diverse politiche ambientali, sociali, culturali sono rese possibili solo se il progetto è costruito in maniera partecipata, se è vissuto come un'esperienza di comunità, se, intorno a quel progetto, nasce un senso di comunità che lo sostiene e lo condivide.
Paradossalmente, proprio nelle periferie nostre oggetto di rischio idrogeologico e idraulico un percorso partecipato che valorizzi la comunità locale, può diventare l'elemento sul quale costruire una cultura di attenzione diversa ai fossi e ai canali... una prospettiva che può essere di sostegno alle scelte urbanistiche di messa in sicurezza di un territorio adottate dall'amministrazione.
Ecco perché insisto sulle politiche partecipative che favoriscano il sorgere di comunità, all'interno delle quali maturi una cittadinanza consapevole e attiva.
Perché se riduciamo semplicemente la logica della partecipazione ad una consultazione, anche non formale, non contribuiamo a far crescere il territorio, né favoriamo un cambiamento complessivo di società e di amministrazione.
Questo per me è l'orizzonte in cui deve nascere il bisogno di un regolamento partecipativo. Perché allora questo è solo uno strumento, poco rigido, per mettere in campo azioni promosse dai cittadini, dalle associazioni e dall'amministrazione comunale.
Al tempo stesso però l'amministrazione deve svolgere un ruolo di facilitazione e sua destrutturazione per favorire la nascita di percorsi che portino a costruire comunità consapevoli, in una dialettica, spesso conflittuale, che renda viva la città e ne faccia un luogo e un laboratorio permanente di sperimentazione... reinventando i percorsi di comunicazione bidirezionali tra amministrazione e territorio.
Deve esserci la consapevolezza che un'azione partecipativa, al fine di evitare che si riduca a pura consultazione o concertazione, deve indurre cambiamenti in tutti i soggetti che ne sono coinvolti, quindi anche nell'amministrazione comunale e nella politica.
Cambiamenti metodologici, di prospettiva, di capacità di ascolto, di disponibilità a mettersi in discussione.
Un processo partecipativo è un processo da un lato destrutturante e dall'altro generativo: per percorrerlo è necessario che tutti gli agenti, istituzionali o meno, siano capaci di mettersi in gioco.
Richiede ovviamente da parte dei cittadini la capacità di uscire dalla visione esclusiva del proprio interesse, per approdare ad un interesse più generale (rimettendo al centro della questione una declinazione diversa e più ampia dei beni comuni), ma anche, ad esempio da parte del Comune e della Politica, di comprendere che il proprio punto di vista e la propria prospettiva di analisi non è esclusiva e può essere arricchita.
Si tratta di mettere in campo percorsi, da sperimentarsi e nei quali si sviluppi anche, quasi in maniera pedagogica, una metodologia dello stare dentro ai problemi e delle capacità di ascolto (fatti questi per nulla scontati sia nella società civile che nelle istituzioni)... è un processo nel quale viene posto al centro l'interesse generale, i beni comuni, con particolare riferimento agli esclusi.
Un elemento essenziale, indispensabile per tutti i soggetti coinvolti (cittadini, associazioni, comune, enti, rappresentanze di categoria, gruppi spontanei, comitati...) è la consapevolezza della propria parzialità e avvertire la necessità che solo uno sguardo e un lavoro progettuale sinergico può costruire politiche efficaci ed efficienti.
Sicuramente il coinvolgimento dei cittadini, delle associazioni e dei gruppi deve superare la dimensione episodica e straordinaria, ma deve diventare la linfa quotidiana dell'azione di governo di un territorio.
E' fondamentale che le pratiche decisionali partecipative non si esauriscano nella ripetizione di rituali democratici, ma abbiano la capacità di crescere ed evolversi dinamicamente, suscitando cambiamenti profondi in tutti i soggetti coinvolti.
Dice sempre Allegretti: “Non si tratta di subordinare all'autorità la libertà dei cittadini, ma neanche si umiliare l'autorità delle istituzioni, che in democrazia sono l'espressione sperabilmente genuina del popolo, anzi le valorizza riconoscendo loro – che vuol dire riconoscere anche gli specifici apporti della burocrazia amministrativa e delle tecnostrutture – ruoli di iniziativa, di riconoscimento e di istruttoria dei fatti rilevanti e degli interessi in gioco, di mediazione tra questi, e infine di decisione”.
