Pubblicato su "Nonviolenza femminile plurale", n. 121 del 9 agosto 2007, tratto dal sito www.50e50.it riprendiamo il testo della relazione svolta da Lidia Campagnano all'incontro sul tema '50 e 50: per una nuova esperienza della politica" svoltosi all'Università di Pavia il 12 maggio 2007 sulla proposta di legge e sulla relativa campagna promosse all'Unione donne in Italia (in sigla: Udi).
Ringrazio di cuore "Usciamo dal silenzio" e l'Università di Pavia per questo appuntamento al quale partecipo con molto piacere. E vi ringrazio per l'accoglienza che mi avete riservato, calda e gentile.
La proposta che l'Udi ha messo in campo è semplicissima: una proposta di legge di iniziativa popolare, costituita da un breve articolato con il quale si dichiarano irricevibili le liste lettorali che non alternino candidate e candidati e non prevedano una misura del 50% tra candidate e candidati, qualunque sia la forma assunta dalla competizione elettorale e di qualunque appuntamento elettorale si tratti, amministrativo o legislativo. Il nome e lo slogan della campagna è: "50 e 50 ovunque si decide".
Quello che mi preme di comunicarvi è il tessuto di pensieri che ha portato a questa proposta, e che intende reggere questa che sarà - dirò una parolaccia, anzi, due parolacce insieme, di quelle che non si usano più - una "campagna popolare".
Cosa voglia dire poi questa espressione, questo reperto archeologico, soprattutto se ripescato da donne, è cosa che secondo me dobbiamo o possiamo desiderare di decidere tutte insieme, in un vero e grande dibattito politico.
Semplice l'articolato di legge che offriamo alla firma di donne e uomini, complesso il tessuto di idee. Perciò, come in un dibattito fondato su una autenticità, di qui in poi dirò di ciò che io personalmente penso di portare nella campagna dell'Udi, invece che presumere di rendere un'idea "media" dei pensieri delle donne dell'Udi. E inizierò dalla mia lettura della proposta di legge.
L'articolato non prevede sanzioni o punizioni per chi non rispetta questa legge ma soltanto l'irricevibilità delle liste.
Questa scelta ai miei occhi sta a dire che non si intende dare avvio o partecipare alla guerra tra i sessi. Inoltre l'obiettivo non è, genericamente, avere più donne in politica, e meno che mai tutelarne una quota. Nè questa proposta ha per scopo la creazione della rappresentanza di genere. È un'altra cosa. Che cosa si vuole con questa proposta? Tenterò di dare la mia interpretazione.
Io penso che 50e50 significhi mettere - o rimettere - la politica tra gli uomini e le donne. E farlo, questa volta, a partire dalla sfera pubblica, e non da una rivoluzione interpersonale.
Vengo dal femminismo e il femminismo ha affermato la necessità, la possibilità e il desiderio di fare una rivoluzione a partire dai rapporti interpersonali, e prima di tutto dai rapporti uomo/donna.
Perché, oggi, una femminista come me afferma la necessità di rimettere la politica tra uomini e donne sul piano pubblico, prima di tutto, piuttosto che su quello privato? Per quel che mi riguarda, questa decisione deriva da un giudizio su quello che è successo, e da anni ormai, nella sfera dei rapporti interpersonali. Ritengo che il piano creativo interpersonale, quello dove, come femministe, volevamo portare una rivoluzione, è stato devastato ed è regredito.
È regredito per molti motivi attinenti alla società, alla cultura, all'economia e alla politica, e tra questi per il fatto che la sfera pubblica, e la politica in particolare, non hanno assunto, interpretato, solidificato le creazioni migliori scaturite dalla microrivoluzione della sfera interpersonale.
La politica, la sfera pubblica e in gran parte anche la cultura hanno tratto da quella microrivoluzione ciò che poteva servire per incrementare un grande rilancio dell'individualismo, utile a soffocare una stagione e una generazione che si erano orientate a un impegno di trasformazione sociale. E si è trattato di un individualismo per niente liberatorio nei confronti delle relazioni interpersonali, di un individualismo indifferente al peso mortale che condizioni sociali diseguali, ingiuste e piene di precarietà riversano sulla qualità, la libertà, il tempo necessario a incivilire queste relazioni. Tutte queste relazioni: tra uomo e donna, tra generazioni diverse, tra donne, tra uomini, tra adulti e bambini...
Il risultato di questa dispersione della potenziale creatività etica, intellettuale e politica delle relazioni interpersonali è un individuo gonfio di sè e in realtà debolissimo, insicuro, impoverito. Impoverito in tutti i sensi.
Termini come povertà e precarietà indicano di solito la condizione economica prevalente nel mondo d'oggi. Ma qui e ora vorrei soffermarmi soprattutto sulla povertà culturale che ha colpito le relazioni tra gli uomini e le donne.
Molto si parla della famiglia, di questi tempi, e spesso in modo analogo a destra e a sinistra, nel senso che dappertutto si tace allo stesso modo sul fatto che la famiglia è diventata visibilmente e brutalmente il precipitato delle povertà, anche laddove il reddito è sufficiente e sufficientemente stabile.
Dovrebbe balzare agli occhi il fatto che, dopo decenni di grande sviluppo delle discipline della convivenza e della conoscenza di sè (psicologie, pedagogie, sperimentazioni, ricette, dibattito sulle medesime) nelle famiglie sembrano essere spariti anche gli usi, le cognizioni e le tecniche elementari della sua organizzazione interna. La famiglia non ce la fa più: lo sanno tutti, la televisione lo racconta ogni giorno, e non solo nella cronaca nera, che pure ha aspetti semplicemente folgoranti da questo punto di vista, ma anche nel più banale reality show. Invece il discorso politico si incarica, per così dire, in prima persona di una esaltazione della famiglia come unico luogo della convivenza allo stato puro, allo stato primario e sentimentale... benché a sua difesa si riesca solo a immaginare qualche assegno in più: un discorso che non merita nemmeno di essere definito ideologico.
