L’Italia ha appena commemorato la festa del Lavoro in un contesto economico e sociale pesantissimo, nel sesto anno consecutivo di recessione e con i tassi di disoccupazione ai massimi da 36 anni. I tradizionali momenti celebrativi del Primo Maggio non sono riusciti a nascondere la profonda crisi di rappresentanza che, al di là dell’alto numero di tesserati, i sindacati stanno sperimentando; una crisi causata dai mutamenti sociali, economici e culturali che hanno investito il mondo del lavoro e rispetto ai quali il sindacato non è stato capace di rinnovarsi. L’incapacità di snellire le pletoriche burocrazie o la partecipazione a operazioni ambigue come i fondi pensioni hanno piuttosto reso ancor più problematico il rapporto tra organizzazioni e lavoratori.
Tuttavia, attribuire al sindacato la responsabilità della crisi occupazionale e il ruolo di ostacolo a provvedimenti capaci di favorire la ripresa è falso e pretestuoso. Se si ripensa all’accordo del luglio 1993 sulla politica dei redditi, con il quale il Paese sconfisse l’inflazione preparando le condizioni per l’ingresso nell’euro e il risanamento dei conti pubblici di metà anni ’90, si può affermare, come ha fatto Renzi e come fanno opinionisti e politici di ogni tendenza, che i sindacati non hanno fatto nulla negli ultimi 20 anni per l’Italia? Eppure quell’accordo costò loro caro perché la parte maggiore dei sacrifici ricadde sui lavoratori.
E se fosse vero che il sindacato blocca ogni buona riforma per lo sviluppo economico del Paese mobilitando le piazze – un “sempreverde” tra le colpe attribuite al mondo del lavoro – come è stata possibile l’implementazione in Italia, dal 1995 ad oggi, di quattro riforme pensionistiche e tre riforme del lavoro?
E se i sindacati italiani sono davvero così potenti, come si spiega l’età media effettiva di pensionamento più alta d’Europa (già prima della legge Fornero), il mercato del lavoro più liberalizzato, il costo del lavoro tra i più bassi dell’area euro? Il problema dell’attuale crisi sono davvero i sindacati? O non, piuttosto, un’imprenditoria incapace di stare a galla fuori dalle placide acque della lira da svalutare? O un mondo bancario che non finanzia investimenti e quando lo fa valuta i rapporti di amicizia più dei progetti?
Trattandosi di risposte scomode, si preferisce accusare ugualmente i sindacati, rei di non guardare al bene comune (l’accordo del 1993 testimonia il contrario) ma solo al bene dei loro iscritti. Al di là del fatto che nessuno lancia la stessa accusa ai sindacati degli imprenditori, da Confindustria a Confcommercio o Coldiretti, anch’essi naturalmente tesi a difendere le prerogative dei loro rappresentati, in pochi riflettono sul fatto che è compito della politica fare sintesi tra le istanze dei gruppi organizzati all’interno di un disegno di sviluppo della nazione. Ma, dopo i governi Ciampi e Prodi I, quale governo è stato fedele a questo ruolo, indicando un orizzonte di lungo termine per il Paese? Nessuno, purtroppo.
Se poi si arriva ad accusare i sindacati – ma non le associazioni di categoria, stranamente – dei soldi ricevuti in cambio dei servizi fiscali resi per conto dello Stato nei Caf (è come accusare le cliniche private per i soldi che ricevono dallo Stato per le prestazioni svolte in convenzione con il Servizio Sanitario) appare chiaro come il tiro al bersaglio sindacale sia ideologico e il mondo del lavoro sia divenuto capro espiatorio di tutte le crisi: da quella economica, provocata dalla finanza speculativa, a quella, altrettanto grave, di una politica in cui slogan e culto dell’immagine non riescono a nascondere il vuoto di contenuti e di idee.
Fonte: Il Corriere Apuano