L’analisi di Crainz
Un bell’articolo di Guido Crainz “Il tramonto del demiurgo” su Repubblica del 2 novembre 2010, suscita riflessioni e perplessità di fondo sul che fare dopo la fine di Berlusconi. Parlo anche di perplessità perché il lascito generale che ho avvertito è quasi un senso di sgomento, se non di paura, forse perché crolla Berlusconi, ma non si capisce, anzi a dir meglio si ha paura che non avvenga e non possa avvenire lo stesso per il berlusconismo, quell’istinto italiota, miscuglio di spregiudicatezza egoista fondata sulla furbizia, sul non rispetto della legge e delle regole, che attiene al nostro dna, quella “pancia” che è substrato di una coscienza civica (sociale e politica) immatura, a cui il nostro si è direttamente rivolto e su cui ha basato la sua forza ed il suo successo.
A dirla ancora meglio si capisce che anche dopo Berlusconi di fatto non si sa come affrontare il berlusconismo (nella paura che, nella situazione italiana, sia esso male invincibile), così come non si è stati capaci di affrontarlo nel momento di maggior sfrontatezza, quando per circa vent’anni ha espresso addirittura un suo Cesare, appunto un vero e proprio demiurgo.
Ma proviamo ad articolare la riflessione con ordine.
Crainz spiega che ci troviamo di fronte all’esaurirsi di una fase intera della storia del paese per la cui nascita cita il momento simbolico dei funerali di Moro nel maggio 1978. Fino ad allora il sistema dei partiti aveva svolto un ruolo sostanzialmente positivo per lo sviluppo della nazione; si impone invece da tale data un modo negativo di “essere italiani”, si erode l’idea di “bene comune”, emerge un modello di “egoismo sociale” e di vero e proprio “disprezzo delle regole” in base allo spregiudicato desiderio di “affermazione individuale”. Tutti valori che accompagnano gli anni Ottanta del Novecento ed il loro ipocrita ottimismo, e che sfociano nel populismo di Berlusconi, che approfitta anche di “mani pulite” per rovesciare tutte le responsabilità sul “sistema dei partiti” e per demonizzare così la “prima repubblica”. Erano miti e illusioni di una ideologia rozza e semplicistica, ai quali però - spiega Crainz - il centrosinistra non ha saputo mai dare un risposta concreta, quale sarebbero stati dei modelli di “buona politica”; anzi si potrebbe dire (ed io dico) che purtroppo anche il centrosinistra nella gestione della politica (a vari livelli) ha finito per equipararsi al centro destra.
La crisi ora vede disattese le illusioni e ciò provoca nel centro destra rancore in chi sinceramente le aveva condivise e purtroppo maggiore e più totale chiusura in egoismi individuali. Ma oltre a ciò Crainz annota anche il “crollo delle aspettative” nel centro sinistra, anche in coloro che hanno sempre tentato di “resistere” allo “spirito del tempo”, tanto da spiegare come da una crisi di consensi della destra non derivi automaticamente una crescita di quelli di sinistra.
Crainz per il superamento di tale fase politica di stallo parla della necessità di una “larga alleanza”, per la quale nega però validità (ed ancora sono d’accordo con lui) alla “unità da CLN” da più parti evocata, in quanto un tempo i partiti furono “legittimati dalla resistenza”, mentre quelli attuali sono “il risultato di anni di involuzione politica”. La soluzione sarebbe per lui un grande atto di coraggio centrato sulla “discontinuità”, ma non nasconde il suo pessimismo perché ciò rappresenta un “colpo d’ala” che oggi ritiene “impensabile”.
La mia analisi
A me preme sottolineare soprattutto una peculiarità. Uno dei fronti di attacco vincenti della propaganda di Berlusconi è stato fin dall’inizio l’anticomunismo. “Rossi”, nella sua viscerale analisi politica (perché appunto sempre e consapevolmente si è rivolta ai visceri e non alla testa degli elettori), non erano più solo i partigiani, i partiti della sinistra, i sindacati, gli operai, ma finanche i giudici, un ceto che da sempre ha rappresentato l’istituzionalità dello stato, il dover essere e stare sopra le ideologie, quasi una classe di notabili; che un tempo (ironia del destino!) era qualificata e definita in maniera opposta, come di destra.
