Dobbiamo in qualche modo ringraziare i tifosi dell’Atalanta se, in questi giorni, sta riemergendo la figura inquietante di Cesare Lombroso (che in realtà si chiamava Marco Ezechia Lombroso), il medico di fine ottocento considerato il fondatore dell’antropologia criminale. Li dobbiamo ringraziare – dopo aver abbondantemente stigmatizzato il loro comportamento offensivo allo stadio San Paolo di Napoli il 2 Gennaio, dove hanno esposto una bandiera della loro squadra con l’effige appunto del Lombroso - perché hanno srotolato sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vedere, la persistenza nella società italiana dell’idea di improbabili giustificazioni biologiche del razzismo.
Nei suoi studi criminologici, Lombroso si opponeva alla cosiddetta scuola classica che ascriveva un’importanza fondamentale alla libertà dell’individuo nel determinarsi, nello scegliere tra azioni criminose e non criminose. Egli, invece, focalizzava l’attenzione su caratteristiche ereditarie (“l’atavismo criminale”) che facevano del delinquente un involuto a stadi primitivi della razza umana e perciò ineluttabilmente spinto, destinato, a delinquere: un delinquente nato.
Il segno chiaro e decisivo di questa degenerazione biologica in senso criminogeno, Lombroso ritenne di scorgerlo durante l’autopsia del calabrese Giuseppe Villella, nella “fossetta occipitale mediana”: correva l’anno 1870.
In realtà, come scrive Maria Teresa Milicia docente di antropologia culturale all’università di Padova, quella dell’autopsia a Villella fu parte della costruzione mediatica del personaggio Lombroso, dal momento che il cosiddetto “brigante” morì nel 1864 e il medico veronese non effettuò l’autopsia, ma solo ebbe a disposizione il cranio [“Lombroso e il brigante”, 2014]. Questo la dice lunga sul rapporto tra autopromozione e inconsistenza, tema quanto mai attuale in politica.
L’interpretazione lombrosiana del fenomeno criminale è stata ampiamente smentita, gli stessi suoi risultati sono basati su criteri metodologici distanti dai moderni approcci e inficiati da approssimazione, grossolanità, assenza o errori nei gruppi di controllo. Tuttavia ci fu un influsso delle idee lombrosiane non solo sulla scienza criminologica per decenni, ma anche sulla politica e –persino oggi lo rileviamo con l’episodio dei tifosi bergamaschi- sull’immaginario razzista.
Lombroso espresse i suoi interessi e studi in materia in un’Italia che si era appena costituita –con i mezzi che attualmente la ricerca storica sta evidenziando nella loro crudeltà – e che vanamente cercava un collante per unire e un supporto per distruggere. Suzanne Stewart-Steinberg, docente di Italian Studies and Comparative Literature alla Brown University di Providence, ha pubblicato un poderoso studio sulla produzione scritta di alcuni autori dell’Italia postunitaria fino all’avvento del fascismo [“The Pinocchio Effect. On making Italians, 1860-1920”, 2007], attraverso il quale esplora la complessità di uno stato appena fondato, alla ricerca di una nazione inesistente: quella italiana. Tra gli autori che la studiosa rilegge, c’è anche Lombroso, che sembra l’epigone della paura del diverso, della maledizione oscura dell’altro perduto e ritrovato nei suoi dettagli che lo decostruiscono da essere umano moderno e lo ricostruiscono, primitivo, come folle e criminale: uno stigma indelebile come un tatuaggio.
E nell’Italia unita, forzatamente unita e pertanto perdutamente disunita, l’opera di Lombroso sembrava adatta a fornire un sostrato utile a quella ricerca disperata di un’idea di italianità e di un disfacimento di tutto ciò che la negava, anzi che ne mostrava l’impossibilità. Il meridionale delinquente per nascita, sovversivo per arretratezza, biologicamente irredimibile, offriva una sponda forte ad uno stato senza nazione, che tale è rimasto dopo 157 anni.
Post Facebook di Difesa Popolare Nonviolenta del 4 gennaio alle ore 17:55