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Il dominio e l'amore

Pubblicato su Nonviolenza femminile. plurale, n. 221 del 27 novembre 2008 tratto dal sito della Libera università delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it)

Penso che sia importante, per non dire necessario, che il 22 novembre si torni a manifestare contro la violenza maschile che quotidianamente avviene nelle case.
Nonostante gli sforzi di molte donne, che hanno tentato di farne un problema politico di primo piano - tenuto conto che si parla di un rapporto di potere che opprime metà degli esseri umani -, è tornata ad essere, nei mezzi di informazione, solo cronaca nera, e per le forze politiche solo una ricorrenza da celebrare una volta all'anno.
Questa cancellazione la dice lunga sulla protervia della cultura maschile dominante nel nostro paese, ma dovrebbe anche far riflettere, purtroppo, sulla subalternità intellettuale delle donne che oggi si muovono sulla scena pubblica con qualche ruolo di potere.
Non serve una massa critica perché una, due, tre giornaliste o parlamentari si prendano la responsabilità di denunciare il vergognoso silenzio su quella che è da secoli la prima delle "emergenze". Serve il coraggio e la scelta di rischiare anche un avanzamento di carriera o il posto di lavoro, serve la forza di disobbedire o di contrastare l'imposizione di un caposervizio, di un dirigente di partito. Ma questo non avviene, e allora si fa strada il dubbio: forse non si tratta di resa al comando del più forte, ma di consenso, condivisione, più o meno consapevole, della stessa visione delle cose.
È da qui allora che bisogna ripartire e chiedersi se la facilità con cui le donne, una volta insediate nella sfera pubblica, fanno propria la lingua, la cultura, le logiche di potere, che le hanno escluse, non abbia radici che affondano nel privato, nei legami più intimi. Un rinato movimento femminista ha portato allo scoperto, negli ultimi anni, i dati allarmanti sulla violenza manifesta che si consuma tra le mura domestiche, per mano di mariti, padri, figli, fratelli, ma sembra difficile andare oltre la denuncia e il vittimismo che quasi sempre ne consegue.
Non è vero che "si uccide per amore", è evidente tuttavia che l'amore c'entra, che forse è proprio l'amore, apparente "tregua" nella guerra dei sessi - come scrive Pierre Bourdieu nelle ultime pagine del suo libro, Il dominio maschile (Feltrinelli 1998) -, "la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile" della violenza simbolica.
Negli anni '70, la grande svolta del femminismo rispetto alle lotte di emancipazione che l'avevano preceduta, è stata quella di spostare l'attenzione dalla sfera pubblica al privato, di capire che l'"espropriazione di esistenza" delle donne cominciava da una sessualità negata e confusa con la funzione generativa.
Ha preso avvio allora un processo di riappropriazione del corpo, che ha interessato, oltre alla sessualità, la salute e la maternità, anche se vista soltanto come libertà di scelta - la questione dell'aborto -, e non per le implicazioni profonde che legano l'esperienza originaria della fusione con la madre al desiderio di appartenenza intima a un altro essere, quale si ripropone nella coppia adulta.
È stato certamente un grande passo avanti, nella coscienza storica, rendersi conto che il dominio maschile non passa solo attraverso l'esercizio del potere - leggi, istituzioni, saperi -, ma per aspetti meno visibili della vita e delle relazioni personali, scoprire che la libertà per le donne è, prima di tutto, "libertà di essere", un tema, come disse allora Rossana Rossanda, "irrisolto nel giuridicismo delle nostre democrazie: la questione della inalienabilità della persona. Esse sanno che la persona resta violata al di là delle dichiarazioni di diritto: dalla miseria, dal comando, dalla ideologia, da quella proiezione dell'oppressore che stinge anche all'interno di noi" (R. Rossanda, Le altre, Bompiani 1979).
Oggi, con una visione di insieme che abbraccia entrambi i poli di una dualità che ha perso via via confini e differenze, verrebbe da dire che occorre un'altra svolta, per certi versi più "spudorata" e più "oscena", se è vero che "fuori scena" sono oggi i sentimenti, le emozioni, la memoria del corpo in ciò che trattiene di più remoto e di impresentabile.