Il suo insistere su tale parola d’ordine in tempi di fine delle ideologie, di crollo di muri, di scomparsa quasi totale di comunisti aveva ed ha in sé del ridicolo, eppure è risultata carta vincente. Occorre chiedersi il perché. La spiegazione sta in quella “pancia” dell’italianità sopra ricordata fondata sull’individualismo, e in fondo sul capitalismo inteso in senso deteriore come mercato aperto solo all’egoismo personale che non ha fini sociali e che non sa e non vuol sapere cosa sia il bene comune. Forse in ciò fu anche la ragione del successo del fascismo, ma in tempi, è opportuno ricordarlo, in cui il comunismo si presentava però come un dato, o almeno una possibilità reale. Ora questo fronte di guerra del comunismo che portava facilmente il successo non esiste davvero più, e di ciò se ne è accorta perfino la chiesta che in tale “strategia della tensione intestinale”, che si fondava sulla coscienza civica sporca dell’italiano, è stata per due decenni un grande alleato di Berlusconi. Oggi continuare ad insistere ancora su quel tema sembra davvero fuori del tempo, anche per chi ne aveva fatto una bandiera dello scontro politico, come la destra ed il nuovo fascismo o il revisionismo alla Pansa. Questo trito lato ideologico è stato sicuramente a lungo sottovalutato, eppure evidenziava limiti negli aspetti primari della coscienza civica italiana: il forte individualismo, condito di egoismo, attaccato alla roba ed alla proprietà, al possesso di beni, che nuotava magnificamente in un sistema capitalistico da sempre lacunoso nella democrazia, nella partecipazione, nella concorrenza, anzi che accettava e perseguiva in tale lacunosità l’ambito giusto, il fondale appropriato per galleggiare e primeggiare al di là delle regole, con la furbizia dei piccoli speculatori senza scrupoli, assurti poi, nella fase di crisi, ad immaginario collettivo negativo con i “furbetti del quartierino”. Se Berlusconi ha avuto e continua ad avere la maggioranza del voto degli italiani non è forse perché quei furbetti al fondo erano apprezzati dai suoi elettori? Non ci sono mai stati, soprattutto nei momenti d’oro, e forse mai, nel popolo italiano il disprezzo e la condanna per chi si approfitta della situazione, per chi sfrutta le leggi per l’opposto per cui sono nate, per chi governa e cambia le regole a proprio vantaggio, per chi sa nuotare nel fango! Tanto di fango la vita si tratta! Questo purtroppo l’assunto condiviso e maggioritario! Ed il rinvio al rigore, all’austerità, al rispetto, alla coerenza che il comunismo aveva in sé, non tanto nei termini sociali e politici, quanto proprio in quelli personali, della disciplina militante, erano l’esatto contrario di ciò che ha governato e forse governa l’animo degli italiani e quindi ciò che lo disturba di più.
Una disamina tragica, ma credo purtroppo veritiera, con la quale davvero si devono fare i conti, perché spiega il Berlusconi e purtroppo il berlusconismo. Anche in ragione di questo mio cavillo interpretativo sposo il pessimismo di Crainz, e credo e spero in un taglio netto che riesca a far ripartire il paese e la sua coscienza.
Il Che fare?
Vediamo alcune ipotesi e tentativi di risposte.
a) Prima di tutto mi piace ricordare Marco Revelli che nel suo “Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro” (2001 - un libro al quale sono molto affezionato), ha fatto un esame dei mali del secolo passato, soprattutto in relazione ai miti che governarono la scena mondiale. Il suo studio riguarda fatti e avvenimenti di grande rilevanza che sicuramente nella storia rimarranno (come il nazismo, il comunismo, il capitalismo e il potere della tecnologia, fino a quella atomica) e va quindi ben al di là del berlusconismo e lo travalica (anche se purtroppo, e mi costa tanto riconoscerlo, anche Berlusconi di fatto è già nella storia!), ma si può dire anche che lo contiene, e per alcuni argomenti è essenziale al nostro discorso. Revelli spiega, infatti, che il militante di partito del Novecento, l’operaio, soprattutto il militante di sinistra, con il suo atteggiamento di passione e fede, votato all’idea della rivoluzione e del cambiamento della società a cui ha dedicato l’intera sua esistenza; alla fine, certo contro le sue intenzioni ed a controprova di una interpretazione filosofica (la eterogenesi dei fini) che è il filo conduttore della sua analisi, ha finito per essere il perfetto e simmetrico contro altare dell’uomo faber capitalistico. Entrambi sono quindi protagonisti di un fallimento che intellettualmente, al di là delle posizioni di parte, è doveroso riconoscere. Revelli che è un comunista (credo di Rifondazione) ammette di non saper indicare quale nuovo soggetto politico si stia affacciando sul palcoscenico della storia con la capacità di far ripartire una nuova fase di ricostruzione e rifondazione della società, e accenna come possibilità, senza insistervi, perché chiaramente ha consapevolezza della loro fragilità, agli ambiti del volontariato ed all’associazionismo nei quali vede emergere forme nuove e positive di partecipazione, forse davvero alternative per il futuro della democrazia. Ma riconosce lui stesso che l’indicazione rappresenta nei fatti per ora solo una pura ipotesi.
