Riportiamo la prefazione di Umberto Eco al libro di Michelangelo Jacobucci, I nemici del dialogo. Ragioni e perversioni dell'intolleranza, Armando, Roma 2005. Pubblicato su Notizie minime della nonviolenza in cammino, n. 440 del 29 aprile 2008
Ogni tanto si assiste sulla stampa a dibattiti sul concetto di tolleranza. A qualcuno pare che il termine tolleranza sia ambiguo e, tutto sommato, intollerante: infatti esso presupporrebbe, secondo queste obiezioni, che si ritiene qualcuno fondamentalmente inaccettabile, inferiore a noi (e tutto sommato si preferirebbe evitarlo), ma lo si "tollera", per educazione o pro bono pacis.
Certamente esiste un uso corrente di "tolleranza" che connota anche questi atteggiamenti, ma non si deve dimenticare che per il mondo occidentale moderno e per quello spirito che si definisce "liberale" (ormai al di là di ogni differenza politica), Tolleranza è una parola-bandiera, da scrivere con la T maiuscola, almeno dai tempi in cui sulla tolleranza Locke aveva scritto una Epistola e Voltaire un Trattato. Per questo, e riprenderò il discorso, battersi per un'etica e una politica della tolleranza è ancora un fine che dobbiamo proporci, senza farci ricattare dalle parole. Che se poi, invece di tolleranza, vogliamo usare "accettazione delle differenze", va bene lo stesso.
Ma se il termine di tolleranza può sollevare delle critiche, pare che tutti si sia d'accordo sul significato (ovviamente negativo) dell'intolleranza. Se si può sospettare che alcune forme o professioni di tolleranza siano venate di ipocrisia e celino alcune riserve mentali, l'intolleranza è brutalmente sincera.
Ottime ragioni per prevedere consenso a un libro sull'intolleranza, se non fosse che sovente riteniamo intolleranti alcuni comportamenti molto evidenti, come forme di razzismo plateale, ma dell'intolleranza non misuriamo veramente tutte le manifestazioni, a livello religioso, culturale, politico, ideologico. Così che a leggere queste pagine di Jacobucci un lettore può essere preso da angoscia, avendo l'impressione che nessuno sia mai fuggito al germe dell'intolleranza, e scoprendo che intolleranti sono stati anche quelli della sua parte - quelli che avrebbero dovuto essere i "buoni".
Non solo. Da un lato ci sono e ci sono sempre state le "dottrine dell'intolleranza", che hanno preso nel corso della storia le forme diversissime tra loro della persecuzione agli eretici, della caccia alle streghe, delle dittature totalitarie, del fondamentalismo (cristiano, musulmano o ebraico), dell'integrismo religioso, dell'antisemitismo e in genere del razzismo cosiddetto "scientifico". Si tratta di una rete di atteggiamenti tra cui è difficile porre talora delle distinzioni, per cui si sono visti fondamentalismi non integristi, intolleranze non razzistiche, integrismi non fondamentalisti, razzismi non integristi, e persino la curiosa vicenda del "politically correct", nato come antirazzista, andi-discriminatorio, liberale, tollerante, e che tuttavia sta dando vita a un nuovo fondamentalismo.
Dall'altro c'è l'intolleranza diffusa, popolare, di origini biologiche, quella per cui ciascuno di noi è disposto a compiere le più azzardate generalizzazioni (e, derubato della valigia all'aeroporto di Milano, dirà che tutti i milanesi sono ladri). In tal senso la tolleranza non è un atteggiamento naturale, è un prodotto della cultura, dell'educazione, come l'apprendere che non si deve rubare e uccidere. Ma proprio per questo l'intolleranza diffusa è la più difficile da individuare e da combattere.
Contro il razzismo "scientifico" si può argomentare alla luce della ragione, e gli argomenti risultano convincenti; ma contro il razzismo primitivo e animale è più difficile. E queste sono cose che comprendiamo bene anche in Italia in questi anni: nulla di più pericoloso dell'intolleranza senza dottrina, senza cultura, dell'intolleranza "bestiale".
Le due intolleranze si sostengono e alimentano a vicenda e questo libro ci aiuta ad addentrarci nei loro meandri e nella loro logica interna.
Il panorama che ci offre Jacobucci è, lo dice il sottotitolo, un elenco di "perversioni", anche se spesso antichissime, nobilissime, venerabili, e sostenute da alcune ragioni. Ma triste sarebbe se, dopo aver lanciato il suo grido di allarme e il suo invito all'allerta, questo libro si chiudesse senza una parola di speranza.
In effetti la parola di speranza c'è, subito nel titolo (perché al "no" dell'intolleranza si oppone il "sì" del dialogo); e c'è nel prologo. Lì l'autore benevolmente mi coinvolge, ricordando una mia proposta di spot televisivi antiviolenza per bambini di età prescolare e dei primi gradi delle elementari.
Jacobucci lamenta che di quella proposta, poi, l'Unesco non abbia fatto nulla, ma in un certo senso quel progetto ha preso forma, anche se in altro modo. Credo sia stato un anno o due dopo il Foro che Jacobucci cita, e l'Academie Universelle des Cultures ha iniziato a dare vita a un sito internet dedicato agli educatori di tutto il mondo, per l'educazione dei bambini all'accettazione della diversità. Il principio ispiratore era (ed è, perché il sito è in progress) che l'intolleranza, come la violenza, non è una malattia, ma una disposizione quasi naturale dell'animo umano. Il bambino, così come, se potesse, vorrebbe impadronirsi di tutto quello che gli piace (e solo attraverso un'educazione continua acquisisce il rispetto della proprietà altrui), di solito reagisce con fastidio all'inusuale e al diverso (e proprio per questo le fiabe blandiscono queste sue propensioni mostrandogli il Male sotto forma di diversità, lupo, orco, strega).
Però quello stesso bambino può elaborare a poco a poco addirittura atteggiamenti di simpatia verso la diversità, prova ne sia la sua attrazione (coltivata dai media) per tanti mostri simpatici - diversi ma bonari e amabili.
Ed ecco che il sito dell'Academie elabora materiali su temi diversi (colore della pelle, religione, cibo, usi e costumi e così via) per gli educatori di qualsiasi paese che vogliano insegnare ai loro ragazzi come si accettano coloro che sono diversi da loro. Anzitutto non dicendo bugie ai bambini, e affermando che tutti siamo uguali. I bambini si accorgono benissimo che alcuni vicini di casa o compagni di scuola non sono uguali a loro, hanno una pelle di colore diverso, gli occhi tagliati a mandorla, i capelli più ricci o più lisci, mangiano cose strane, non fanno la prima comunione.
Dunque bisogna dire ai bambini che gli esseri umani sono molto diversi tra loro, e spiegare bene in che cosa sono diversi, e perché, per poi mostrare che queste diversità possono essere una fonte di ricchezza. Il maestro di una città italiana dovrebbe aiutare i suoi bambini italiani a capire perché altri ragazzi pregano una divinità diversa, o suonano una musica che non sembra il rock. Naturalmente lo stesso deve fare un educatore cinese con bambini cinesi che vivono accanto a una comunità cristiana.
Un libro come questo di Jacobucci, con il suo panorama in negativo, può essere utilissimo a ispirare delle attività educative in positivo, perché mette in luce i punti deboli, gli interstizi in cui nel corso dei secoli il bacillo dell'intolleranza si è annidato e si è fatto strada.
Per questo mi pare severo, crudele quanto si deve, ma non disperato.