Dal quotidiano "La stampa" del 31 dicembre 2005. Barbara Spinelli è una prestigiosa giornalista e saggista; tra le sue opere segnaliamo particolarmente Il sonno della memoria, Mondadori, Milano 2001, 2004; una selezione di suoi articoli è in una sezione personale del sito del quotidiano ( La stampa ).
Tratto da "La nonviolenza è in cammino" - n. 1163 di mercoledì 4 gennaio 2006
Tratto da "La nonviolenza è in cammino" - n. 1163 di mercoledì 4 gennaio 2006
Pensare più profondamente la democrazia che abitiamo, riflettere su come vogliamo costruirla o modificarla, correggerla o riesumarla, estenderla nel mondo con la forza della legge o la legge della forza: forse è questo il compito più importante che dovremo affrontare nel tempo che abbiamo davanti, a cominciare dall'anno nuovo.
Abbiamo sufficiente esperienza per iniziare simili meditazioni, disponiamo di un numero sufficiente di fatti che aiutano a capire. Alle nostre spalle abbiamo ormai quattro anni di guerre, condotte per diffondere nel mondo la democrazia, e quattro anni non sono pochi per chi voglia andare oltre le ideologie, oltre le retoriche, e provare ad abitare uno spazio in cui le parole, almeno approssimativamente, coincidono con la realtà.
È stato giusto rispondere al massacro dell'11 settembre 2001 con una campagna militare intesa a esportare la democrazia in Paesi retti da despoti come Afghanistan e Iraq? E quali sono gli ingredienti esatti, della democrazia che si immagina d'esportare o d'aver già esportato? E per concludere: in che modo questi anni di militarizzazione della diplomazia e della politica hanno trasformato le democrazie che abitiamo, e l'idea che ci facciamo di esse? È da quest'ultimo interrogativo che bisogna a mio parere cominciare, perché in qualche modo esso comprende tutti gli altri. Molti indizi confermano che le democrazie hanno subito torsioni sostanziali e gravi, a seguito della guerra iniziata nel 2001 contro il terrorismo internazionale.
La paura è divenuta la ragion d'essere del potere, prima negli Stati Uniti poi in altri Paesi occidentali, e il suo uso disinvolto ha fatto cadere una serie di divieti che nella nostra civiltà sono essenziali, tanto da esser stati iscritti in precise convenzioni internazionali all'indomani di due guerre mondiali distruttive: divieto della tortura; divieto di uccidere, torturare o umiliare i prigionieri di guerra; divieto di controllare le esistenze private dei cittadini con la scusa di garantirne la sicurezza; divieto di abolire quel che a ciascun uomo (amico o nemico) è dovuto da secoli: l'habeas corpus ("il tuo corpo ti appartiene") e cioè il diritto a comparire davanti a un giudice per conoscere il motivo per cui si è incriminati.
Questi divieti sono i freni che la democrazia pone a se stessa, e l'amministrazione Bush li ha uno dopo l'altro aboliti, consapevolmente scegliendo di non farsi più scrupoli. Le convenzioni internazionali sono state ufficialmente denunciate e scavalcate, un'intera cultura basata sulla remora morale è franata. Ne è nato un apparente paradosso: ecco un gruppo dirigente che si professa liberale in economia - favorevole allo Stato minimo - ma che in realtà usa la paura e la guerra per rendere illimitato il potere presidenziale. Chi voglia conoscere il dramma aperto nelle coscienze americane dai poteri esorbitanti che Bush ha accumulato in quattro anni di guerra troverà un dossier impressionante nel sito di Contropagina ( Contropagina ): è un vero e proprio Stato parallelo quello edificato dopo l'11 settembre, che controlla le telefonate e la posta elettronica dei cittadini statunitensi senz'alcun permesso giudiziario, che pratica sistematicamente la tortura dei prigionieri, che cattura sospetti di terrorismo in territorio europeo, che affida un gran numero di sospetti a Stati dove i diritti dell'uomo sono ignorati e gli interrogatori dei detenuti più cruenti. Stati che Washington mostra di prediligere, nonostante la retorica su libertà e democrazia, e che nei fatti vengono incoraggiati a perseverare nel male.
Si dirà che quattro anni non bastano a smantellare democrazie e culture formatesi lungo secoli. La storia purtroppo dimostra che non è vero: basta un nonnulla, per scivolare dalla civiltà nella barbarie. Un minuto prima che la Germania precipitasse nell'orrore di Hitler, veniva chiamata nazione di poeti e pensatori.
Si dirà anche che il comandante in capo d'un paese in guerra ha il diritto di prendersi poteri eccezionali, come sostengono i magistrati David Rivkin e Lee Casey sul "New York Times". Ma di questa guerra non conosciamo ancora l'autentico obiettivo e di conseguenza neppure la conclusione: in una guerra senza fine, anche i diritti accampati dal potere esecutivo Usa, in patria e nel mondo, sono senza fine.
