Il web ha fatto presto a divenire un bisogno radicale, avendo intercettato una motivazione profonda, che è quella di esprimersi, relazionarsi in modo complesso e, soprattutto, interagire con il mondo. In questo senso, ha democratizzato i processi della comunicazione. È nell’ordine delle cose allora che si cerchi di limitarlo e controllarlo. Ma chi ha paura di internet?
Le cronache degli ultimi anni hanno documentato repressioni plateali in Birmania, nella Cina Popolare, in Iran, in altri paesi. È comprovato poi il contributo che i social network hanno offerto, fino ad oggi, alle lotte per la democrazia, aiutando a rompere l’isolamento e a coordinare i progetti di resistenza. È quanto sta accadendo in diversi paesi arabi, dal Maghreb al Medio Oriente. La prima lezione che viene dai fatti chiarisce allora che il nesso tra web e democrazia è fondamentale. La questione è tuttavia complessa, perché le realtà appena citate rappresentano il limite estremo, mentre misure di controllo sofisticate vengono tentate nei paesi liberal, dove la rete rischia di finire in rotte di collisione con i poteri più forti della terra.
La vicenda di Wikileaks, l’organizzazione che ha svelato la guerra in Afghanistan, alcune stragi di civili in Iraq e i «punti di vista» della diplomazia statunitense nel mondo, dimostra che si è già alle scaramucce. L’establishment americano, come è noto, ha reagito con stizza. Il Pentagono ha definito la pubblicazione di 250mila cablogrammi delle ambasciate «un tentativo irresponsabile di destabilizzare la sicurezza globale». E le invettive sono state concomitanti con alcuni fatti. Julian Assange, l’attivista più noto della rete informativa, subito dopo la pubblicazione dei messaggi diplomatici, è stato arrestato, su disposizione di magistrati svedesi, per un reato disonorevole. In poco tempo ha subito il prosciugamento dei conti bancari su scala planetaria, come avviene nei casi di famigerati terroristi internazionali. Non solo: secondo i suoi avvocati, negli USA si starebbe lavorando in sordina perché possa essere incriminato per spionaggio, reato che viene punito con lunghe pene detentive. Non è detto che si voglia e si possa arrivare a questo. Sarebbe un fatto dirompente, che potrebbe risultare un boomerang per gli Stati Uniti, tenuto conto peraltro che una sentenza del 2010 della Corte Suprema americana ha sancito la liceità della pubblicazione di documenti segreti del Pentagono da parte di Wikileaks. È più verosimile allora che si tratti solo di una minaccia. Il clima comunque non è sereno e tende a peggiorare, mentre sullo sfondo di Wall Street esordisce la rivolta degli indignados americani. Nella prefazione a un libro uscito di recente, Dossier WikiLeaks. Segreti italiani, firmato da Stefania Maurizi, Assange parla di opinionisti della Fox che senza mezzi termini avrebbero invitano gli ascoltatori a ucciderlo. Potrebbe trattarsi di esagerazioni, di parole buttate lì, in contesti poco significativi. In ogni caso, diversi segnali attestano che la reazione in America è già in atto. È possibile allora un nuovo maccartismo, a tempo di internet?
La domanda è in fondo retorica, perché a conti fatti l’America, almeno su alcune linee strategiche, in particolare quella della «sicurezza nazionale», è rimasta fedele alla sua storia recente. Il paese che, infiammato dal Patriot Act, ha gestito per anni, e gestisce verosimilmente ancora oggi, il campo di Guantànamo non è lontano da quello che portò sulla sedia elettrica Julius ed Ethel Rosenberg. Questa America, fedele appunto a sé stessa, inizia a temere il web mentre ostenta di sostenerlo, e, da gendarme della terra, minaccia di reprimerlo quando occorre, in casa, a Stoccolma, ovunque sia necessario. Con quali giustificazioni? Al tempo dei Rosenberg, fino a tutti gli anni Ottanta, era facile esibire l’alibi della guerra fredda. Adesso le cose sono cambiate. Non si può sbandierare l’esistenza di una potenza nemica che minaccia con il proprio arsenale atomico il mondo cosiddetto libero. Wikileaks e le altre realtà del web che rivendicano la trasparenza della politica, non sono nelle mani del terrorismo islamico, né sono uno strumento d’assalto degli Stati outlaws, né un congegno subdolo della Cina, che insidia oggi, con ben altri mezzi, il primato economico mondiale degli States. I modi, più o meno travisati, con cui si cerca di colpire alcuni livelli della nuova informazione, rappresentati come «crimine oggettivo», meritano di essere considerati allora con attenzione.
