Le ostilità contro il papa sono cominciate ufficialmente la vigilia di Natale, quando il Corriere della Sera ha pubblicato in prima pagina un articolo di Vittorio Messori dal titolo “I dubbi sulla svolta di papa Francesco”, nel quale si chiamava in causa un preteso “cattolico medio” che sarebbe sconcertato per la “imprevedibilità” delle scelte del pontefice.
Il fatto che la critica non fosse diretta a specifiche iniziative di Francesco, ma alla stessa autorità della sua leadership, e che seguisse immediatamente a un severo discorso rivolto dal papa ai vertici vaticani in occasione degli auguri di Natale, ha ingenerato l’idea, apparentemente ovvia, che si trattasse di un attacco al papa della Curia. Ma è davvero così?
Il monito del papa era stato in effetti pesante. Si trattava di quindici ravvedimenti da altrettante malattie curiali che papa Francesco aveva diagnosticato prima di Natale. Esse tuttavia sembrano materia più di un confronto interno all’establishment ecclesiastico che di un dibattito pubblico sui giornali della Repubblica.
Le malattie indicate dal papa ai cardinali e agli altri dignitari erano queste: la malattia narcisista, derivante da una patologia del potere, di trasformarsi in padroni e sentirsi superiori a tutti; l’attivismo che trascura la contemplazione e il riposo; la malattia del cuore di pietra e della testa dura, che trasforma uomini di Dio in “macchine di pratiche”; l’eccessiva pianificazione che pretende rinchiudere e pilotare la libertà dello Spirito Santo; la mancata collaborazione e comunione che genera “un’orchestra che produce chiasso”; l’alzheimer spirituale, cioè il declino progressivo delle facoltà spirituali di “coloro che hanno perso la memoria del loro incontro col Signore”; la rivalità e la vanagloria; la “schizofrenia esistenziale” di chi vive una seconda vita nascosta e sovente dissoluta; la malattia delle chiacchiere e della maldicenza, che diventa spesso “omicida a sangue freddo” della fama dei propri colleghi e confratelli; l’adulazione per ottenere la benevolenza dei Superiori; l’indifferenza verso gli altri per pensare solo a se stessi; la severità teatrale e il pessimismo sterile con la faccia funerea delle persone burbere e arcigne; l’accumulazione di beni materiali, incurante del fatto che “il sudario non ha tasche”, con quel volere portarsi dietro tutti i propri averi, malattia di cui “i nostri traslochi sono un segno”; il cancro dei circoli chiusi e delle lobby in lotta tra loro, quando sta scritto che “ogni regno diviso in se stesso va in rovina”(Lc. 11, 17) e infine la malattia del profitto mondano, degli esibizionismi, della ricerca del potere, per la quale si è “capaci di calunniare, di diffamare e di screditare gli altri, perfino sui giornali e sulle riviste. Una malattia che porta le persone a giustificare l’uso di qualsiasi mezzo pur di raggiungere lo scopo, spesso in nome della giustizia e della trasparenza”.
Non è affatto detto che sia stata la Curia
La Curia, naturalmente non aveva gradito, e può darsi che qualche “fuoco amico” (come il papa l’aveva chiamato nel suo discorso) possa essere venuto anche da lì. C’era già stata del resto, prima del Sinodo, e alla luce del sole, una specie di avvertimento al papa di cinque cardinali guidati dallo stesso prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Müller (gli altri erano Burke, Braundmuller, Caffarra e De Paolis) che in un libro di compilazione, a proposito dei divorziati risposati, avevano ammonito a “permanere nella verità di Cristo”; né si poteva dimenticare che ai tempi del Concilio qualcuno della Curia aveva spinto il Corriere della Sera a scatenare contro papa Giovanni Indro Montanelli (che poi se ne pentì dicendo di essere stato ingannato). Tuttavia l’attacco portato ora a papa Bergoglio era troppo grave e troppo scopertamente diretto a delegittimarlo perché si potesse ritenere che fosse un’iniziativa della Curia, che in tal modo del resto avrebbe delegittimato se stessa insieme a tutta la Chiesa. Né si può ignorare che la Curia Romana, come ha detto il papa, è un pezzo di Chiesa, abitata da molti servitori fedeli.
L’operazione sembra eccedere perciò un rancore curiale. Né d’altronde se ne può attribuire l’iniziativa allo stesso Messori, che anzi ha detto che non avrebbe voluto scrivere, ma che ne era stato richiesto dal giornale. Pertanto a questo punto sono irrilevanti le espressioni da lui usate e la solidità delle sue argomentazioni, né è di particolare interesse la successiva polemica tra il “teologo della liberazione” Leonardo Boff, il cui intervento il Corriere ha pubblicato in ritardo e a fatica il 4 gennaio, e lo stesso Messori che gli ha replicato il giorno seguente. Le contestazioni a papa Francesco non erano del resto particolarmente profonde; intanto c’era una singolare disistima per “il cattolico medio”, che secondo l’articolista sarebbe “abituato a fare a meno di pensare in proprio, quanto a fede e costumi”, per “seguire” il papa, e che sarebbe ora turbato per la “imprevedibilità” di papa Francesco; c’erano poi le allusioni malevoli al papa che telefona a Pannella, uomo del divorzio, dell’aborto e dell’eutanasia, che dice a Scalfari che “Dio non è cattolico”, e che va a trovare il suo amico pentecostale mentre le Chiese pentecostali svuotano la Chiesa cattolica in America Latina. Però i “cattolici medi” non hanno gradito, e hanno reagito con una raccolta di firme sotto un appello di “appoggio a papa Francesco” in cui si rivendica la sua fedeltà al Vangelo, che prevede proprio papi così.