Il pessimismo sembra davvero l’unico risultato di chi produce un’analisi oggettiva della situazione reale!
b) Importante per il discorso socio-politico che stiamo facendo è il concetto di “moltitudine”, che è al centro di un dibattito culturale molto sviluppato, con il quale si tende a superare i concetti di stato, di popolo, e di classe, le categorie cioè con le quali si sono declinate le dinamiche sociali dall’inizio della teoria politica. Il concetto che potrebbe far fare lo “impensabile salto”, o almeno esserne per così dire il trampolino. Si fa risalire proprio all’epoca iniziale della scienza politica la differenza di approccio che individua due rappresentazioni che tra loro sarebbero appunto alternative. Dalla prima nata con Hobbes è derivata una raffigurazione del consorzio umano divisa in strutture territoriali, in istituzioni, in tradizioni da cui poi i concetti di stato, di nazione, di contratto sociale, di popolo e di classe che hanno dominato sino ad oggi la scienza politica con una analisi che si può definire chiusa per soggetti ed esclusiva. La sua ragione fondante stava in una visione pessimistica, il famoso “Homo homini lupus”, per cui era necessario una organizzazione forte, in primis lo Stato, per rendere sicura la società. La seconda nata nello stesso periodo con Spinoza è rimasta sempre una corrente latente che fa leva sul concetto appunto di moltitudine, la convinzione cioè che il consorzio umano non deve essere formalizzato in istituzioni ma che rimane sempre un insieme di singoli individui, che trova la sua unità in entità politiche non territoriali e comunque non in strutture di governo locale, insomma per essa il sistema si configura nel suo insieme come una rete di collegamenti delle singolarità. Da tale idea si può dire quindi derivano, (o comunque in essa trovano le ragioni) i concetti di alleanze sopranazionali, il socialismo stesso, l’economia globalizzata, il lavoro diffuso, l’economia virtuale, cioè il superamento delle “chiusure” e dei “confini”. Solo oggi la crisi della politica degli stati nazione, la loro incapacità di affrontare e risolvere i problemi del mondo in base alla rigidità di un modello chiuso, e all’opposto il successo di internet, la rete, il mercato globale, l’interdipendenza mondiale dei vari e particolari scenari sembrano far riemergere dagli abissi della storia del pensiero tale teoria misconosciuta, ma positiva, forse quella che può essere usata per affrontare la complessità del presente. Riemergono tra l’altro con essa fenomeni e concetti e miti che hanno fondato la storia dell’umanità come per esempio l’esodo che oggi si configura come un assalto migratorio inarrestabile dei popoli del terzo mondo verso il mondo industriale che diviene appunto multietnico, mentre doveva essere nei suoi intenti un mondo perfetto e chiuso. Ruolo centrale nel far emergere questo concetto ha avuto, bisogna riconoscerlo, Tony Negri, con la sua rivalutazione rivoluzionaria di Spinoza sovversivo (1998), con il suo libro: Impero - il nuovo ordine della globalizzazione (2002), e con il successivo: Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale (2004).
c) Una digressione
Il tono non entusiasta nel riconoscimento deriva sicuramente dalle remore verso un Tony Negri pubblicizzato come cattivo maestro di una generazione. Il giudizio è come sempre relativo, soprattutto quando cattivo non è cosa viene detto, ma cosa viene interpretato, o al più, lo concedo, “come” viene detto.