Anche supponendo che l'obiettivo sia l'estensione della democrazia in Medio Oriente e Golfo Persico: di che democrazia parliamo, precisamente? Non rischiamo di screditarla radicalmente, nel momento in cui in casa le democrazie "si tolgono i guanti" (così si espresse all'inizio del 2002 Cofer Black, ex direttore dell'unità antiterrorismo nella Cia) e fuori casa - in paesi come l'Iraq - il progresso viene misurato dai numeri di elettori che vanno alle urne e di poliziotti indigeni addestrati dagli Usa? Non è distorta e ridotta, una democrazia che si dice vittoriosa basandosi su questi soli ingredienti? Anche chi appoggiò la guerra, come Thomas Friedman, oggi dubita. Ancora non sappiamo - scrive - come e cosa hanno votato 11 milioni di iracheni, in dicembre: se per la separatezza e i privilegi della propria etnia o per una democrazia irachena.
È dai tempi degli accordi di Dayton sui Balcani, nel 1995, che non sappiamo più bene se democrazia sia un equilibrio di poteri che protegge i cittadini, o un potere spartito fra etnie e clan. Nel medio-lungo periodo può darsi che questi nodi saranno sciolti e che si vada davvero verso esperienze democratiche più diffuse. Ma nel breve termine (e per breve termine intendiamo gli anni che abbiamo alle spalle) son probabilmente più numerosi i fattori negativi dei positivi. Il potere delle democrazie che Washington vuole incarnare esce stremato dalla prova, e la sua forza è vista al tempo stesso come minacciosa e impotente. Alcuni progressi son visibili in Iraq, Libano, Palestina, ma ancor più pesante è la regressione in Iran, in Egitto dove si rafforzano i Fratelli Musulmani, in Palestina dove a gennaio la vittoria potrebbe andare ai fondamentalisti di Hamas, in Pakistan dove sembra che Musharraf, per paura degli islamisti, impedisca agli Usa d'arrestare Bin Laden. Oltre la guerra in Iraq l'America non può andare, la guerra stessa è giudicata perdente, ed è questa convinzione che ha spinto il presidente iraniano Ahmadinejad a dire impunemente quel che ha detto sulla distruzione d'Israele e sull'Olocausto inventato.
Far cadere i nostri divieti esorta tutti i dittatori a fare lo stesso ed è un'incitazione a delinquere, per i regimi che vorremmo moderare: anch'essi, se lo fa l'America, possono lasciar cadere ogni sorta di tabù e insediarsi comodamente nella barbarie.
C'è infine da chiedersi se la battaglia per diffondere la democrazia abbia rafforzato la sicurezza economica degli occidentali, e anche qui la risposta è difficilmente positiva.
Lanciare una guerra per dare una diversa stabilità alla zona da cui viene gran parte del nostro petrolio ha reso ancor più fragili le sicurezze di ieri, e questo in un momento in cui i prezzi dell'energia salgono. Non solo: esser capaci di una guerra lunga e costosa per il petrolio ha dimostrato non la nostra autonomia, ma la nostra totale dipendenza dal greggio esterno.
L'Iran sa che con il suo petrolio può ricattare l'Europa e tessere strettissimi rapporti con India e Cina, le due potenze in ascesa. La Russia sa le stesse cose, e la seduzione-corruzione di Schroeder è tipica dei tempi che viviamo: per il petrolio siamo disposti a ogni cosa, bellicosa o compromissoria che sia.
Un ulteriore veleno della democrazia è la menzogna, dentro la quale da anni viviamo ormai stabilmente: menzogne sulle armi e sul terrorismo sostenuto da Saddam, menzogne recentissime sulle torture e le intercettazioni illegali americane, che Bush nega perentoriamente di far praticare. Ulisse, nel Filottete di Sofocle, insegna a Neottolemo l'arte della menzogna: con essa si coprirà certo di vergogna, ma in cambio otterrà vittorie gloriose e in futuro tornerà l'ora in cui si potrà ricominciare a vivere secondo verità, nell'onore e nel pudore. Tutte le dittature ideologiche, tutti i messianesimi politici hanno teorizzato questo fine che giustifica i mezzi, questa preminenza dell'ideologia e delle parole sulla realtà e i fatti.
Dice Odisseo: "Ormai, fatta l'esperienza, vedo bene che fra i mortali proprio la lingua, non certo le opere, è alla guida di tutto".
Ormai, fatta l'esperienza di quattro anni di guerre per la democrazia, sappiamo che le opere e i fatti possono crudelmente vendicarsi sulle retoriche, rendendo dubbi non solo i mezzi ma anche i fini che a parole vengono proposti.