Resta da chiedersi quale "alienazione profonda dell'Io" passa attraverso l'amore, così come lo abbiamo conosciuto, teorizzato e insegnato dall'uomo, e dalla donna stessa, che si è fatta tramite della rappresentazione maschile del mondo.
Dell'appropriazione che l'uomo ha fatto del corpo femminile, si è ragionato finora quasi esclusivamente in termini di violenza, sfruttamento, controllo; del dualismo sessuale si è visto soprattutto il privilegio maschile, molto meno l'aspetto seduttivo dell'amore come luogo di una ideale ricomposizione di parti disgiunte e complementari, la realizzazione di un desiderio "preistorico", il modello di ogni felicità. Parlare di "possesso" in termini amorosi ha, almeno all'apparenza, un significato molto diverso da quando lo applichiamo al potere.
"Possedere e essere posseduti - scriveva Paolo Mantegazza in un libro molto amato dal pubblico femminile, Le estasi umane (Paolo Mantegazza editore, Milano 1887) -, formula prima ed ultima, scheletro psicologico di ogni amore". E aggiungeva, a sostegno della sua affermazione, l'esempio dell'abbraccio, tanto più appassionato quanto più la donna ha "piedi piccoli, piccole mani", vita stretta, mani che scompaiono nella mano dell'uomo, e che assicurano un "assorbimento completo".
Nella "fusione amorosa" gioca una parte ambigua l'apparenza della "reciprocità" - "rapiti e rapitori" -, che impedisce di vedere chi è realmente il soggetto dell'appropriazione e di come il "far proprio" si traduca in assimilazione, "riduzione al medesimo".
Da questo punto di vista, più esplicito era stato Jules Michelet (L'amore, 1858, Rizzoli 1987), un altro adoratore delle madri, più sottilmente e violentemente misogino di chi, come Otto Weininger, ha svelato, pagando giovanissimo con il suo suicidio, la follia sessista e razzista insita nella cultura occidentale. "La donna si impregna nell'intimo, si compenetra dell'amato fino a diventare lui", "intuisce che l'amerai di più, sempre di più se diventa tua e te stesso".
La reciprocità è l'effetto illusorio che viene dalla sovrapposizione immaginaria tra nascita e coito, dal capovolgimento che sembra far rivivere, nella "diade amorosa", come scrive in tempi molto più vicini a noi Bordieu, un "creatore", non più "Pigmalione egocentrico e dominatore", ma "creatura della sua creatura".
Sulla presa che ha ancora questa rappresentazione ambigua della madre, che nell'amore si farebbe figlia, creatura debole "per natura", desiderosa di protezione, pronta a negarsi per rivivere nell'altro e attraverso l'altro, sia esso marito, figlio o amante, non si è riflettuto abbastanza.
Allo stesso modo, stentano ad arrivare alla coscienza gli aspetti diversi, contraddittori che si mescolano confusamente nel sogno d'amore: la memoria del corpo - i segni che lascia la vicenda originaria -, la nostalgia dell'uomo-figlio di ricomporre in armonia ciò che la sua "civiltà" ha separato, e il dominio dei padri che hanno non solo sottomesso, violato, sfruttato il corpo femminile, ma fatto passare per amore il sacrificio di sè della donna, chiamata, come si legge nell'Emile di Rousseau, "a vivere in funzione degli uomini".
Siamo sicure di aver sbrogliato questo annodamento perverso di amore e morte? Siamo ancora convinte che per la donna l'"alienazione della persona" passa, prioritariamente, dall'espropriazione del corpo, delle sue energie fisiche, psichiche, intellettuali, dal suo essere sempre e comunque "rigeneratrice" dell'altro sesso, complemento della loro traballante "civiltà"? Non abbiamo forse abbandonato troppo in fretta la pratica collettiva che ha prodotto cambiamenti significativi delle vite e autonomia di pensiero, cioè l'autocoscienza?