La vera domanda
Tolti dunque i diversivi, la vera domanda è perché l’ammiraglia della borghesia italiana abbia aperto il conflitto col papa e per difendere che cosa; domanda tanto più intrigante perché si tratta di un papa amatissimo dagli stessi lettori del Corriere (qualcuno di loro ha scritto sul sito web del giornale un “grazie per l’articolo” perché gli aveva “chiarito di non essere un cattolico medio”); né del resto è plausibile che il massimo organo di informazione della cultura liberale fosse davvero interessato alle virtù che mancherebbero alla Curia, e a cui il papa l’aveva esortata a ritornare.
Resta dunque da vedere il vero significato dell’attacco al papa del quotidiano milanese, anche per capire in quale sfida è oggi impegnata la Chiesa e che cosa debba fare il popolo dei discepoli, il “cattolico medio”.
Non c’è bisogno di dietrologia per capire quali sono le cose via via proposte dal ministero petrino di Francesco nei cui confronti il mondo interpretato dal giornale lombardo – cioè la sua cultura globale, le classi, gli interessi, i poteri di riferimento – senta il bisogno di schierarsi, di prendere posizione, e magari di alzare un muro – o di censura o di critica – perché queste cose non diventino patrimonio di tutta la Chiesa, o peggio dell’opinione pubblica nel suo complesso.
Certo non è piaciuto che papa Francesco abbia preso di petto la questione del lavoro, a cominciare dal suo discorso agli operai a Cagliari fino al suo incontro con i movimenti popolari in Vaticano, facendo del lavoro il contrassegno della dignità umana e rivendicando per esso stabilità e sicurezza, e ciò proprio quando la spoliazione del lavoro di ogni suo diritto è il massimo impegno dell’attuale dirigenza politica ed economica.
Che cosa davvero si rimprovera al papa
Non è piaciuto che fin dall’inizio il papa abbia messo sotto accusa l’attuale sistema economico-sociale, qualificandolo come un sistema di esclusione che va perfino oltre lo sfruttamento e l’oppressione già denunciati dal pensiero rivoluzionario dell’Ottocento (ma anche dalla “Quadragesimo Anno” di Pio XI); non è piaciuta la diagnosi pontificia che nella cultura e nella prassi dell’attuale economia globale identifica un sistema omicida e condanna una “dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente umano”.
Non è piaciuto che nel messaggio per la giornata della pace del 2015 si sia denunciato che la schiavitù, benché ripudiata dal diritto, non sia finita, ma anzi oggi si riproduca e si moltiplichi in inedite forme, dal lavoro schiavo alla schiavitù dei migranti, al traffico degli organi, alla tratta delle persone, alla schiavitù sessuale, e non solo in lidi barbari, ma anche in civilissimi Paesi.
Non è piaciuto che il papa non si sia limitato a dei discorsi deprecatorii, ma abbia messo in moto le strutture di carità (e nella visione cristiana, come fu ricordato da Paolo VI, anche la politica è carità) e abbia esortato i poveri, i rifiutati, gli esclusi, gli asserviti a lottare per la loro liberazione: “sigan con su lucha”, continuate a lottare ha detto papa Francesco ai rappresentanti dei movimenti popolari di tutto il mondo da lui ricevuti nell’aula del “vecchio Sinodo” nell’ottobre scorso.
Non è piaciuto che il papa abbia indotto l’Italia a salvare i naufraghi in fuga dalle loro terre con l’operazione “Mare nostrum”, e abbia difeso il diritto alla vita dei migranti con tanta forza che la Marina continua a salvarli anche dopo che la missione “Mare nostrum” è stata chiusa dal governo.
Non piace che con il suo semplice invito a non discriminare, quanto al diritto alla vita, tra cittadini e profughi, costringa i governi a non far finta di niente e a misurarsi con la imponente nuova realtà di mobilità mondiale, che riguarda ormai più di cinquanta milioni di persone in fuga nel mondo come rifugiati, sfollati, sradicati dalle loro case e dalle loro terre, a cui bisognerà prima o poi restituire i diritti.
Non piace che il papa cerchi di fermare le guerre, che si tratti di guerre contro la Siria o contro la Russia o contro l’Islam, non piace che deprechi e voglia fermare il commercio delle armi, non piace che sia contro i bombardamenti con i droni, che non sposi la causa di Israele contro i Palestinesi, che metta sotto accusa l’Europa come “una nonna sterile” dimentica dei suoi valori e che presenti la sua Chiesa agli altri continenti, alle altre religioni, alle altre Chiese, ai popoli emergenti e fino agli estremi confini della terra come una Chiesa non europea, non occidentale, non proselitistica e non dominatrice “sopra re e regni” in forza della sua divina autorità. Perché, e questo è vero, gli uomini medi e mediocri erano abituati a una Chiesa diversa.
Si può capire che il mondo cominci ad allarmarsi. Perché se i fedeli di questa Chiesa fossero già sulle frontiere che il papa sta indicando, la rivoluzione già ci sarebbe. E resta allora l’appello perché tutti gli uomini e le donne che leggono lo stesso Vangelo escano dal loro torpore, e si mettano in cammino. Perché allora, forse, la rivoluzione si farà.
Nell’ “Angelus” dell’Epifania, che è stato un vero gioiello, Francesco ha ripetuto tre volte che per camminare verso la meta bisogna stare attenti alla stella, cioè saper vedere i segni, bisogna essere instancabili e bisogna avere coraggio. Un papa attento e instancabile piace a tutti, fa parte dell’idea che il mondo si è abituato ad avere dei papi moderni. Ma un Papa Coraggio sono in molti che vorrebbero fermarlo.
Raniero La Valle
Segnalato da Fabrizio Geloni