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Il togliere significato alla parola nonviolenza

Dopo gli incidenti del 14 dicembre sono comparsi sui vari media numerosi appelli alla nonviolenza, provenienti per lo più da fonti che generalmente hanno poco a che fare con pratiche nonviolente, proponendo, ancora una volta, un'icona distorta della nonviolenza come brodaglia nel quale le coscienze si annacquano.

Da oltre un anno un movimento variegato, composto non solo da studenti, ma anche da docenti, ricercatori, precari ed anche qualche rettore, ha protestato, sempre con strumenti nonviolenti, rispetto alla riforma della scuola e dell'università... le stesse forme nonviolente usate da operai e immigrati la cui dignità di lavoratori e persone veniva violentata da un'economica spesso senza un barlume di etica.

Tutto questo è avvenuto nel totale non ascolto da parte del governo.

Solo dopo gli incidenti il potere non si è interrogato sui contenuti della protesta, ma ha scoperto la necessità di richiamare i manifestanti alla non violenza (scritta appositamente staccata, rispetto alla nostra nonviolenza).

Dov'era quel potere così sensibile all'azione non violenta quando quel movimento protestava, chiedendo un confronto? Dov'erano i molti intellettuali e giornalisti, spesso ad esso asserviti?


Uno dei presupposti della nonviolenza è l'ascolto. Ciò comporta anche saper leggere la violenza che si manifesta, comprendendo quando questa è l'urlo disperato di chi non ha voce, o quando questa è semplicemente l'esercizio di un potere oppressivo.

Saper ascoltare la violenza, decifrarla, interpretarla introducendo elementi altri di gestione del conflitto è una azione essenziale della lotta nonviolenta, se non si vuole svuotarla del suo elemento fondamentale di trasformazione del sistema sociale, scardinando gli elementi che causano ingiustizia, disuguaglianza e violenza.

Il Potere è stato capace di dialogare con il movimento, cercare di comprenderne le ragioni e le parzialità, ma assumendo anche la propria parzialità?


Chi scrive è profondamente convinto che la nonviolenza sia un orizzonte nel quale sia possibile costruire un sistema sociale, economico, cultura e globale a dimensione d'uomo, così come è altrettanto convinto sull'inefficacia delle azioni di lotta violente per trasformare il sistema, offrendo il pretesto, da parte del potere, di rafforzare il proprio sistema repressivo.

Al tempo stesso “provo scandalo” quando viene proposta dalla politica e dai media l'uso della nonviolenza in chiave semplicemente “buonista”, come un'azione che non debba scalfire il sistema, disturbare troppo...


E' forviante appellarsi alla pratica nonviolenta degli altri, quando non si vuole decodificare le violenze che albergano nel sistema sociale nel complesso delle relazioni dell'informazione, dell'economia, della politica... a difesa di un sistema sempre più fondato sulla disuguaglianza, sulla marginalità, sul precariato, sulla non cultura.

Riconoscere che la violenza è semplicemente quella pala impugnata da un ragazzo, e non scandalizzarsi per la violenza insita nell'agire politico, nel governo, nel sistema in cui viviamo, nel contesto di ingiustizia e di emarginazione... appellandosi alla nonviolenza, significa realmente svuotare questo orizzonte, riducendolo semplicemente all'accettazione passiva dello status quo: l'orizzonte nonviolento non può essere banalizzato a questo.

E' ancora una volta la riproposizione di un modello per cui la violenza del potere (che non è semplicemente la violenza di chi governa, ma del sistema dell'economia, dell'organizzazione del lavoro, dell'informazione, della scuola, dello stato sociale... ) non crea scandalo, a differenza di quella usata da chi protesta è un atteggiamento pilatesco.


Al tempo stesso è rischioso scivolare nel facile giudicare ed etichettare le forme di lotta, in una sorta di visione manichea della società. La nonviolenza non nasce in maniera astratta e neutrale, avulsa dal contesto... essa si incarna e cresce nelle realtà violente, le interpreta, le decifra offrendo una prospettiva diversa per uscirne fuori, non per perpetuarle: non accetta nemmeno in questo caso la semplificazione, ma fa sua la complessità.


Si perde di vista come la nonviolenza sia prima di tutto la pratica di chi debba far emergere il conflitto, renderlo palese, scoprirlo e dargli una prospettiva ed una gestione altra.


Si dimentica come la nonviolenza sia essa stessa azione destabilizzatrice di un sistema.

Forse in India la lotta del sale o il rifiuto ad indossare abiti prodotti in Inghilterra non sia stata per la potenza colonizzatrice causa di una messa in discussione di un certo sistema?

Forse Don Milani non proponeva un cambiamento radicale nel paradigma dei processi formativi e nelle scelte di campo da attuare da parte della politica?


La nonviolenza è un percorso “altro” dentro alle sfide delle nostre contraddizioni economiche e sociali, un percorso che si sviluppa all'interno di pratiche di democrazia partecipata e di gestione del conflitto, che si alimenta inesauribilmente di formazione e informazione profonda, che è capace di nutrirsi di dubbio e di senso critico, che si sperimenta e si sporca le mani laddove disuguaglianza, oppressione, emarginazione urlano il bisogno di riscatto.


Sicuramente nella giornata del 22 dicembre gli studenti romani, più o meno consapevolmente, sono stati capaci di stupirci nuovamente... eppure erano gli stessi studenti che hanno manifestato il 14 dicembre.

Sono stati capaci di “ridicolizzare” il sistema oppressivo, spostandosi sulle periferie, ma non per imposizione del potere, quanto come azione autonoma contro il potere.

Hanno dato una grande lezione di nonviolenza... ma noi abbiamo dimenticato che sono stati gli stessi studenti che hanno manifestato anche il 14 dicembre.


Hanno dimostrato sicuramente come l'azione nonviolenta possa spiazzare il potere... ma non perché sottrae a questo un pretesto di reazione, semplicemente perché mette in campo una capacità diversa di ribellione... si perché la nonviolenza è ribellione, è capacità di scardinare i meccanismi del potere, ma anche quelli delle nostre sicurezze sociali... dentro alle quali spesso ci è comodo fare appelli generici e moralistici alla nonviolenza.

In questo senso credo che sia importante per le forze politiche e di lotta assumere la nonviolenza come prospettiva e orizzonte, ma non per rispondere ai generici appelli che vogliono dividere il mondo in violenti o no, confinando la nonviolenza semplicemente a duna forma di protesta che non abbia risultati sconvolgenti.


Assumere la nonviolenza come lotta, significa veramente assumere la complessità come sfida, individuando le forme di lotta e di azione nonviolenta più efficaci per scardinare un sistema che crea precariato, disoccupazione, marginalità... individuando un sentiero altro che ci porti a costruire sistemi di relazione diversi a dimensione dell'uomo e degli ultimi.


Ma l'assunzione della nonviolenza come orizzonte non può essere il fatto sporadico di una manifestazione (o l'appello alla pratica di un momento) quanto piuttosto la pratica quotidiana che debba coinvolgere la vita politica, economica e sociale di un paese, che incide nel modo di concepire il governo, il potere e la trasformazione.

Ipocrita è l'invito alla nonviolenza dei vari uomini del potere, che sono essi stessi costruttori di veicoli di un sistema di violenza.

Buratti Gino

Massa, 27 dicembre 2010