Ciclicamente accade, soprattutto in prossimità di elezioni, che riparta senza sosta la mobilitazione all’odio verso le minoranze. In questi ultimi giorni, nel mirino ci sono i rom, al grido xenofobo e razzista: «Radiamo al suolo i campi».
Poco importa se si sta parlando dello 0,25% della popolazione (180mila circa), se solo lo 0,06% (40mila) tra questi uomini, donne e bambini risiede effettivamente nei campi (segregazione coatta giustificata dall’idea che “loro vogliono vivere così”), se il 50% possiede la cittadinanza italiana per cui suona quantomeno stonato il “se ne tornino a casa loro”. Conta far leva sulla pancia della gente.
Tempo fa vi raccontammo, sulle pagine di Combonifem, la storia di cinque ragazze rom che, nel Sulcis Iglesiente, diedero vita a un atelier chiamato Zingarò. Oggi torniamo in Sardegna per raccontarvi quel che invece è accaduto ad Alghero, o meglio a Fertilia, frazione a pochi chilometri dalla cittadina della Riviera del Corallo.
A Fertilia, lo scorso gennaio, il campo rom che sorgeva da anni nella vicina pineta, a poca distanza dal centro abitato, è stato chiuso. Uno sgombero senza forze dell’ordine e ruspe. Alle dodici famiglie (sessantadue persone, tra cui trenta bambini) è stata data una casa.
Il sindaco di Alghero ha semplicemente utilizzato un fondo comunitario europeo creato appositamente per finanziare progetti di inserimento dei rom.
Forti di questa esperienza, ribaltiamo lo slogan adoperato da Salvini, per chiedere di cancellare in questo modo questi moderni ghetti e restituire dignità alle persone. Esistono fondi appositi per poterlo fare. Forse, verrebbe da dire, manca la volontà politica di farlo. E non solo per il timore che passi il messaggio che si stiano “regalando” case ai rom prima che agli italiani. Ma perché, alla fine, la guerra tra poveri fa gioco a una certa politica che non ha interesse a risolvere alcune realtà.
La Nuova Sardegna, il giornale locale che ha riportato la notizia, titola “Alghero fa scuola”. Noi, da qui, speriamo davvero che il vento giusto riesca a far attraversare il mare a questa storia di riconoscimento dei diritti di un popolo minoritario e vessato, che ha scelto (per usare le parole di De Andrè) di fermarsi italiano.