Non si può diffondere in questi modi la democrazia, senza che essa perda significato fuori e dentro le mura. Bush come comandante in capo ha forse diritto a poteri esorbitanti in casa sua, ma con questi poteri ottiene e dissuade in realtà sempre di meno. Per il momento sappiamo che si serve della guerra per gonfiare il proprio potere e del proprio potere per fare guerre, circolarmente avvitato su se stesso. È sperabile che il circolo vizioso s'interrompa, nell'anno che viene.
Abbiamo sufficiente esperienza per iniziare simili meditazioni, disponiamo di un numero sufficiente di fatti che aiutano a capire. Alle nostre spalle abbiamo ormai quattro anni di guerre, condotte per diffondere nel mondo la democrazia, e quattro anni non sono pochi per chi voglia andare oltre le ideologie, oltre le retoriche, e provare ad abitare uno spazio in cui le parole, almeno approssimativamente, coincidono con la realtà.
È stato giusto rispondere al massacro dell'11 settembre 2001 con una campagna militare intesa a esportare la democrazia in Paesi retti da despoti come Afghanistan e Iraq? E quali sono gli ingredienti esatti, della democrazia che si immagina d'esportare o d'aver già esportato? E per concludere: in che modo questi anni di militarizzazione della diplomazia e della politica hanno trasformato le democrazie che abitiamo, e l'idea che ci facciamo di esse? È da quest'ultimo interrogativo che bisogna a mio parere cominciare, perché in qualche modo esso comprende tutti gli altri. Molti indizi confermano che le democrazie hanno subito torsioni sostanziali e gravi, a seguito della guerra iniziata nel 2001 contro il terrorismo internazionale.
La paura è divenuta la ragion d'essere del potere, prima negli Stati Uniti poi in altri Paesi occidentali, e il suo uso disinvolto ha fatto cadere una serie di divieti che nella nostra civiltà sono essenziali, tanto da esser stati iscritti in precise convenzioni internazionali all'indomani di due guerre mondiali distruttive: divieto della tortura; divieto di uccidere, torturare o umiliare i prigionieri di guerra; divieto di controllare le esistenze private dei cittadini con la scusa di garantirne la sicurezza; divieto di abolire quel che a ciascun uomo (amico o nemico) è dovuto da secoli: l'habeas corpus ("il tuo corpo ti appartiene") e cioè il diritto a comparire davanti a un giudice per conoscere il motivo per cui si è incriminati.
Questi divieti sono i freni che la democrazia pone a se stessa, e l'amministrazione Bush li ha uno dopo l'altro aboliti, consapevolmente scegliendo di non farsi più scrupoli. Le convenzioni internazionali sono state ufficialmente denunciate e scavalcate, un'intera cultura basata sulla remora morale è franata. Ne è nato un apparente paradosso: ecco un gruppo dirigente che si professa liberale in economia - favorevole allo Stato minimo - ma che in realtà usa la paura e la guerra per rendere illimitato il potere presidenziale. Chi voglia conoscere il dramma aperto nelle coscienze americane dai poteri esorbitanti che Bush ha accumulato in quattro anni di guerra troverà un dossier impressionante nel sito di Contropagina ( Contropagina ): è un vero e proprio Stato parallelo quello edificato dopo l'11 settembre, che controlla le telefonate e la posta elettronica dei cittadini statunitensi senz'alcun permesso giudiziario, che pratica sistematicamente la tortura dei prigionieri, che cattura sospetti di terrorismo in territorio europeo, che affida un gran numero di sospetti a Stati dove i diritti dell'uomo sono ignorati e gli interrogatori dei detenuti più cruenti. Stati che Washington mostra di prediligere, nonostante la retorica su libertà e democrazia, e che nei fatti vengono incoraggiati a perseverare nel male.
Si dirà che quattro anni non bastano a smantellare democrazie e culture formatesi lungo secoli. La storia purtroppo dimostra che non è vero: basta un nonnulla, per scivolare dalla civiltà nella barbarie. Un minuto prima che la Germania precipitasse nell'orrore di Hitler, veniva chiamata nazione di poeti e pensatori.
Si dirà anche che il comandante in capo d'un paese in guerra ha il diritto di prendersi poteri eccezionali, come sostengono i magistrati David Rivkin e Lee Casey sul "New York Times". Ma di questa guerra non conosciamo ancora l'autentico obiettivo e di conseguenza neppure la conclusione: in una guerra senza fine, anche i diritti accampati dal potere esecutivo Usa, in patria e nel mondo, sono senza fine.