Per spiegare ciò una digressione è opportuna, anche fosse solo per alleggerire il testo che si va oggettivamente complicando; e comunque a me piace introdurla spesso nel discorso e quindi volentieri digredisco (come giustamente mi ha suggerito un amico si coniuga, alla prima persona del presente indicativo, il verbo digredire, che significa deviare, e presuppone la devianza, la qual cosa mi affascina, ma la digressione diverrebbe infinita…).
Posso quindi raccontare di aver sempre letto Negri è di non esserne mai stato influenzato sul piano politico in maniera negativa, ma confesso anche di averlo ascoltato una volta direttamente ad una conferenza, ed il discorso allora si fa indubbiamento diverso. A Pisa, in una aula della Normale, anni fa, seguii la Menapace, Tronti e Negri che affrontarono il tema della violenza sociale, mi pare di ricordare… Mentre i primi due relatori fecero addormentare l’intero uditorio, Negri dicendo più o meno le stesse cose lo fece esplodere. Iniziò domandandosi e domandandoci se si potesse parlare di violenza dello stato. Lui si rispose convinto e già euforico: Certo! E sviluppò poi la sua dimostrazione con un fremito addosso, che si faceva nell’argomentare sempre più compulsivo, e che finì per penetrare l’intera sala, e trasmettersi ad ogni ascoltatore.
Io sono un tipo moderato, forse anche calmo (ma non dentro!), comunque sempre abbastanza controllato. Ma ricordo che quando uscii in Piazza dei Cavalieri, assieme ad un mio amico, eravamo entrambi pervasi, posseduti, da una frenesia di spaccare comunque qualcosa, di buttare all’aria, di sfasciare. Da compiere atti vandalici mi salvò solo la cultura, come sempre! Mi ricordai infatti la battuta di Woody Allen che asseriva come ogni qual volta ascoltava Wagner fosse assalito dalla voglia di invadere la Polonia! Sorrisi, e mi chetai, bloccando anche il mio amico. Ma i giovani, quelli senza cultura, quelli senza alcun scudo, che avevano ascoltato con me e come me il maestro, cosa avranno fatto di Pisa quella notte? Mi son sempre chiesto, senza però mai appurare...
Bando alla devianza ed allo scherzo, devo riconoscere al fondo, senza l’ostacolo del preconcetto, senza la remora, di apprezzare le analisi di Negri.
d) Proprio nella prefazione al libro “Moltitudine” Negri spiega bene che attraverso di essa si rende possibile l’idea di una democrazia globale. Infatti, dopo aver constatato i limiti dell’ordine contemporaneo fondato appunto sugli stati nazionali, ed il suo oggettivo stato di ingovernabilità totale (guerre, crisi finanziarie, etc.) evidenzia il sorgere di un potere reticolare, che lui chiama “imperiale”, distinguendolo da imperialista. La moltitudine, non più il popolo, o la classe (frutti scaduti di una visione superata), ma appunto questo nuovo insieme delle molteplicità, il sistema delle differenze singolari che è cresciuto all’interno di questo quadro imperiale ne rappresenta alfine anche la “alternativa vivente”. Perché solo la moltitudine è in grado di dare una risposta comune mantenendo le differenze interne, che rappresentano sempre un valore. Soprattutto questa è la grande capacità nuova ed essenziale, perché le vecchie categorie erano esclusive, e per esempio anche la classe operaia finiva per separare i salariati dai poveri, mentre la moltitudine è inclusiva, è aperta e non esclude e separa alcunché, e soprattutto nessun altro soggetto. Con tale concetto quindi non si dimentica nessuna figura che partecipa alla produzione che, oggi lo si è ormai ampiamente accettato, deve essere intesa come produzione sociale, non può più cioè essere concepita solo nei termini economici di beni materiali, ma anche di “comunicazione, relazioni e stili di vita”. Nella moltitudine così intesa può ben emergere dalle diversità, ed in forza di esse, il “comune”, cioè il dato comune, il bene comune, che non è più lo spazio precapitalistico collettivo distrutto dall’avvento della proprietà privata, ma qualcosa di superiore, di concettualmente diverso, di filosofico, che presume e impianta una superiore coscienza sociale e politica. In tale analisi e su tali basi interpretative acquista rilevanza il concetto di rete, perché l’organizzazione in rete e quindi lo sviluppo di relazioni di cooperazione tra i soggetti, e perciò anche tra i poteri, sviluppa giocoforza la tendenza all’organizzazione sempre più democratica. Il discorso può sembrare difficile, ma nella sua linearità invero è molto semplice e chiaro.
