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Il mondo sta male e la classe politica sta anche peggio

Alcuni giorni fa (il manifesto 11/8) ho letto con grande interesse l'articolo di Giulio Viale «Ambiente, perché il mondo si sente così male». La sua analisi è assai corretta e incisiva. Questo mondo si deve dare una regolata urgente se non si vuole distruggere irrimediabilmente. Non possiamo continuare senza un'inversione di rotta totale.

Per ciò che si riferisce al caso specifico del nostro paese, l'analisi sarà anche corretta ma le soluzioni proposte sono utopiche. V'immaginate che nella società italiana si possa, in tempi non biblici, creare una classe imprenditoriale e amministrativa più colta e innovativa che sia più attenta all'evoluzione necessaria per una società più socialmente giusta e partecipativa? Siamo retrocedendo drammaticamente, grazie all'insegnamento non solo berlusconiano del quale lui è paladino, nella totale mancanza del concetto di Polis e del sentimento di appartenenza, che fa sì che ciò che s'inneggia è la famiglia intesa come gruppo ristretto di parenti o di mafiosi (nel senso di bassi interessi materiali o di potere).
L'appiattimento culturale è spaventoso e non ci si può illudere che basti creare sedi e spazi pubblici, nei quali si possa confrontarci apertamente; è necessario che ci sia prima un livello di coscienza e cultura sufficiente. Per conto mio si deve urgentemente lottare per la formazione dei giovani nella scuola di tutti i gradi e nei centri d'informazione di massa. Ciò è propedeutico alla richiesta di partecipazione alla politica di sviluppo.
L'ignoranza e la disinformazione sono quasi peggiori dell'analfabetismo. Inoltre, la programmazione del cambio reale delle forme produttive deve derivare da un forte potere centrale per non cadere nel caos più totale e contraddittorio.
Sfortunatamente non vedo nelle classi politiche e amministrative attuali alcun accenno alla consapevolezza del rischio di continuare come finora. Non voglio sperare che l'attuale crisi si radicalizzi in tal modo da indurre il popolo ad essere conscio e fautore dei cambiamenti necessari, significherebbe andare incontro a sofferenze drammatiche, e temo inutili.
La globalizzazione non ci permetterebbe mai una «rivoluzione» tale da mettere in pericolo reale l'attuale assetto d'interessi.

Fonte: Il Manifesto del 21.08.2010