Per questi motivi io ritengo che si debba rimettere la politica tra uomini e donne, ma questa volta sulla scena pubblica e sulla scena politica in particolare.
A partire da che cosa? A partire da una considerazione antropologica: la convivenza sulla faccia della Terra, la convivenza della specie umana, è convivenza di donne e di uomini. Se questo dato materiale non viene messo a tema, e non diventa cultura, accumuliamo riserve di barbarie - nella nostra vita collettiva - praticamente inesauribili.
Penso che il porre questo tema antropologico nel bel mezzo della scena pubblica possa anche ridare senso, connotato di civiltà, progettualità alle relazioni interpersonali tra uomini e donne. Che non sono meno colpite delle relazioni politiche, ma le cui ferite continuano a non essere prese in considerazione nel dibattito politico. E l'unico modo, almeno ai miei occhi, per imporle oggi e con la dovuta urgenza alla considerazione politica è rappresentarle direttamente "ovunque si decide": in un quadro di democrazia paritaria. Solo una scena segnata da questa duplice e quantitativamente paritaria presenza può, forse, ridare respiro a una cultura delle relazioni la cui fonte non sappiamo più dove si trovi poiché è ostruita.
Prima dicevo: non si tratta a mio parere di una (ennesima) riedizione della guerra tra i sessi, e perciò per quel che mi riguarda parlo di democrazia paritaria e non di democrazia duale, termine che alla mia mente evoca due schieramenti oppure una coppia. Io non sono una seguace della teoria della differenza. Non perché nego la differenza, ma perché mi rifiuto di definirla. Non la voglio definire perché io penso che qualunque definizione va al di là delle intenzioni di chi la afferma ed è destinata a riprecipitare nella sua lunghissima storia culturale.
Gli uomini hanno sempre detto che cosa sono le donne e che cosa sono gli uomini, e a mio parere non cambia molto nel momento in cui le donne cominciano a dire che cosa sono le donne e che cosa sono gli uomini. E là mi sembra che si vada inevitabilmente a parare. Penso che qualunque definizione della differenza, al di là delle intenzioni, vada a finire - e secondo me in parte è andata a finire - nel risveglio e nel consolidamento della duplice paura che i due sessi hanno coltivato fin qui tra loro. La paura, da parte degli uomini, dell'anarchico potere materno - quello che in psicanalisi si chiama "il codice materno", "il codice del desiderio", "l'anarchia femminile del desiderio", con la sua traduzione sociale potenzialmente totalitaria -; e la paura, da parte delle donne, dell'atavica tendenza al potere violento degli uomini.
Uomini e donne sul piano del vissuto, del non detto della differenza, si rapportano tra loro in questa zona cupa che è la paura reciproca.
Reciproca, sì: non c'è solo la paura delle donne nei confronti della intollerabile propensione alla violenza degli uomini nei loro confronti. E dove c'è paura bisogna rielaborare civiltà.
Quale potrebbe essere il contributo di una presenza paritaria nella democrazia a questa elaborazione? Non voglio dire che cosa potrebbe succedere agli uomini, se si realizzasse la democrazia paritaria. Non lo voglio dire per inaugurare, anch'io, un nuovo stile, e lasciare aperta la strada per un dialogo alla pari (e dunque senza escludere il conflitto, la mediazione, la contaminazione dei linguaggi). Che siano gli uomini a parlarci di sè. Ma posso provare a immaginare per quel che riguarda noi, le donne, e per quel che riguarda la politica. Posso cominciare a pensare questo oggetto di desiderio che è per me una democrazia paritaria.
Io penso che la prospettiva della democrazia paritaria susciti paura anche tra noi, paura e resistenze. Nemmeno io sono così estranea a questa paura.
Perché la prospettiva della democrazia paritaria impone di risvegliarsi da una condizione di marginalità, di irresponsabilità, di negatività sia pure critica, sia pure intelligente, nei confronti della politica, condizione nella quale e grazie alla quale molte di noi, in fondo, hanno trovato spazio di espressione.
Molte di noi, o forse una parte di ciascuna di noi, ha trovato il suo spazio di espressione pubblica proprio a partire da questa condizione. Leggo tanti interventi, sul tema della rappresentanza, connotati dalla facilità con cui molte di noi si esprimono criticamente nei confronti della politica maschile, come se fossimo pronte ad entrare sulla scena, quasi in sostituzione: ma quando si accenna concretamente a realizzare questo ingresso il tono si fa meno sicuro. La volontà vacilla. Il fatto è che nell'irresponsabilità forzosa, nella marginalità, tutti i desideri possono avere corso e tradursi nelle più svariate forme di realizzazione, o meglio di compensazione: non così in una democrazia paritaria, nella quale tocca scegliere e decidere con lucidità.
Per giunta tra noi, tra le donne che parlano di politica o la praticano in questo contesto di generalizzata esclusione, la frammentazione è diventata caotica, e a volte anche insensata, a volte tradotta in antipatia.
L'antipatia tra le femministe, tra le femministe e quelle che non hanno vissuto la storia femminista, tra le varie correnti del femminismo, tra le varie associazioni di donne.
Chi non ha percepito mai queste insensate correnti di antipatia? Eppure questo è ancora nulla rispetto al fatto che la distanza tra la storia del femminismo e le donne che sono venute dopo, che sono venute da altrove, che sono comunque lontane da questi orizzonti, è spesso abissale e a volte in costante aumento.
