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G8 Genova 2001: Incontri di fine A mani nude

Questa è l’immagine che ho fissato dentro di me della manifestazione di Genova. Le mani nude della gente (migliaia e migliaia di persone) con la quale ho camminato sotto il sole del 21 luglio, in una città svuotata dei suoi abitanti, resa deserta.

Quest’immagine delle mani nude mi riempie di festa; mani senza armi, bastoni, bandiere, violenze. Così ho vissuto con i compagni di via gaggio un’avventura che alla fine farà dire: bellissimo, ma che non troverà un rigo, uno sguardo sulle cronache e nelle immagini dei media. Tutto è stato coperto da quelle drammatiche della guerriglia che hanno ingoiato un popolo di 200.000 persone.

A Genova, al mattino, all’arrivo dalla zona di Sturla, rimango turbato e impaurito nell’attraversare una piazza, della quale non ho annotato il nome, e nel vedere a terra, esposta, come in un vecchio mercato popolare, una mercanzia d’attacco: spranghe, bastoni, maschere, catene. Volti di giovani tristi, alcuni giovanissimi/e, carichi di rabbia. A meno di cento metri un grosso gruppo di polizia e blindati. Mi meraviglia questa “normalità” del mercato della violenza e come possa passare inosservato e tollerato. Ci allontaniamo e ci inseriamo in un pezzo di corteo che ci ha assorbito per ore fino all’arrivo a piazza Galileo Ferraris. E’ di questo pezzo che voglio dare testimonianza perché credo rappresenti la percentuale più alta dei partecipanti, quella che non è esistita per il paese.

Chi sono queste persone con le quali marcio?

Gente normale, carica di umori vitali e di voglia di vivere e di capacità di fare (botteghe equosolidali, emergency, mani tese, arci, singoli cittadini, gruppi di opinione sul carcere con Sergio Cusani, e tanti, tanti senza etichette particolari). Devo dire di essere stato fortunato nel vivere questa avventura con loro.

Ho tentato di fare paragoni con altre manifestazioni; mi ritornava come leitmotiv una manifestazione a San Salvador nel 90 (decimo anniversario dell’uccisione del vescovo Romero) con il popolo salvadoregno e i volontari internazionali; e una lettera di King dal carcere nella quale spiegava come far crescere processi di criticità usando tecniche quali il digiuno, la protesta, le marce.

Venivo da una settimana intensa vissuta alla casa sul pozzo di Lecco; una settimana non ideologica, tremendamente biografica ed esigente nelle domande: da dove guardo il mondo, come interagisco con i processi, quali stili di vita scelgo per essere uomo giusto?

Altri amici da due giorni sono a pregare e digiunare nella chiesa di Boccadasse, per intercedere, per esprimere con il proprio corpo le contraddizioni del mondo.

Questo popolo con il quale sto camminando (ci sono anche dei portatori di handicap in carrozzina) è sostenuto dal ritmo della musica; una piccola band che ha letteralmente fatto crescere unità, respiro; ha aiutato a superare i momenti di difficoltà e di paura, a resistere, a segnare il corpo con il ritmo delle mani. La musica e la festa. Tutto sembra crescere in questa logica: sostenere ed essere sostenuti.

Essere popolo, non una massa anonima. “El pueblo unido jamàs serà vencido”, vecchia citazione delle manifestazioni degli anni 70 e oggi rilanciata con forza, mi appare come una dichiarazione teologica, un atto di autocoscienza, di fede.

Un popolo ri-unito, non contro qualcuno, ma per dire basta a un modello di cui tutti conosciamo i limiti e la violenza. Lo abbiamo detto centinaia di volte con le esperienze del nostro lavoro, in questi lunghi anni di vita condivisa. Ho l’impressione che questa gente porti con sé anni di fatica e di proposte, dai bilanci di giustizia alle adozioni internazionali, alle scuole popolari, ai tempi condivisi con i più poveri del mondo. Sono mani vuote di violenza ma cariche di vita e di determinazione.

