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Una nuova stagione per la politica

Una riflessione di don Enzo Mazzi, un dei promotori della comunità di base dell’Isolotto a Firenze, su questa notte fonda della politica per una sua nuova rinascita Liberarsi da Berlusconi sembra che sia lo sport estivo della masturbazione mentale sui temi del nulla. Forse questo sfogo è ingeneroso verso gli sforzi di un mondo politico sinceramente impegnato per cercare una risalita dal baratro in cui siamo finiti. Ma è certo che il "popolo" del volontariato creativamente critico, dell'associazionismo solidale, della produzione di cultura, del sindacalismo dei diritti, vede con grande preoccupazione le convulsioni di un mondo politico che sente sul collo il fiato della dominazione globale del mercato e che trova ogni giorno ridotta la propria autonomia rispetto ai grandi poteri che dominano il mondo.
Il problema è che non sappiamo più che significa "politica", che vuol dire "partecipazione", in un mondo dominato dal fondamentalismo della nuova religione monoteista e assolutista del dio danaro. Il quale ha omai un immenso potere globale, finanziario, tecnologico, informatico, militare, tale da condizionare in modo determinante qualsiasi volontà politica e di partecipazione.
In questo mondo regolato da una tale religione è arduo fare politica da sinistra. Ci si affida al meno peggio in nome del realismo. Ma si rischia di essere stritolati dalla cultura della separatezza del palazzo. Mentre la destra è a suo agio (dico "destra" semplificando una realtà complessa e intrigata). Perché la destra è essenzialmente separatezza, in quanto si fonda su una concezione elitaria, classista o razzista della società. L'esclusione è la sua anima profonda, il privilegio è il suo respiro e il rito-teatrino la sua compensazione. La destra continuerà ad avere seguito nella misura in cui tutti noi, "la gente", restiamo imbrigliati dal miraggio del privilegio in questa scalata globale, attanagliati dalla paura, mossi dall'illusione dell'affidamento fideistico alla casta dei politici e dal comodo ricorso alla ritualità e alla spettacolarità di una politica da commedia.
La mia non è una resa rassegnata. Ritengo che forse questo tempo della notte fonda, della nebbia fitta, è il tempo che richiede lo sguardo attento ai segni minimi dell'avvento di una nuova stagione. Forse è il tempo di una solidarietà rinnovata negli obbiettivi e nei metodi che privilegi le relazioni più che le realizzazioni, che faccia crescere la consapevolezza complessiva più che indicare un preciso nemico, che crei identità collettive di gente consapevole della propria dignità più che addormentare con promesse salvifiche dall'alto, che tenti esperienze nuove di relazione, comunità oltre i confini, mentre si oppone alle relazioni e alle comunitarietà fondate sul dominio del danaro e sulle sue istituzioni.
Ha espresso con la sensibilità consueta queste stesse cose Pietro Ingrao in una Tavola rotonda sulla Violenza del sacro, svoltasi a Firenze in un gremitissimo salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, nell'ambito del Convegno delle comunità di base sulla Laicità svoltosi a Firenze nel 1987. Alla fine dell'intervento volle regalarci una sua poesia di tre versi: «Mordi musica, anima, vita,/ domanda, parla, grida il desiderio deriso, le fragili comunioni,/ leva in alto la sconfitta».
E poi spiegò: «Levare in alto la sconfitta vuol dire che quello che appare impossibile matura però nel grembo delle cose». E le fragili comunioni, pur essendo fragili e non ancora vittoriose, recano in sé, sia pure esposto, debole, ma in una misura che preme, il germe di un altro rapporto fra esseri umani, un rapporto dove ceda il dominio ed entri in campo la comunicazione, dove ciascuno di noi non sia più possessore, proprietario, vincitore, non più chiuso nella gabbia del dominio incomunicante, ridotto solo ad essere parte, soltanto parte. Levare in alto la sconfitta vuol dire sperare di entrare in una connessione che valorizzi ma anche oltrepassi l'enorme straordinarietà del singolo, ne superi i limiti e i confini, ne scavalchi anche la frantumazione e l'accaduto irrimediabile e la lacerante solitudine nella folla e finalmente apra una strada per una vita che abbia come primo senso il comunicare.

Fonte: Il Manifesto del 11 agosto 2010