Non è più vero - nonostante quello che ci si racconta - che la comunicazione tra donne è diventata, dopo il femminismo, facile e spontanea. È un inganno: un inganno che ha facilitato l'ingresso di poche donne nella vita sociale e nella vita pubblica, ma d'altro canto le ha rese debolissime. Perché la frammentazione astiosa ha consentito a molte la grande "libertà" di non prendere posizione, di non esporsi. E prendere posizione ed esporsi sono, insieme alla capacità di dialogo e di mediazione e alla capacità di decisione, i tratti fondamentali del comportamento politico.
Uno degli esiti di questa situazione è che tra le donne del movimento, e grazie all'esclusione politica, non si pone quasi più il problema di definirsi su che cosa sia essere una donna di destra, essere una donna di centro o essere una donna di sinistra. Che sono, di nuovo, tre categorie della scena politica, molto elementari, ma assolutamente fondamentali.
Fondamentali persino laddove si siano svuotate di valori, di definizioni e di contenuti, nonché di forme.
È come se tra donne fosse più facile non collocarsi. Questo è normale, ed è per certi versi anche giusto. Nel senso che nel momento in cui si è escluse, si è marginalizzate, si è soltanto eventualmente cooptate per manifesta fedeltà nell'uno o nell'altro schieramento politico, è evidente che non viene spontaneo ripensare in piena autonomia la propria definizione dell'essere donna di destra, donna di centro o donna di sinistra.
Penso invece che la campagna "50 e 50" nel suo senso più profondo favorisca una riscoperta-ricostruzione-rielaborazione di tutto intero lo spessore culturale che richiede una definizione politica e quindi una piena responsabilità politica.
Intendo dire, per esempio, che il primo terreno su cui esercitare l'elaborazione politica, nella pretesa di essere 50 e 50, e perciò nel lavoro del definirsi sulla scena, è la ricongiunzione di ciò che la scena politica sta rovinosamente separando.
Parlo della scissione operata tra quelli che vengono chiamati i "valori" e quelli che vengono chiamati gli "interessi". Vale a dire la scissione tra economia e cultura, la scissione tra la materialità della condizione e il pensiero - e i progetti di trasformazione - relativo alla condizione. Da questa scissione sono venute conseguenze devastanti per la politica.
Faccio un esempio: noi (donne ipoteticamente partecipi di una democrazia paritaria) potremmo interrogare severamente l'economia e i suoi veri o presunti esperti sul dilagare dei rapporti schiavistici di lavoro a partire dal soggetto maggioritario e tipico di questa condizione: le donne.
Le donne nella prostituzione schiavizzata senza frontiere, ma anche le donne soggette a tutti gli elementi di prostituzione che si incuneano nelle relazioni lavorative di ogni tipo (dal lavoro nel campo dello spettacolo televisivo fino alle molestie e i ricatti sessuali in ogni sorta di luogo di lavoro.
Si può dire che milioni di donne incarnino oggi il prototipo di tutte le relazioni schiavistiche di lavoro. Potremmo incominciare con una domanda molto specifica: quanto del Prodotto interno lordo (in sigla: Pil) di ciascun Paese deriva dalla schiavitù delle donne? E arriveremmo, credo, a un quadro del mondo, e dei rapporti tra i sessi nel mondo, veramente impressionante.
Così impressionante da vulnerare qualunque ricerca del piacere, della felicità, della civiltà nelle relazioni amorose di tutti e di tutte.
Perché l'orizzonte mondiale, l'orizzonte economico globale è un'immagine dell'umanità e ha valore universale e perciò stinge sulle relazioni interpersonali. Si tratta dunque di una domanda coinvolgente, una domanda che impegna, che può scuotere e indurre alla parola, alla scelta, alla presa di posizione, finalmente, uomini e donne.
Un altro terreno è quello della laicità.
Quanto la laicità può sopravvivere, persino come vago ideale, nel momento in cui il punto da cui nasce qualunque riflessione religiosa, la questione dell'origine di ogni vita (la questione del generare la vita) è stato invaso e colonizzato, grazie a un voto parlamentare e alla pressione della Chiesa, con la trasformazione dell'embrione umano in soggetto giuridico sotto tutela statale? Parlo della legge 40, una legge! Cioè una cosa pesantissima dal punto di vista simbolico, anche se sembra dormiente nei suoi esiti. La legge dice che quella relazione intima, quel corpo-mente-cuore indissolubile che comprendeva l'embrione nella vita della donna come parte di lei e come possibilità d'altro se e solo se lei può accettare di accompagnarlo nel mutamento, non vale nulla e la nascita deve essere "valorizzata" dall'autorità.
Nel momento in cui si ferisce questa relazione, che è una relazione di pensiero, di sentimento e di corpo, e si definisce l'embrione come qualcosa che prende valore dallo Stato, alla laica creatività di valori (inclusi quelli religiosi) si sostituisce l'alienazione e l'irresponsabilità.
Lì sta una ferita, a qualunque idea di laicità, che solo un dibattito alla pari, un colloquio politico alla pari tra uomini e donne può sanare, a mio parere, con la cancellazione - con ignominia - di quell'articolo di legge.
C'è qualche cosa che, grazie al silenzio sul guasto che si è prodotto nelle relazioni tra uomini e donne, e che comprende aspetti antichi e aspetti nuovi come quest'ultimo esempio dimostra, non viene visto, ed è, nell'imbarbarimento delle vite familiari, l'ignoranza d'amore che avvolge l'esperienza genitoriale.
Famiglie, coppie, individui "incolti d'amore", ha scritto lo psicoanalista Francesco Bisagni riflettendo sui bambini disastrati, "spazzatura degli adulti", che popolano la cronaca nera e a volte gli ambulatori della psiche.
Bisagni continua, nel suo ragionamento maturato nella pratica terapeutica, paventando l'instaurarsi di una società privata della "mente materna": mente colta, fine, che autorizza la vita e con essa l'inizio del pensare, la percezione del valore di vivere. Mente che toglie la paura, invece di instaurarla. Mente creativa perché intima, integra e libera.