In gioco c'è la capacità di costruire nuovi modelli di coesione sociali, che nascano anche dalla esplicitazione dei conflitti ma anche dalla capacità, all'interno della comunità, di gestirli per arrivare ad una sintesi condivisa che rappresenti un bene comune.
La partecipazione non è un antidoto e una forma di prevenzione del conflitto sociale, la partecipazione è semmai una valorizzazione del conflitto ed una sua gestione in positivo.
Proprio per questo, non per sfuggire il conflitto, ma per gestirlo diversamente è necessario che il processo partecipativo sia inclusivo, ovvero deve puntare a coinvolgere tutte quelle realtà che sono escluse ed emarginate, per evitare il rischio di parlare tra i “soliti noti”. In un certo senso, proprio i senza-diritto, gli strati più di popolazione più deboli, i marginali, sono coloro cui è destinata più che altri l'apertura partecipativa, al fine di consentire che possano esprimere i loro bisogni, le loro volontà, iniziando a sentirsi un pochino parte di una comunità.
Deve quindi avere come obiettivo quello di costruire nuova cittadinanza, attiva e inclusiva.
Deve cogliere il punto di vista degli esclusi e deve essere generatrice di pratiche politiche e progetti inclusivi.
La partecipazione non è neppure mera consultazione, tanto meno, sebbene doverosa, è semplicemente informazione e trasparenza rispetto agli atti amministrativi e alle decisioni politiche assunte.
In qualche modo la partecipazione è trasformazione del governo delle cose attraverso la cessione di quote di potere ai cittadini da parte dei tradizionali detentori.
Al tempo stesso si chiede ai cittadini, alle associazioni di maturare la consapevolezza che è necessario di dotarsi di strumenti capaci di stare dentro la complessità delle cose e la necessità di cogliere le diverse prospettive.
Per questo credo che un regolamento comunale debba, in qualche modo, esprimere ed essere garante di questo approccio, che non può esclusivamente tradursi in procedure rigide e codificate, dove non si percepisca la volontà di mettersi in gioco e modificarsi.
Alcuni elementi delle azioni e degli strumenti partecipativi da avere presente:
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Devono essere elastiche, capaci di ridefinirsi sulla base del modificarsi del contesto, della problematica e del lavoro svolto: dobbiamo evitare semplicemente di ossificare tutto all'interno, ad esempio, di un regolamento rigido. La rigidità mal si declina con le politiche partecipative, così come le volontà e le culture accentratrici, quelle di scarsa fiducia negli altri, quelle che non riconoscono di cui è portatore l'altro e le parzialità di tutti.
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Devono essere processi che accolgano e siano capaci di avviare percorsi di decostruzione le proprie posizioni e i propri angoli di osservazione: guardare il proprio punto di vista, sforzarsi di comprendere i punti di vista degli altri, cambiare la propria idea, connettere-scambiare i punti di vista, immaginare assieme agli altri nuove configurazioni della situazione.
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Tempistiche: le tempistiche di processi partecipate sono lunghe, questo limite è sicuramente compensato dall'obiettivo di creare intorno a quel tema una diversa coesione sociale. Trattandosi di processi che puntano a condivisone e coesione sociale, dobbiamo essere consapevoli che hanno tempi diversi rispetto alle semplice assunzioni di decisione svolte a maggioranza e minoranza.
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essere fuori da logiche accentratrici e di controllo permanente... rapporto di fiducia e di pari dignità
Io credo che un qualunque regolamento, che non sia frutto semplicemente di una scelta formale e di facciata, debba, in qualche modo, esplicitare le ragioni e le motivazioni che ne stanno alla base, traducendo poi in articolazioni, metodologie e strumenti tale indirizzo, nella logica però della elasticità e disponibilità a sperimentare.
Dobbiamo essere capaci di strumenti ampi, che non siano semplicemente di consultazione e di natura referendaria (per quanto necessari), ma che diventino il volano per partiche e culture politiche più alte.