Anche Negri del resto ammette che comunque la sua analisi non offre e non può offrire un programma di azione, non risponde cioè al Che fare? Rimane, e vuol essere del resto, uno strumento valido per capire e comprendere cosa sia nel mondo di oggi la democrazia.
A me sembra un buon passo, uno sviluppo ed adeguamento delle cognizioni e delle conoscenze, uno stabilire a base un quadro condiviso, un passo avanti comunque da fare, per prendere lo slancio, per permettere nei fatti realmente quel salto nell’azione politica di cui si è accennato e che tutti ritengono essenziale per cambiare le cose.
e) La risposta di Illuminati
Il rivoluzionario Augusto Illuminati sviluppa una similare riflessione partendo dalla constatazione della devastante crisi della sinistra incapace di risposte, ed ha scritto a proposito un libro dal significativo titolo di “Per farla finita con l’idea di sinistra”. Anche in lui c’è la necessità di superamento delle categorie filosofiche che hanno governato l’interpretazione del reale, finanche del fondamentale mito hegeliano del riconoscimento, dell’autocoscienza e dell’emancipazione attraverso il lavoro; e c’è l’evidenza di riscoprire schemi alternativi come la moltitudine spinoziana validi per reggere una democrazia espansiva che guarda al concetto di “comune (i nuovi commons) e che vuole dare voce (cioè non escludere ma includere) a chi attualmente non ne ha titolo e diritto. Più riguardo alla politica, per l’attuale sinistra, parla di “una candidatura ad un più efficiente regime” (che è sempre di sfruttamento) dopo lo sfascio del carrozzone del populismo liberista berlusconiano; di sistema partitico in agonia; e della conseguente necessità di far crescere il protagonismo di nuovi soggetti quali i movimenti (“forme biopolitiche di aggregazione”, nel senso che la politica non deve essere più collegata solo alla produzione ma più in generale alla vita). La sua disamina della forma organizzativa della sinistra è molto critica, addirittura cattiva, se non acida (essendo espressione dei soggetti che sognano una reale alternativa di sistema) ed arriva anche a condannare i forum mondiali che hanno creato “circuiti di rappresentanza solo un po’ più a sinistra dei partiti” e ad accomunarli nella sconfitta. Definisce spettrale l’attuale sinistra e annota come il quadro delle soluzioni organizzative politiche sia fermo al 1789 e usa un paragone che definisce triviale, ma che per me è geniale, tanto da riprodurlo integralmente per la sua bellezza letteraria: “… l’enorme complicazione assunta dal sentimento amoroso passando dall’eros pagano all’agape cristiana, dall’amor cortese arabo-provenzale al libertinismo settecentesco ed al romanticismo non ha modificato la gamma delle tecniche di accoppiamento esposta nella pittura vascolare greca o nelle acrobazie scultoree dei templi tantrici di Khajuraho”. Comunque anche per Illuminati la ricerca di forme organizzative rimane necessaria, per cui utile è lo studio di tutte le forme (ciò prevede in effetti l’inclusione della moltitudine) compresa quella della Lega che definisce erede delle forme di vita del vecchio PCI. Purtroppo Illuminati a fronte della liquidazione del passato rimane povero nelle proposte, e forse non può che essere così perché il compito è davvero difficile, limitandosi a indicazioni generiche di metodo quali “l’immediatezza di una vita felice, cooperativa, transindividuale”. Molto più pregnante è la critica alla politica dell’attuale sinistra, che definisce crudamente un “riformismo compassionevole” formato da: “soluzioni generaliste per la razionalizzazione della spesa, efficienza amministrativa, ritorno dalla finanziarizzazione all’economia reale”, e di stanche parole d’ordine sul contrasto “all’evasione fiscale, alla corruzione, alla speculazione finanziaria” (che rappresentano gli assi portanti della configurazione del capitalismo italiano). Ancora più concrete sono le risposte quando afferma che “il sistema va in tilt solo incrinando il basso livello salariale e la precarietà”, per cui “solo elevando il salario ai lavoratori a tempo indeterminato ed elargendo un reddito garantito a quelli atipici si riduce la frantumazione della forza-lavoro e si costringe il sistema ad un riordino virtuoso”. Al concetto di “coesione sociale” del riformismo va contrapposta con forza la “cooperazione delle singolarità”.