Quando appaiono le barriere del fumo causato dai lacrimogeni abbiamo un primo moto, quello di voltare le spalle, di correre via, ma poi ci si aiuta a star lì, e le mani si alzano nude nel segno della consegna ma non della resa.

Vediamo i segni del combattimento dall’infittirsi della cortina di fumo, dai candelotti che scendono dall’alto dei palazzi, dove sono attestati i poliziotti, in una sequenza lunghissima.

Le uniche informazioni degli scontri che ci arrivano sono quelle di radio popolare e questo filo ci consegna l’ambiguità di questo momento; nel nostro troncone una grande festa, anche se circospetta, nelle altre parti violenza, scontri, pestaggi.

C’è preoccupazione diffusa per quanto può succedere ora e il pensiero corre a Carlo Giuliani ucciso il giorno prima. Ma nessuno abbandona la strada e continua ad aspettare, paziente, determinato. Ci sono tantissimi giovani.

La preoccupazione non è quella di esorcizzare gli 8grandi quasi fossero questi i destinatari della manifestazione e nemmeno il governo Berlusconi, ma il futuro sostenibile, la salute per tutti, i beni primordiali a disposizione di tutti gli uomini, la corresponsabilità e non la delega, la giustizia e non le briciole solidali cadute dal nostro tavolo opulento. Non si tratta di un pezzettino in più di bontà da distribuire, bontà nostra, ma della determinazione a vivere con giustizia.

Un popolo, questo con il quale cammino, non ingenuo, capace di gridare determinato “bastoni via” quando le tute nere tentato di infiltrarsi; capace di ironia e di sarcasmo; in grossa difficoltà a vivere rapporti con la polizia e i carabinieri (quando si colmerà il vuoto che drammaticamente si sta scavando in queste ore tra i cittadini che dimostrano e cittadini che tutelano l’ordine pubblico ?) soprattutto con la coscienza che è incastrato in un gioco sempre più esplicito, essere il punto sul quale si scaricano le aggressioni. Un popolo controllato dagli elicotteri che sorvolano a volo bassissimo, dalla polizia e dai carabinieri dei quali si rischia di sentirsi ostili e non riconoscenti per la sicurezza ricevuta.

Ho visto questo popolo dialogare con le pochissime persone affacciate alle finestre, riuscendo a costruire uno scambio e a sollecitare il gioco dell’acqua gettata dall’alto per rinfrescare la gente.

Ho visto il fumo dei lacrimogeni, le barricate, ho respirato in qualche momento l’odore acre. Abbiamo dovuto decidere come comportarci con un corteo spezzato e sull’orlo della crisi. Ogni gesto che conquisti assieme agli altri mette in rilievo altre domande: chi vuole distruggere questa giornata straordinaria di popolo, chi vuole macchiarla e toglierle la bellezza e la trasparenza, soprattutto criminalizzando la nostra presenza come connivente con la violenza?

Abbiamo intuito il dramma violento della guerriglia, siamo spaventati da questa cosa. Ma le domande sono forse più tremende delle cose infrante; se ho visto io tutto questo, vuoi che altri non le abbiano viste? Ma allora perché non prevenire? E una domanda tremenda brucia dentro: a chi serve tutto questo? Più tremenda ancora la dichiarazione del presidente del consiglio che dice che noi, le centinaia di associazione aderenti al GsF, siamo quelli che abbiamo coperto la violenza e l’abbiamo generata.

Le domande (tantissime inespresse) pesano come pietre sulle mani nude della gente indifesa.

Angelo Cupini

Nella notte di sabato 21 luglio, nel blitz alla scuola Diaz, Matteo Bertola, obiettore, sempre presente a Lecco nell’impegno per la pace con uno stile nonviolento, viene fermato, picchiato dalla polizia, condotto in ospedale in stato di fermo. Noi sappiamo chi è Matteo e quale è il suo stile, e non vogliamo che diventi un capro espiatorio per chiudere una storia.

a.c.