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Piddini! Ancora una sforzo se volete essere di sinistra

“Le due grandi pestilenze che proprio a noi possono essere riservate: la grande nausea per l’uomo, la grande compassione per l’uomo”

(F. Nietzsche, Genealogia della Morale)

“Francesi! Ancora uno sforzo se volete essere repubblicani” è un celebre interludio filosofico-politico attraverso cui il marchese de Sade – nella Filosofia nel boudoir – spezza il filo altrimenti ininterrotto delle avventure pornografiche e criminali di due libertini e della loro bella educanda quindicenne Eugenie. In questo gustoso interludio Sade si prende la briga (all’indomani della Rivoluzione Francese e non senza una certa dose di black humor) di invitare i francesi a capovolgere metodicamente tutte le virtù riconosciute nei loro vizi opposti, arrivando infine ad auspicare per il futuro della Repubblica uno stato permanente di anarchia, senz’altro preferibile – a suo avviso – a ogni altra possibile forma di governo.

E allora il PD… ? Se non è troppo impertinente, vorrei proporre un parodistico parallelo tra lo sforzo che Sade richiede ai suoi francesi e quello che il PD potrebbe ironicamente trovare il coraggio di compiere ora che l’ultimo ideologo della sua ormai pluridecennale torsione neoliberista gli ha dato il benservito. Cioè? Che sforzo? Di che parli?!

Mi riferisco al fatto che il PD de-renzizzato dovrebbe forse trovare il coraggio di rovesciare le belle virtù in cui si riconosce – e in cui, però, tre quarti del Paese non vede altro che mostruosi vizi – in degli atteggiamenti strategico-politici leggermente meno fallimentari. La “ggente” infatti ritiene (a torto o a ragione) i piddini amici delle banche, degli immigrati irregolari a cui capita di delinquere per noia e disperazione, della grande finanza, delle multinazionali e di una burocrazia europea ormai percepita come una vera e propria serpe in seno.

Se la gente considera orrendi vizi quelli che i piddini ritengono invece superiori virtù, allora l’invocazione di Sade ai francesi potrebbe rivelarsi quanto mai d’ispirazione, infatti:

– Se non è vero che ormai è un partito neoliberista, il PD potrebbe evitare di fare la “destra” del neonato governo giallo-rosso, rilanciando piuttosto sul salario minimo (11 e non 9 euro l’ora); o proponendo di istituire un vero reddito universale di cittadinanza e non quell’immondo aborto che hanno concepito Lega e 5stelle.

– Se non è vero che il PD antepone i propri ottimi rapporti con l’establishment UE all’interesse nazionale, allora potrà senz’altro dimostrarlo entro i prossimi tre anni portando a casa – costi quel che costi – la riforma del trattato di Dublino. Solo quella riforma, ormai lo sanno anche i muri, può risolvere la “questione” migratoria che ha avvelenato il dibattito pubblico degli ultimi anni a tutto vantaggio delle propagande fascio-leghiste.

– Se non è vero che ormai il PD è il partito dei ricchi, della finanza e della borghesia “eroica”, allora potrà dimostrarlo con gioia tassando selvaggiamente le rendite finanziarie (almeno del mercato azionario), le parcelle a tre, quattro e cinque zeri dei professionisti affermati, i beni di lusso, le terze quarte e quinte case, preoccupandosi piuttosto di aumentare le tutele al lavoro dipendente, alle famiglie, agli stagionali, alla piccola e piccolissima impresa.

– Se il PD non è il partito in cui una vetusta élite intellettuale e professionale si specchia allucinando le proprie rughe per velluto, allora potrà facilmente mostrarsi consapevole del fatto che l’odierna ondata di razzismo e xenofobia non è che la punta di un iceberg, il sintomo di un malessere sociale che non può essere semplicemente spazzato via con una bella tachipirina di moralizzazione e rieducazione.

Perché questo orrore, questo baratro culturale, non nascono dal nulla ma sono piuttosto lo sbocco naturale della seconda Repubblica, di un ventennio imbevuto, dominato dai valori classisti, perbenisti e moralisti del Pd e da quelli “speculari” del suo sodale Berlusconi (arrivismo, rifiuto delle regole, esaltazione del successo autoimprenditoriale e del denaro). È da quella temperie culturale che è scaturita questa nuova atmosfera: questa voglietta di Terzo Reich che si spande come una scorreggia puzzolente per l’Italia, per l’Europa e per tutto l’Occidente. È l’odio, il fetore degli aspiranti borghesi falliti e impoveriti, a loro volta odiati da intellettuali e professionisti classisti, moralisti e paternalisti – spesso altrettanto falliti. È veramente una situazione ributtante che, amplificata a dismisura dai social e dai giornali, fa veramente venire voglia di ritirarsi in un Aventino privato, familiare, amicale. Un’istinto comprensibile, quasi sano, a cui pure non bisogna cedere (anche se la nausea sale e sale, senza sosta).