Soluzioni rivoluzionarie? Bella scoperta! Ma forse è opportuno riconoscere che sono anche le uniche davvero capaci di cambiare la realtà.
Conclusioni
Negri e Illuminati dei maestri e quindi guide del Che fare? rispetto alla fine di Berlusconi e soprattutto per arrivare ad un vero superamento del berlusconismo? Non avrei paura a riconoscerlo, consapevole di alcuni grossi loro limiti propositivi (che sono sempre inferiori a quelli di moltissimi altri), ma anche della grande lucidità e profondità della loro analisi. Sono poi soprattutto positivi nella loro esigenza di fondo di attrezzare strumenti nuovi di analisi (finanche le categorie filosofiche e quelle morali) per interpretare correttamente i cambiamenti che il mondo di continuo produce. Un richiamo cioè alla necessità di sviluppo delle conoscenze che si ottiene attraverso l’analisi critica dell’oggettività del reale e dei suoi fenomeni, e l’analisi autocritica delle idee ed opinioni della soggettività, di come nascono, di come si sviluppano, di come cambiano (possano e debbano cambiare). Ma per questi insegnamenti, da ormai stagionato “pensatore”, ho anche altri riferimenti, più classici e quindi più sicuri. Porto l’esempio di Vittorio Foa, che nel suo libro: Questo Novecento (1996), per problemi che possiamo definire analoghi era capace di illuminanti riflessioni. Ricordo che rispetto al tema dell’identità condannò l’incapacità della sinistra a capire e recepire un valore che stava insito nell’animo degli uomini, abbandonandolo così per decenni alla destra. Errore non da poco, che tra l’altro ha segnato l’intero dopoguerra italiano, perché con l’identità si condannò di fatto il senso di appartenenza ad una comunità, che significa condivisione, e quindi partecipazione alla vita collettiva, al bene comune. Più ancora autocritico e davvero moderno (post fordista? lui nato col fordismo) fu addirittura rispetto alla sua attività sindacale ed alla capacità di capire i cambiamenti della società. Ricordò, infatti, che negli anni del boom economico gli operai volevano l’automobile, la tv, gli elettrodomestici, e che i sindacati erano contro queste aspettative, e cercarono di ostacolarle. Riflettendo dopo su quelle dinamiche capì che i tanto agognati beni di consumo della civiltà industriale rappresentavano per gli operai un miglioramento della qualità della vita rispetto alle ristrettezze oggettive della civiltà rurale dalla quale stavano uscendo, e che l’automobile rappresentava non un bene superfluo, il nemico individuato dalle dirigenze sindacali come simbolo capitalistico della spirale del consumo che andava combattuto, che bisognava intellettualmente sfuggire, ma il bene pratico che permetteva il movimento, il disancoraggio, l’evasione e quindi la realizzazione individuale del bisogno di libertà. Sentenzio quindi Foa: noi avevamo torto, gli operai avevano ragione.
Questa capacità di valutare i cambiamenti, di capire i nuovi soggetti sociali ed il loro bisogni, di superare le categorie con cui si interpretano, di adeguare concettualmente e praticamente le forme di organizzazione con le quali si risponde nella pratica politica (che sono al fondo i richiami di Negri e Illuminati), infine l’umiltà (quasi un bene supremo) di riconoscere gli errori, di fare non solo critica, ma anche autocritica hanno quindi dei maestri, sicuri, e Foa è certamente tra loro. Così, per trarne davvero delle indicazioni sul Che fare?, non bisogna dimenticare che lui fu uno dei grandi vecchi della nostra democrazia, uno dei padri della nostra Costituzione. E questa non è bene da poco, e gli attacchi che subisce qualcosa vorranno pur dire! Secondo me, e mi ripeto, ed ancora secondo Illuminati che un’altra volta citai in tal senso, vuol dire che mai è tutto da buttare, e che la rivoluzione, come in natura, si attua anche attraverso la conservazione delle cose buone. Il tutto sta nella capacità di distinguerle, che vuol dire conoscenza.
Massimo Michelucci