Non si tratta, a ben vedere, di una questione contingente. Il web del presente crea apprensioni, ma tanto più suscita timori quello che si annuncia, di cui Wikileaks ha offerto fino a oggi solo un trailer, una sorta di anteprima. Il contrasto degli Stati e dei poteri forti può essere considerato in questo senso di livello preventivo. E la «prevenzione» è, guarda caso, il paradigma dei conflitti di oggi. La sfida della trasparenza non costituisce, ovviamente, una scoperta, né una prerogativa del web. Conta su una cultura, su una tradizione lunga, che nel secondo Novecento ha conosciuto proprio negli States momenti epici, soprattutto negli anni di Richard Nixon. Gli americani cominciarono a perdere per davvero la guerra del Vietnam nel 1971, quando, in piena escalation militare, il New York Times iniziò a pubblicare i documenti segreti del Pentagono, i Pentagon papers, sulle operazioni in Indocina dal dopoguerra al 1967. Gran parte dell’opinione pubblica statunitense si convinse a quel punto che si trattava di un affare sconveniente. Rimase sorpresa. Riuscì pure a indignarsi, perché non era stata sufficientemente informata su come andavano le cose. Più di quanto fosse avvenuto negli anni precedenti, rivendicò quindi il ritorno a casa dei suoi marines. Alla fine, i falchi del Pentagono furono indotti a rivedere i loro piani. Arrivava poi, con l’emersione giudiziaria dell’affare Watergate, ancora sull’onda di rivelazioni giornalistiche, dalle colonne del New York Times e del Washington Post, il benservito per Nixon, dopo che aveva ricevuto con il segretario di Stato Kissinger il Nobel per la pace.
Era probabilmente il trionfo del «quarto potere». Ma con l’avvento di internet, e tanto più dopo l’avvento del web 2.0, che proprio adesso comincia a cedere però il passo al ben più sofisticato web semantico, la sfida della trasparenza, non intesa come optional ma come chiave di volta della democrazia, può fare balzi in avanti di livello esponenziale. Rischia di essere polverizzato, in particolare, il segreto di Stato, che, dilatatosi in modo abnorme negli anni della guerra fredda, nei sistemi liberaldemocratici è andato sostenendosi come una fatale necessità. Si può trarre da tutto questo una ulteriore conclusione. Il web, mentre espande la democrazia reale, mette alla prova i sistemi che si fregiano dell’appellativo liberal, potendone svelare con una efficacia inedita le illiberalità nascoste, le ipocrisie, gli affari fondamentali in ombra. Quale strumento di democrazia sostanziale, esso può costituire allora il tallone di Achille delle democrazie ufficiali, con implicazioni non indifferenti sotto vari profili. Ma come cambia, in dettaglio, la sfida della trasparenza dopo l’avvento del web?
Negli anni settanta, quando la stampa americana viveva il momento più esaltante, una rappresentazione paradigmatica, e problematica, del «quarto potere» veniva offerta dal film I tre giorni del Condor di Sidney Pollack, tratto da un romanzo di James Grady. Eccone la trama, in estrema sintesi. Prima di varcare l’ingresso del New York Times, l’agente della CIA Joe Turner, nome in codice «Condor, interpretato da Robert Redford, è scampato a diversi attentati. A volerlo morto è un apparato segretissimo, interno alla stessa Intelligence statunitense, che sta pianificando una guerra in America Latina per il controllo dei pozzi di petrolio e che sta eliminando uno dopo l’altro i testimoni scomodi, interni alla stessa organizzazione. Uno di questi è appunto il Condor, autore di un rapporto riservato, deciso a far saltare tutto, denunciando l’intrigo alla stampa libera. Egli ritiene sia questa la sua salvezza e, soprattutto, la salvezza morale del paese. Alla fine, braccato dai suoi datori di lavoro, Turner consegna il report al giornale, ma il film di Pollack chiude con un interrogativo. Appreso che il rapporto è finito nella redazione del quotidiano, il funzionario Higgins, che ha diretto sul terreno le operazioni omicide, gela il Condor con queste parole: «Ma sei sicuro che lo stampano? Dove arrivi se poi non lo stampano?».