Sono molti i silenzi politici che una democrazia paritaria più facilmente potrebbe interrompere, o contribuire a interrompere, in ogni campo della convivenza umana, e quello che sto dicendo vale solo come esempio di quanto una donna appassionata di politica può investire in una campagna come questa.
Esempi di immaginazione già al lavoro, prima ancora che il risultato sia non dico raggiunto ma neppure approssimato.
Non è detto che tutte immaginiamo alla stessa maniera, e al contrario: chissà quante sono le donne che non concordano su nessuna delle mie immagini. Ma la discussione è iniziata e non si può fermare e nemmeno io voglio "fermare" me stessa.
E mi va bene che altre immaginino altro: l'obbiettivo "50 e 50" può effettivamente essere vissuto come riequilibrio della rappresentanza, può essere vissuto come una scena dove, finalmente, vengono rappresentati - non nel senso della rappresentanza, ma della rappresentazione - gli uomini e le donne. Può essere, come dire, semplicemente la bonifica di un orizzonte, di un quadro francamente inguardabile. Può essere un sollievo e un sostegno per le donne che intendono candidarsi.
Tutti desideri legittimi, giusti: in effetti la scena politica istituzionale e mediatica è perfino esteticamente inquietante, nella sua sfilata di giacche e cravatte. E inquietanti finiscono con l'essere anche le poche figure femminili che vi hanno accesso, nella loro "anomalia" vivente.
Inquietanti e imbarazzanti, a volte, nel loro un pò infelice far finta di niente, nel loro esprimersi - di necessità, direi - come se tutto fosse normale e a posto.
Quando una donna sta in una assemblea elettiva, e sa che le donne lì sono una minoranza infima, è portata a cercare di dimenticare la sua eccezionalità, a non guardarsi troppo attorno e a non guardare troppo nemmeno a se stessa. E così non crea neppure uno stile appropriato, non crea tradizione per altre che potrebbero entrare in quelle stesse assemblee.
Mi sono divertita, un giorno, al Senato, a leggere un avviso che diceva: gli uomini devono indossare giacca e cravatta, le donne devono indossare... un abbigliamento decoroso. Ho incontrato uomini giustamente invidiosi per questa prescrizione leggera, se paragonata alla rigidezza dell'abbigliamento loro imposto: e certo l'essere eredi di una tradizione maschilista ha il suo prezzo.
Ma il frequentare i luoghi della democrazia senza l'appoggio di una tradizione non è agevole. E più in generale, il presentarsi come mosca bianca sulla scena politica è un continuo ricordarsi e dimenticare, ricordarsi e dimenticare che sei una donna. Una fatica in gran parte inutile.
E ancora... Essere 50 e 50 ci libererebbe dalla necessità che tanti uomini di buona volontà sentono di dover dire che le donne ci vogliono, in politica, perché portano saggezza, equilibrio, dolcezza, sensibilità, sentimento, buon senso, praticità e non so che altro.
Questa specie di immaginetta di mamma casalinga proiettata direttamente in un governo forse svanirebbe. Effettivamente, oggi c'è una piccola strada di ingresso alla politica, soprattutto a destra, che passa esattamente per l'esercizio di queste virtù domestiche. La politica come amministrazione della casa. Che poi va a sovrapporsi all'idea della politica come amministrazione dell'impresa. Insomma, a qualche moglie o figlia si può pure permettere l'avventura di una qualche associazione al potere.
Ma è ancora politica, questa? Anche a questa domanda si può tornare a dare spessore culturale, così come al nostro essere politicamente collocate, politicamente di parte.
È nel nostro diritto, ma per esercitare questo diritto abbamo bisogno di una nuova esperienza della politica.
Credo - e spero - che nasca una nuova esperienza politica di donne, da questa campagna. Nuova anche rispetto all'esperienza di una come me. Nuova perché ha da studiare, da pensare cose nuove. Io credo che tutto ciò sia molto urgente. Non corrisponde soltanto a un mio desiderio. È urgente.
Ieri sera pensavo: è questa una strada per il rinnovamento della politica? Non ho nessun dubbio? È l'unica, o ce n'è un'altra? Certo è che i grandi cambiamenti intervengono quando un nuovo soggetto, o se preferite, una nuova soggettività entra nella politica.
Ma poiché la proposta di legge di cui stiamo parlando riguarda specificatamente la questione della rappresentanza, va chiarito che le donne che entrassero in questo modo nelle assemblee elettive non rappresenterebbero affatto solo le donne.
Ed è bene così. Perché, rappresentando uomini e donne, dovrebbero dare rappresentazione anche alla relazione tra uomini e donne. E dunque dovrebbero dare forma di civiltà a quella relazione, dichiarando intenti e mezzi per realizzarla, e suscitando dibattito. Questo sarebbe un grande mutamento, un rinnovamento della stessa vita politica; diventerebbe una vita politica che effettivamente rispecchierebbe in tutti i suoi aspetti, un pò di più, la vita sociale, la vita interpersonale, la vita individuale che si fa tra uomini e donne. E questo io credo che muterebbe moltissimo anche le relazioni tra noi, le donne. Diventerebbero più impegnative, più importanti, permeate dalla speranza di cambiare le cose.
Trovarsi in un progetto comune per cambiare le cose è una molla formidabile nelle relazioni; le ripulisce, le rinfresca. E una come me desidera moltissimo di uscire da quella gora delle relazioni politiche tra donne che prima ho descritto come caos, frammentazione, antipatia infinita.
E non solo: desidero, finalmente e di nuovo, una relazione politica tra donne e uomini, oltre che tra donne, dove possa vivere e svilupparsi quella passione per l'Altro che è la fonte del desiderio di convivere bene. La passione per l'Altro è anche la passione per l'altra, e per l'altro non come genere ma come infinita variazione della vita umana. Non l'interlocuzione tra due differenze, ma una vera e incivilita e colta interrelazione tra le infinite differenze degli individui. La politica dunque come condizione di una vita più ricca.