E quindi, amici superstiti del PD, ancora uno sforzo se volete essere “di sinistra”, ancora uno! Cominciate a rendervi conto che una sinistra non povera, non operaia, non “compagna” e pure un po’ ignorante, non può essere “sinistra”: non può essere una sinistra popolare, una sinistra di tutti. Ancora uno sforzo per accorgervi che la composizione di classe del vostro elettorato è praticamente priva di persone che appartengono all’odierno proletariato. Perché se non siete in grado, ora, di fare questo sforzo, vi conviene – proprio come fece il Divin Marchese – augurarvi letteralmente di scomparire.

Non so se i giovani piddini leggano ancora la Scuola di Francoforte, o se preferiscano letture di maggior spessore, come Steve Jobs, Michelle Obama o Papa Francesco. Ma se leggessero quel libro fenomenale che è La dialettica dell’illuminismo, vi troverebbero dipinto Sade come l’“altra faccia” (nel senso in cui si dice di una moneta) della Rivoluzione francese: il punto cieco di quella razionalità illuminista, universalista e proto-capitalista nei cui valori i piddini pretendono di riconoscersi. È nello stesso cono d’ombra di Sade, nello stesso punto cieco, che dei novelli Adorno e Horkheimer (avercene!) collocherebbero il PD. Un punto cieco che non vi permette di realizzare che non siete mai stati un antidoto, un argine al degrado in cui stiamo sprofondando, quanto piuttosto una delle sue concause. Il capitale culturale, la credibilità, che avete dilapidato in questi ultimi vent’anni, sono letteralmente immensi.

Se il libertino di Sade non è mai sazio di “piacere”, se ne abusa bulimicamente finché non sprofonda in inquietanti stati di apatia catatonica – e proprio per questo Adorno ne fa il prototipo dell’“uomo del piacere” capitalista (impotente, infelice e solo), allo stesso modo l’Uomo che avete contribuito a forgiare negli ultimi vent’anni – sulle nostre pelli, sui nostri corpi, nelle nostre menti – è un essere insaziato di autoimprenditorialità, inappagato da famiglia, amici, compagni, in perenne lotta con se stesso e con gli altri per raggiungere un’immagine, un’idea di sé spropositata, abnorme, estranea. Individualizzato, sradicato, spinto senza sosta alla competizione e al sospetto nei confronti dei propri simili, incapace di comprendere e stimare chiunque non sia impegnato come lui in questa eterna fiera delle vanità, in questo solitario che ha per premio solo l’incombere della morte e l’avvitamento nella solitudine.

Dopo Adorno persino Lacan (che non era certo un comunista, né un progressista) ha notato la strana omologia che collega il desiderio sadico e quello capitalista, mostrando come in fondo ogni godimento di Sade esista solo nell’orizzonte di un “progetto”. Sade e i suoi protagonisti non sanno godere se non nel progetto, nella preparazione razionale, calcolata, di un quadro, di un tableau, in cui disegnare, prefigurare, architettare le perversioni che metteranno effettivamente in scena. Per loro il reale non è altro che il luogo in cui dare corpo – in maniera inevitabilmente deludente – alle proprie fantasie (la parte inquietante, e oscura, del roboante detto neoliberale “se puoi sognarlo puoi farlo”). Allo stesso modo l’homo autoimprenditorialis che voi – a volte forse in buona fede – avete contribuito a forgiare negli ultimi vent’anni, non sa godere che di un progetto di vita, di felicità, di relazione. Un homo che adora immaginarsi altro da sé e che – per questa ragione – incontra nella frustrazione la sua principlae fonte di soddisfazione. Una nuova nevrotica specie umana che gode di più nel progettare cosa mangiare che nell’atto di masticare e gustare; una pianta umana che appassisce con la rapidità di uno sguardo mentre le sue relazioni, i suoi rapporti umani, stingono a vista d’occhio come foglie morte.

Sarà per questo che l’ultima triste trovata degli pseudo-progressisti per rifarsi un’immagine “umanitaria” – come se essere “umanitari” avesse qualcosa a che fare con l’essere di sinistra, è quella di flirtare coi beghini e coi preti scodinzolando sotto il tavolo del Papa Re… . Avanti così! Dopo di voi qualcosa verrà, e non potrà che essere migliore. Ma non preoccupatevi, quel giorno, quelli di voi in buona fede e ancora capaci di un briciolo di autoironia potranno comunque confluire individualmente in Charta Sporca… magari con un bell’articolo collettivo su Sindrome di Stoccolma e neoliberismo.

La borghesia liberale, porgendo con una mano le riforme, con l’altra mano le ritira sempre, le riduce a nulla, se ne serve per asservire gli operai, per dividerli in gruppi isolati, per perpetuare la schiavitù salariata dei lavoratori. Il riformismo, perfino quando è del tutto sincero, si trasforma quindi di fatto in uno strumento di corruzione borghese e di indebolimento degli operai. L’esperienza di tutti i Paesi dimostra che prestando fede ai riformisti gli operai hanno sempre finito con l’essere gabbati

(Lenin, Marxismo e riformismo)

Difficile leggere oggi qualcosa di più vero su un qualsiasi giornale. Altro che Buonanotte Signor Lenin…