Quella sera ho miagolato.
Era un miagolio stridulo quello che usciva dalla mia bocca, niente a che fare con una voce.
Supplicavo chi mi stava di fronte, troppo vicino, terribilmente vicino, di andarsene, di calmarsi.
Gli dicevo che non lo avremmo più cercato, mia figlia ed io.
Aveva appena minacciato di sfondarci di botte.
Eppure era stato lui a voler venire, ne sentiva il bisogno.
Stava male ed io lo avevo accolto: era mio marito.
Ero preoccupata per lui, per quelle cose che gli avevo visto fare,improvvisamente, senza capire da dove venissero.
Quella sera, improvvisamente, c'era solo il terrore e la lucidità di sapere che dovevo controllare anche il movimento delle dita, il respiro, lo sguardo tenuto basso. Non potevo neppure piangere.
Improvvisamente.
Ferma.
Ferma, perché quello che aveva vicino era già stato fatto a pezzi, come fosse stato carta e le sue mani forbici.
Ferma.
Ferma, perché sapevo che stava arrivando il mio turno.
I minuti erano immobili, neppure loro osavano muoversi.
Solo quel miagolio, e l'umidità del mio corpo che usciva altrove.
Pochi passi indietro e la fuga nella notte.
L'uomo che è stato un abbraccio sicuro si trasforma in un incubo, uno dei peggiori.
Improvvisamente.
Violenza di maschio su donna.
Le figure sanitarie con le quali poi ho parlato mi hanno detto che ero stata fortunata.
Davvero brava a controllarmi e strappare quella frazione di secondo per fuggire.
Fortunata e brava, parole che suonavano strane.
Non riuscivo a capire.
Non riuscivo a capire di cosa stessero parlando e quelle due parole continuavano a rimbalzarmi dentro.
Fortunata.
Brava.
Rimbalzavano.
Solo dopo ho capito, alle altre molto spesso non va così.
Miagolavo solo.
Ora miagolo dentro, ho perso l'innocenza.Editoriale pubblicato sul n. 441 del 2 agosto 2013