Questo è il mio personale pensiero - sognante - attorno a un semplice articolato di legge.
Ringrazio di cuore "Usciamo dal silenzio" e l'Università di Pavia per questo appuntamento al quale partecipo con molto piacere. E vi ringrazio per l'accoglienza che mi avete riservato, calda e gentile.
La proposta che l'Udi ha messo in campo è semplicissima: una proposta di legge di iniziativa popolare, costituita da un breve articolato con il quale si dichiarano irricevibili le liste lettorali che non alternino candidate e candidati e non prevedano una misura del 50% tra candidate e candidati, qualunque sia la forma assunta dalla competizione elettorale e di qualunque appuntamento elettorale si tratti, amministrativo o legislativo. Il nome e lo slogan della campagna è: "50 e 50 ovunque si decide".
Quello che mi preme di comunicarvi è il tessuto di pensieri che ha portato a questa proposta, e che intende reggere questa che sarà - dirò una parolaccia, anzi, due parolacce insieme, di quelle che non si usano più - una "campagna popolare".
Cosa voglia dire poi questa espressione, questo reperto archeologico, soprattutto se ripescato da donne, è cosa che secondo me dobbiamo o possiamo desiderare di decidere tutte insieme, in un vero e grande dibattito politico.
Semplice l'articolato di legge che offriamo alla firma di donne e uomini, complesso il tessuto di idee. Perciò, come in un dibattito fondato su una autenticità, di qui in poi dirò di ciò che io personalmente penso di portare nella campagna dell'Udi, invece che presumere di rendere un'idea "media" dei pensieri delle donne dell'Udi. E inizierò dalla mia lettura della proposta di legge.
L'articolato non prevede sanzioni o punizioni per chi non rispetta questa legge ma soltanto l'irricevibilità delle liste.
Questa scelta ai miei occhi sta a dire che non si intende dare avvio o partecipare alla guerra tra i sessi. Inoltre l'obiettivo non è, genericamente, avere più donne in politica, e meno che mai tutelarne una quota. Nè questa proposta ha per scopo la creazione della rappresentanza di genere. È un'altra cosa. Che cosa si vuole con questa proposta? Tenterò di dare la mia interpretazione.
Io penso che 50e50 significhi mettere - o rimettere - la politica tra gli uomini e le donne. E farlo, questa volta, a partire dalla sfera pubblica, e non da una rivoluzione interpersonale.
Vengo dal femminismo e il femminismo ha affermato la necessità, la possibilità e il desiderio di fare una rivoluzione a partire dai rapporti interpersonali, e prima di tutto dai rapporti uomo/donna.
Perché, oggi, una femminista come me afferma la necessità di rimettere la politica tra uomini e donne sul piano pubblico, prima di tutto, piuttosto che su quello privato? Per quel che mi riguarda, questa decisione deriva da un giudizio su quello che è successo, e da anni ormai, nella sfera dei rapporti interpersonali. Ritengo che il piano creativo interpersonale, quello dove, come femministe, volevamo portare una rivoluzione, è stato devastato ed è regredito.
È regredito per molti motivi attinenti alla società, alla cultura, all'economia e alla politica, e tra questi per il fatto che la sfera pubblica, e la politica in particolare, non hanno assunto, interpretato, solidificato le creazioni migliori scaturite dalla microrivoluzione della sfera interpersonale.
La politica, la sfera pubblica e in gran parte anche la cultura hanno tratto da quella microrivoluzione ciò che poteva servire per incrementare un grande rilancio dell'individualismo, utile a soffocare una stagione e una generazione che si erano orientate a un impegno di trasformazione sociale. E si è trattato di un individualismo per niente liberatorio nei confronti delle relazioni interpersonali, di un individualismo indifferente al peso mortale che condizioni sociali diseguali, ingiuste e piene di precarietà riversano sulla qualità, la libertà, il tempo necessario a incivilire queste relazioni. Tutte queste relazioni: tra uomo e donna, tra generazioni diverse, tra donne, tra uomini, tra adulti e bambini...
Il risultato di questa dispersione della potenziale creatività etica, intellettuale e politica delle relazioni interpersonali è un individuo gonfio di sè e in realtà debolissimo, insicuro, impoverito. Impoverito in tutti i sensi.
Termini come povertà e precarietà indicano di solito la condizione economica prevalente nel mondo d'oggi. Ma qui e ora vorrei soffermarmi soprattutto sulla povertà culturale che ha colpito le relazioni tra gli uomini e le donne.
Molto si parla della famiglia, di questi tempi, e spesso in modo analogo a destra e a sinistra, nel senso che dappertutto si tace allo stesso modo sul fatto che la famiglia è diventata visibilmente e brutalmente il precipitato delle povertà, anche laddove il reddito è sufficiente e sufficientemente stabile.
Dovrebbe balzare agli occhi il fatto che, dopo decenni di grande sviluppo delle discipline della convivenza e della conoscenza di sè (psicologie, pedagogie, sperimentazioni, ricette, dibattito sulle medesime) nelle famiglie sembrano essere spariti anche gli usi, le cognizioni e le tecniche elementari della sua organizzazione interna. La famiglia non ce la fa più: lo sanno tutti, la televisione lo racconta ogni giorno, e non solo nella cronaca nera, che pure ha aspetti semplicemente folgoranti da questo punto di vista, ma anche nel più banale reality show. Invece il discorso politico si incarica, per così dire, in prima persona di una esaltazione della famiglia come unico luogo della convivenza allo stato puro, allo stato primario e sentimentale... benché a sua difesa si riesca solo a immaginare qualche assegno in più: un discorso che non merita nemmeno di essere definito ideologico.