Anche supponendo che l'obiettivo sia l'estensione della democrazia in Medio Oriente e Golfo Persico: di che democrazia parliamo, precisamente? Non rischiamo di screditarla radicalmente, nel momento in cui in casa le democrazie "si tolgono i guanti" (così si espresse all'inizio del 2002 Cofer Black, ex direttore dell'unità antiterrorismo nella Cia) e fuori casa - in paesi come l'Iraq - il progresso viene misurato dai numeri di elettori che vanno alle urne e di poliziotti indigeni addestrati dagli Usa? Non è distorta e ridotta, una democrazia che si dice vittoriosa basandosi su questi soli ingredienti? Anche chi appoggiò la guerra, come Thomas Friedman, oggi dubita. Ancora non sappiamo - scrive - come e cosa hanno votato 11 milioni di iracheni, in dicembre: se per la separatezza e i privilegi della propria etnia o per una democrazia irachena.
È dai tempi degli accordi di Dayton sui Balcani, nel 1995, che non sappiamo più bene se democrazia sia un equilibrio di poteri che protegge i cittadini, o un potere spartito fra etnie e clan. Nel medio-lungo periodo può darsi che questi nodi saranno sciolti e che si vada davvero verso esperienze democratiche più diffuse. Ma nel breve termine (e per breve termine intendiamo gli anni che abbiamo alle spalle) son probabilmente più numerosi i fattori negativi dei positivi. Il potere delle democrazie che Washington vuole incarnare esce stremato dalla prova, e la sua forza è vista al tempo stesso come minacciosa e impotente. Alcuni progressi son visibili in Iraq, Libano, Palestina, ma ancor più pesante è la regressione in Iran, in Egitto dove si rafforzano i Fratelli Musulmani, in Palestina dove a gennaio la vittoria potrebbe andare ai fondamentalisti di Hamas, in Pakistan dove sembra che Musharraf, per paura degli islamisti, impedisca agli Usa d'arrestare Bin Laden. Oltre la guerra in Iraq l'America non può andare, la guerra stessa è giudicata perdente, ed è questa convinzione che ha spinto il presidente iraniano Ahmadinejad a dire impunemente quel che ha detto sulla distruzione d'Israele e sull'Olocausto inventato.
Far cadere i nostri divieti esorta tutti i dittatori a fare lo stesso ed è un'incitazione a delinquere, per i regimi che vorremmo moderare: anch'essi, se lo fa l'America, possono lasciar cadere ogni sorta di tabù e insediarsi comodamente nella barbarie.
C'è infine da chiedersi se la battaglia per diffondere la democrazia abbia rafforzato la sicurezza economica degli occidentali, e anche qui la risposta è difficilmente positiva.
Lanciare una guerra per dare una diversa stabilità alla zona da cui viene gran parte del nostro petrolio ha reso ancor più fragili le sicurezze di ieri, e questo in un momento in cui i prezzi dell'energia salgono. Non solo: esser capaci di una guerra lunga e costosa per il petrolio ha dimostrato non la nostra autonomia, ma la nostra totale dipendenza dal greggio esterno.
L'Iran sa che con il suo petrolio può ricattare l'Europa e tessere strettissimi rapporti con India e Cina, le due potenze in ascesa. La Russia sa le stesse cose, e la seduzione-corruzione di Schroeder è tipica dei tempi che viviamo: per il petrolio siamo disposti a ogni cosa, bellicosa o compromissoria che sia.
Un ulteriore veleno della democrazia è la menzogna, dentro la quale da anni viviamo ormai stabilmente: menzogne sulle armi e sul terrorismo sostenuto da Saddam, menzogne recentissime sulle torture e le intercettazioni illegali americane, che Bush nega perentoriamente di far praticare. Ulisse, nel Filottete di Sofocle, insegna a Neottolemo l'arte della menzogna: con essa si coprirà certo di vergogna, ma in cambio otterrà vittorie gloriose e in futuro tornerà l'ora in cui si potrà ricominciare a vivere secondo verità, nell'onore e nel pudore. Tutte le dittature ideologiche, tutti i messianesimi politici hanno teorizzato questo fine che giustifica i mezzi, questa preminenza dell'ideologia e delle parole sulla realtà e i fatti.
Dice Odisseo: "Ormai, fatta l'esperienza, vedo bene che fra i mortali proprio la lingua, non certo le opere, è alla guida di tutto".
Ormai, fatta l'esperienza di quattro anni di guerre per la democrazia, sappiamo che le opere e i fatti possono crudelmente vendicarsi sulle retoriche, rendendo dubbi non solo i mezzi ma anche i fini che a parole vengono proposti.
Non si può diffondere in questi modi la democrazia, senza che essa perda significato fuori e dentro le mura. Bush come comandante in capo ha forse diritto a poteri esorbitanti in casa sua, ma con questi poteri ottiene e dissuade in realtà sempre di meno. Per il momento sappiamo che si serve della guerra per gonfiare il proprio potere e del proprio potere per fare guerre, circolarmente avvitato su se stesso. È sperabile che il circolo vizioso s'interrompa, nell'anno che viene.