Gli scenari adesso sono cambiati di gran lunga. Disponendo di un PC, l’attivista del web che rivendica, come il Condor degli anni settanta, la trasparenza politica non ha bisogno di attraversare uno spazio fisico, sobbarcandosi fatiche di livello mitologico, per varcare l’ingresso del New York Times. Attraverso la posta elettronica, i blog, you tube, twitter, facebook, e altro ancora, egli può comunicare con numeri altissimi di utenti, di tutti i continenti. Al «Condor» di oggi può bastare una banale connessione in rete per raggiungere con efficacia il suo scopo, mentre mette in discussione la verticalità del processo informativo. La deliberazione ultima non è demandata a un giornale, a un editore, dietro i quali può celarsi, appunto, un potere interessato. Viene assunta bensì, in tempi celerissimi, da un soggetto collettivo, che può finire con il coincidere in tutto e per tutto con l’opinione pubblica di un paese, o di un continente. E Wikileaks propone di questo modello il livello più radicale, raccogliendo informazioni top segret da ovunque per riversarle sull’intero pianeta. Parafrasando il Bogart de L’ultima minaccia, si può dire, con delle ragioni, «È il web, bellezza!», mentre va facendosi sempre più serrata la dialettica tra media vecchi e nuovi, fatta di sinergie e scambi costruttivi, ma pure di tensioni. Wikileaks ne offre ancora un saggio, prima con gli accordi siglati con il New York Times, il Guardian di Londra, il Pais spagnolo e lo Spiegel tedesco, poi con la clamorosa rottura. Alla fine, come è noto, ha deciso di trasferire centinaia di migliaia di documenti segreti in rete senza filtri di sorta. Ma un simile radicalismo, nel segno di una mitica trasparenza assoluta, è ancora coerente con un progetto di democrazia sostanziale o rischia contraccolpi pregiudizievoli alla stessa democrazia? È una questione aperta.
Il caso italiano, infine. Diversamente da altre realtà dell’Occidente, questo paese ha scoperto il web con qualche ritardo. Agli inizi, negli ultimi anni novanta, si è trattato soprattutto di un affare economico, condotto in modo strategico dagli ambiti della telefonia, allora in pieno exploit. Poi, intorno al Duemila, saggiate le facoltà del nuovo strumento, la scena è andata movimentandosi, tanto più quando si è compreso che il web poteva essere usato come acceleratore dei processi di aggregazione civile e politica. In questo decennio più di altri ne hanno beneficiato, non per caso, i movimenti di opposizione: agli esordi del decennio, i girotondi di Moretti, poi il partito di Antonio Di Pietro e il movimento di Beppe Grillo; più di recente, con il supporto di Facebook, le reti del Popolo Viola e gli indignados. Pure in Italia il web che più provoca timori è comunque quello che si profila all’orizzonte, di cui i blog e le testate on-line, come altrove, hanno offerto finora solo dei trailer.
La Repubblica si porta dietro una lunga vicenda di trame, animata da ambienti politici di fede atlantica, servizi segreti «deviati», alti gradi militari, terroristi, faccendieri, mafie. Ne è uscito un blob di segreti che, di delitto in delitto, di strage in strage, ha finito per condizionare fino al paradosso la vita del paese. Come in Turchia, resiste uno Stato profondo che impedisce nei tribunali la ricerca della responsabilità, mentre rimane in auge la dietrologia dei «misteri» che, polverizzando le piste investigative, aiuta in realtà a mantenerli e a moltiplicarli. In definitiva, diversamente da quanto è avvenuto in altre aree del globo, in America Latina per esempio, dove per Fujimori, Videla, Pinochet, Montesinos e numerosi altri è arrivata la stagione dei rendiconti, in Italia non si è mai aperta una reale discontinuità. Fa testo, al riguardo, il processo ad Andreotti. E il compromesso regge, in fin dei conti, in piena era berlusconiana. È sintomatico che un dirigente storico della sinistra italiana, Massimo D’Alema, pur non imputabile di tale Stato profondo, ma convinto forse, per ragioni di real politik, che i conti con il passato non costituiscano più una priorità, né una necessità, sia stato eletto con un voto ampio e bipartisan capo del Copasir, il comitato parlamentare di controllo dei servizi di sicurezza. A fare il resto sono poi le condizioni del paese nel presente: la corruzione pubblica dilagante, la collusione della politica e dei poteri finanziari con le holding criminali, la violenza continuata agli ambienti naturali e alle città.
Tutto questo può aiutare a comprendere allora, in Italia, la condizione del web che fa informazione. Ai trailer, ai reportage e alle analisi negli ultimi anni hanno cercato di forzare il muro del segreto, in tutte le sue declinazioni, si è risposto talvolta in modo goffo e secco, con l’oscuramento di siti, la condanna di giornalisti-blogger in sede civile e penale, l’applicazione di leggi desuete. Ma si è operato soprattutto in chiave strategica, con tentativi continui di introdurre nuove regole, più o meno dirette. Le normative sollecitate dall’Agcom, formalmente per la tutela del diritto d’autore, come il recente ddl che vorrebbe imporre l’obbligo di rettifica su semplice richiesta di parti che si ritengono offese sono un po’ la sintesi di questo lavorio. Ed è storia di oggi.