Per questi motivi io ritengo che si debba rimettere la politica tra uomini e donne, ma questa volta sulla scena pubblica e sulla scena politica in particolare.
A partire da che cosa? A partire da una considerazione antropologica: la convivenza sulla faccia della Terra, la convivenza della specie umana, è convivenza di donne e di uomini. Se questo dato materiale non viene messo a tema, e non diventa cultura, accumuliamo riserve di barbarie - nella nostra vita collettiva - praticamente inesauribili.
Penso che il porre questo tema antropologico nel bel mezzo della scena pubblica possa anche ridare senso, connotato di civiltà, progettualità alle relazioni interpersonali tra uomini e donne. Che non sono meno colpite delle relazioni politiche, ma le cui ferite continuano a non essere prese in considerazione nel dibattito politico. E l'unico modo, almeno ai miei occhi, per imporle oggi e con la dovuta urgenza alla considerazione politica è rappresentarle direttamente "ovunque si decide": in un quadro di democrazia paritaria. Solo una scena segnata da questa duplice e quantitativamente paritaria presenza può, forse, ridare respiro a una cultura delle relazioni la cui fonte non sappiamo più dove si trovi poiché è ostruita.
Prima dicevo: non si tratta a mio parere di una (ennesima) riedizione della guerra tra i sessi, e perciò per quel che mi riguarda parlo di democrazia paritaria e non di democrazia duale, termine che alla mia mente evoca due schieramenti oppure una coppia. Io non sono una seguace della teoria della differenza. Non perché nego la differenza, ma perché mi rifiuto di definirla. Non la voglio definire perché io penso che qualunque definizione va al di là delle intenzioni di chi la afferma ed è destinata a riprecipitare nella sua lunghissima storia culturale.
Gli uomini hanno sempre detto che cosa sono le donne e che cosa sono gli uomini, e a mio parere non cambia molto nel momento in cui le donne cominciano a dire che cosa sono le donne e che cosa sono gli uomini. E là mi sembra che si vada inevitabilmente a parare. Penso che qualunque definizione della differenza, al di là delle intenzioni, vada a finire - e secondo me in parte è andata a finire - nel risveglio e nel consolidamento della duplice paura che i due sessi hanno coltivato fin qui tra loro. La paura, da parte degli uomini, dell'anarchico potere materno - quello che in psicanalisi si chiama "il codice materno", "il codice del desiderio", "l'anarchia femminile del desiderio", con la sua traduzione sociale potenzialmente totalitaria -; e la paura, da parte delle donne, dell'atavica tendenza al potere violento degli uomini.
Uomini e donne sul piano del vissuto, del non detto della differenza, si rapportano tra loro in questa zona cupa che è la paura reciproca.
Reciproca, sì: non c'è solo la paura delle donne nei confronti della intollerabile propensione alla violenza degli uomini nei loro confronti. E dove c'è paura bisogna rielaborare civiltà.
Quale potrebbe essere il contributo di una presenza paritaria nella democrazia a questa elaborazione? Non voglio dire che cosa potrebbe succedere agli uomini, se si realizzasse la democrazia paritaria. Non lo voglio dire per inaugurare, anch'io, un nuovo stile, e lasciare aperta la strada per un dialogo alla pari (e dunque senza escludere il conflitto, la mediazione, la contaminazione dei linguaggi). Che siano gli uomini a parlarci di sè. Ma posso provare a immaginare per quel che riguarda noi, le donne, e per quel che riguarda la politica. Posso cominciare a pensare questo oggetto di desiderio che è per me una democrazia paritaria.
Io penso che la prospettiva della democrazia paritaria susciti paura anche tra noi, paura e resistenze. Nemmeno io sono così estranea a questa paura.
Perché la prospettiva della democrazia paritaria impone di risvegliarsi da una condizione di marginalità, di irresponsabilità, di negatività sia pure critica, sia pure intelligente, nei confronti della politica, condizione nella quale e grazie alla quale molte di noi, in fondo, hanno trovato spazio di espressione.
Molte di noi, o forse una parte di ciascuna di noi, ha trovato il suo spazio di espressione pubblica proprio a partire da questa condizione. Leggo tanti interventi, sul tema della rappresentanza, connotati dalla facilità con cui molte di noi si esprimono criticamente nei confronti della politica maschile, come se fossimo pronte ad entrare sulla scena, quasi in sostituzione: ma quando si accenna concretamente a realizzare questo ingresso il tono si fa meno sicuro. La volontà vacilla. Il fatto è che nell'irresponsabilità forzosa, nella marginalità, tutti i desideri possono avere corso e tradursi nelle più svariate forme di realizzazione, o meglio di compensazione: non così in una democrazia paritaria, nella quale tocca scegliere e decidere con lucidità.
Per giunta tra noi, tra le donne che parlano di politica o la praticano in questo contesto di generalizzata esclusione, la frammentazione è diventata caotica, e a volte anche insensata, a volte tradotta in antipatia.
L'antipatia tra le femministe, tra le femministe e quelle che non hanno vissuto la storia femminista, tra le varie correnti del femminismo, tra le varie associazioni di donne.
Chi non ha percepito mai queste insensate correnti di antipatia? Eppure questo è ancora nulla rispetto al fatto che la distanza tra la storia del femminismo e le donne che sono venute dopo, che sono venute da altrove, che sono comunque lontane da questi orizzonti, è spesso abissale e a volte in costante aumento.
Non è più vero - nonostante quello che ci si racconta - che la comunicazione tra donne è diventata, dopo il femminismo, facile e spontanea. È un inganno: un inganno che ha facilitato l'ingresso di poche donne nella vita sociale e nella vita pubblica, ma d'altro canto le ha rese debolissime. Perché la frammentazione astiosa ha consentito a molte la grande "libertà" di non prendere posizione, di non esporsi. E prendere posizione ed esporsi sono, insieme alla capacità di dialogo e di mediazione e alla capacità di decisione, i tratti fondamentali del comportamento politico.
Uno degli esiti di questa situazione è che tra le donne del movimento, e grazie all'esclusione politica, non si pone quasi più il problema di definirsi su che cosa sia essere una donna di destra, essere una donna di centro o essere una donna di sinistra. Che sono, di nuovo, tre categorie della scena politica, molto elementari, ma assolutamente fondamentali.
Fondamentali persino laddove si siano svuotate di valori, di definizioni e di contenuti, nonché di forme.
È come se tra donne fosse più facile non collocarsi. Questo è normale, ed è per certi versi anche giusto. Nel senso che nel momento in cui si è escluse, si è marginalizzate, si è soltanto eventualmente cooptate per manifesta fedeltà nell'uno o nell'altro schieramento politico, è evidente che non viene spontaneo ripensare in piena autonomia la propria definizione dell'essere donna di destra, donna di centro o donna di sinistra.
Penso invece che la campagna "50 e 50" nel suo senso più profondo favorisca una riscoperta-ricostruzione-rielaborazione di tutto intero lo spessore culturale che richiede una definizione politica e quindi una piena responsabilità politica.
Intendo dire, per esempio, che il primo terreno su cui esercitare l'elaborazione politica, nella pretesa di essere 50 e 50, e perciò nel lavoro del definirsi sulla scena, è la ricongiunzione di ciò che la scena politica sta rovinosamente separando.
Parlo della scissione operata tra quelli che vengono chiamati i "valori" e quelli che vengono chiamati gli "interessi". Vale a dire la scissione tra economia e cultura, la scissione tra la materialità della condizione e il pensiero - e i progetti di trasformazione - relativo alla condizione. Da questa scissione sono venute conseguenze devastanti per la politica.
Faccio un esempio: noi (donne ipoteticamente partecipi di una democrazia paritaria) potremmo interrogare severamente l'economia e i suoi veri o presunti esperti sul dilagare dei rapporti schiavistici di lavoro a partire dal soggetto maggioritario e tipico di questa condizione: le donne.
Le donne nella prostituzione schiavizzata senza frontiere, ma anche le donne soggette a tutti gli elementi di prostituzione che si incuneano nelle relazioni lavorative di ogni tipo (dal lavoro nel campo dello spettacolo televisivo fino alle molestie e i ricatti sessuali in ogni sorta di luogo di lavoro.
Si può dire che milioni di donne incarnino oggi il prototipo di tutte le relazioni schiavistiche di lavoro. Potremmo incominciare con una domanda molto specifica: quanto del Prodotto interno lordo (in sigla: Pil) di ciascun Paese deriva dalla schiavitù delle donne? E arriveremmo, credo, a un quadro del mondo, e dei rapporti tra i sessi nel mondo, veramente impressionante.
Così impressionante da vulnerare qualunque ricerca del piacere, della felicità, della civiltà nelle relazioni amorose di tutti e di tutte.
Perché l'orizzonte mondiale, l'orizzonte economico globale è un'immagine dell'umanità e ha valore universale e perciò stinge sulle relazioni interpersonali. Si tratta dunque di una domanda coinvolgente, una domanda che impegna, che può scuotere e indurre alla parola, alla scelta, alla presa di posizione, finalmente, uomini e donne.
Un altro terreno è quello della laicità.
Quanto la laicità può sopravvivere, persino come vago ideale, nel momento in cui il punto da cui nasce qualunque riflessione religiosa, la questione dell'origine di ogni vita (la questione del generare la vita) è stato invaso e colonizzato, grazie a un voto parlamentare e alla pressione della Chiesa, con la trasformazione dell'embrione umano in soggetto giuridico sotto tutela statale? Parlo della legge 40, una legge! Cioè una cosa pesantissima dal punto di vista simbolico, anche se sembra dormiente nei suoi esiti. La legge dice che quella relazione intima, quel corpo-mente-cuore indissolubile che comprendeva l'embrione nella vita della donna come parte di lei e come possibilità d'altro se e solo se lei può accettare di accompagnarlo nel mutamento, non vale nulla e la nascita deve essere "valorizzata" dall'autorità.
Nel momento in cui si ferisce questa relazione, che è una relazione di pensiero, di sentimento e di corpo, e si definisce l'embrione come qualcosa che prende valore dallo Stato, alla laica creatività di valori (inclusi quelli religiosi) si sostituisce l'alienazione e l'irresponsabilità.
Lì sta una ferita, a qualunque idea di laicità, che solo un dibattito alla pari, un colloquio politico alla pari tra uomini e donne può sanare, a mio parere, con la cancellazione - con ignominia - di quell'articolo di legge.
C'è qualche cosa che, grazie al silenzio sul guasto che si è prodotto nelle relazioni tra uomini e donne, e che comprende aspetti antichi e aspetti nuovi come quest'ultimo esempio dimostra, non viene visto, ed è, nell'imbarbarimento delle vite familiari, l'ignoranza d'amore che avvolge l'esperienza genitoriale.
Famiglie, coppie, individui "incolti d'amore", ha scritto lo psicoanalista Francesco Bisagni riflettendo sui bambini disastrati, "spazzatura degli adulti", che popolano la cronaca nera e a volte gli ambulatori della psiche.
Bisagni continua, nel suo ragionamento maturato nella pratica terapeutica, paventando l'instaurarsi di una società privata della "mente materna": mente colta, fine, che autorizza la vita e con essa l'inizio del pensare, la percezione del valore di vivere. Mente che toglie la paura, invece di instaurarla. Mente creativa perché intima, integra e libera.
Sono molti i silenzi politici che una democrazia paritaria più facilmente potrebbe interrompere, o contribuire a interrompere, in ogni campo della convivenza umana, e quello che sto dicendo vale solo come esempio di quanto una donna appassionata di politica può investire in una campagna come questa.
Esempi di immaginazione già al lavoro, prima ancora che il risultato sia non dico raggiunto ma neppure approssimato.
Non è detto che tutte immaginiamo alla stessa maniera, e al contrario: chissà quante sono le donne che non concordano su nessuna delle mie immagini. Ma la discussione è iniziata e non si può fermare e nemmeno io voglio "fermare" me stessa.
E mi va bene che altre immaginino altro: l'obbiettivo "50 e 50" può effettivamente essere vissuto come riequilibrio della rappresentanza, può essere vissuto come una scena dove, finalmente, vengono rappresentati - non nel senso della rappresentanza, ma della rappresentazione - gli uomini e le donne. Può essere, come dire, semplicemente la bonifica di un orizzonte, di un quadro francamente inguardabile. Può essere un sollievo e un sostegno per le donne che intendono candidarsi.
Tutti desideri legittimi, giusti: in effetti la scena politica istituzionale e mediatica è perfino esteticamente inquietante, nella sua sfilata di giacche e cravatte. E inquietanti finiscono con l'essere anche le poche figure femminili che vi hanno accesso, nella loro "anomalia" vivente.
Inquietanti e imbarazzanti, a volte, nel loro un pò infelice far finta di niente, nel loro esprimersi - di necessità, direi - come se tutto fosse normale e a posto.
Quando una donna sta in una assemblea elettiva, e sa che le donne lì sono una minoranza infima, è portata a cercare di dimenticare la sua eccezionalità, a non guardarsi troppo attorno e a non guardare troppo nemmeno a se stessa. E così non crea neppure uno stile appropriato, non crea tradizione per altre che potrebbero entrare in quelle stesse assemblee.
Mi sono divertita, un giorno, al Senato, a leggere un avviso che diceva: gli uomini devono indossare giacca e cravatta, le donne devono indossare... un abbigliamento decoroso. Ho incontrato uomini giustamente invidiosi per questa prescrizione leggera, se paragonata alla rigidezza dell'abbigliamento loro imposto: e certo l'essere eredi di una tradizione maschilista ha il suo prezzo.
Ma il frequentare i luoghi della democrazia senza l'appoggio di una tradizione non è agevole. E più in generale, il presentarsi come mosca bianca sulla scena politica è un continuo ricordarsi e dimenticare, ricordarsi e dimenticare che sei una donna. Una fatica in gran parte inutile.
E ancora... Essere 50 e 50 ci libererebbe dalla necessità che tanti uomini di buona volontà sentono di dover dire che le donne ci vogliono, in politica, perché portano saggezza, equilibrio, dolcezza, sensibilità, sentimento, buon senso, praticità e non so che altro.
Questa specie di immaginetta di mamma casalinga proiettata direttamente in un governo forse svanirebbe. Effettivamente, oggi c'è una piccola strada di ingresso alla politica, soprattutto a destra, che passa esattamente per l'esercizio di queste virtù domestiche. La politica come amministrazione della casa. Che poi va a sovrapporsi all'idea della politica come amministrazione dell'impresa. Insomma, a qualche moglie o figlia si può pure permettere l'avventura di una qualche associazione al potere.
Ma è ancora politica, questa? Anche a questa domanda si può tornare a dare spessore culturale, così come al nostro essere politicamente collocate, politicamente di parte.
È nel nostro diritto, ma per esercitare questo diritto abbamo bisogno di una nuova esperienza della politica.
Credo - e spero - che nasca una nuova esperienza politica di donne, da questa campagna. Nuova anche rispetto all'esperienza di una come me. Nuova perché ha da studiare, da pensare cose nuove. Io credo che tutto ciò sia molto urgente. Non corrisponde soltanto a un mio desiderio. È urgente.
Ieri sera pensavo: è questa una strada per il rinnovamento della politica? Non ho nessun dubbio? È l'unica, o ce n'è un'altra? Certo è che i grandi cambiamenti intervengono quando un nuovo soggetto, o se preferite, una nuova soggettività entra nella politica.
Ma poiché la proposta di legge di cui stiamo parlando riguarda specificatamente la questione della rappresentanza, va chiarito che le donne che entrassero in questo modo nelle assemblee elettive non rappresenterebbero affatto solo le donne.
Ed è bene così. Perché, rappresentando uomini e donne, dovrebbero dare rappresentazione anche alla relazione tra uomini e donne. E dunque dovrebbero dare forma di civiltà a quella relazione, dichiarando intenti e mezzi per realizzarla, e suscitando dibattito. Questo sarebbe un grande mutamento, un rinnovamento della stessa vita politica; diventerebbe una vita politica che effettivamente rispecchierebbe in tutti i suoi aspetti, un pò di più, la vita sociale, la vita interpersonale, la vita individuale che si fa tra uomini e donne. E questo io credo che muterebbe moltissimo anche le relazioni tra noi, le donne. Diventerebbero più impegnative, più importanti, permeate dalla speranza di cambiare le cose.
Trovarsi in un progetto comune per cambiare le cose è una molla formidabile nelle relazioni; le ripulisce, le rinfresca. E una come me desidera moltissimo di uscire da quella gora delle relazioni politiche tra donne che prima ho descritto come caos, frammentazione, antipatia infinita.
E non solo: desidero, finalmente e di nuovo, una relazione politica tra donne e uomini, oltre che tra donne, dove possa vivere e svilupparsi quella passione per l'Altro che è la fonte del desiderio di convivere bene. La passione per l'Altro è anche la passione per l'altra, e per l'altro non come genere ma come infinita variazione della vita umana. Non l'interlocuzione tra due differenze, ma una vera e incivilita e colta interrelazione tra le infinite differenze degli individui. La politica dunque come condizione di una vita più ricca.
Questo è il mio personale pensiero - sognante - attorno a un semplice articolato di legge.