Per Natale, mentre ci lasciamo sedurre dal rito consumistico degli addobbi e dei regali, capita anche a voi di sentirvi un po' più buoni, o almeno di desiderarlo? E vi capita anche di avvertire un pizzico di nostalgia rievocando la poesia del presepe della vostra infanzia, quando tutto – così ci pare – era più semplice, più genuino, più vero?
Se ci succede, stiamo forse guardando Betlemme – luogo di nascita di Gesù – da molto lontano.
Ma come annullare la distanza che, nello spazio (poco più di 2.000 km) e molto più nel tempo (poco più di 2.000 anni), ci separa da quell'evento?
Come passare dalla rievocazione al memoriale, all'attualizzazione cioè dell'evento ricordato?
Dov'è il re dei Giudei che è nato?
Matteo scrive che, alla domanda dei Magi, “il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informava da loro sul luogo dove doveva nascere il Messia. Gli risposero: a Betlemme di Giudea”. Sembra incredibile. I sacerdoti, gli intellettuali, il potere politico danno la risposta giusta, ma non ne colgono il senso, perché separano le parole della Bibbia dalla storia concreta del loro popolo e del loro tempo. Anzi, il loro problema è più drammatico: non possono comprendere la storia perché essa non collima con le loro idee. L'evangelista Giovanni ce lo dice in un altro modo: “Egli era nel mondo ma il mondo non lo riconobbe. Venne tra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto”. I più vicini alla verità – perché della verità sono in cerca – sono degli stranieri, dei pagani giunti da lontano seguendo una stella.
Anche a noi il Natale pone una domanda simile: cosa ha a che fare con noi oggi la natività? Dov'è oggi il re dei Giudei? Sacerdoti e scribi sono per noi un monito: come loro, anche noi possiamo infatti essere tentati di demandare ad altri la risposta, cercandola nei libri, o nei riti, o nella tradizione, senza saperla però collegare a ciò che accade davanti ai nostri occhi. Mentre Gesù continua a farsi carne, può accadere così che noi non sappiamo riconoscerlo e accoglierlo (“Quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito?”). Eppure stranieri giunti da lontano già cercano di farcelo presente.
Non c'era posto per loro nell'albergo
Attraverso il censimento, il potere imperiale di Roma contava e controllava le persone per poterle meglio tassare e arruolare nell’esercito. L'occupazione romana impose a Giuseppe e a Maria di affrontare da Nazareth a Betlemme un viaggio lungo e pericoloso, soprattutto per una donna incinta, e di vivere poi l'evento del parto lontani dalla comunità, costretti a cercare un alloggio di fortuna. Luca sottolinea che Maria “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo”.
Come non pensare ai viaggi che ancora oggi il potere – quello dei signori della guerra, o dei trafficanti di esseri umani, o del mercato, o delle banche, o delle multinazionali... – impone a tanta parte dell'umanità? A tante donne incinte (per giunta sole, senza un compagno e spesso portando in grembo il frutto di violenze subite)? Eppure ancora, anche per loro, le porte (dell'Europa, delle nostre città, delle nostre case) restano troppo spesso chiuse: non c'è posto per loro nell'albergo.
Non va meglio in Palestina, la terra natale di Gesù. L’occupazione militare israeliana della Cisgiordania, come quella romana di tanti anni fa, mette i propri interessi sopra le necessità delle persone. Oggi le strade che entrano e escono da Betlemme sono controllate da checkpoint che, inseriti in un terribile muro alto 8 metri, limitano e ostacolano l’accesso verso e da Betlemme. Se Maria avesse dovuto compiere oggi il viaggio, forse in Betlemme non sarebbe mai riuscita ad entrare. A questi checkpoint i soldati hanno detenuto molte madri in travaglio: alcune hanno dovuto partorire nei campi o in macchina, alcuni neonati non sono sopravvissuti.
Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia
“C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge”. Gesù fin dalla nascita sceglie luoghi e compagni insoliti: lui, discendente di Davide e figlio di Dio, nasce in una situazione di assoluta precarietà, alla periferia di Gerusalemme e della stessa Betlemme, tra animali e pastori - uomini che godevano allora di discredito e cattiva reputazione. Di lì a poco si sarebbe trovato profugo in Egitto, per sfuggire alla mattanza ordinata da Erode. E poi ancora in periferia, confinato nella lontana Galilea.
Se questo è il modo con cui Dio sceglie di assumere la nostra umanità – e Gesù ci assicura che continuerà a farlo “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” – un dubbio non può non venirci: per incontrare Gesù dobbiamo dunque farci incontro a poveri, senza dimora, senza potere, detenuti, malati, profughi, feriti, disperati, lontani? Non è questo in fondo l'insegnamento a cui continuamente lo stesso papa Francesco ci richiama con la parola e con i fatti? Forse preferiremmo una scorciatoia, ma non c'è... C'è semmai un passaggio più esigente: scoprirci noi per primi poveri, feriti, deboli, disperati... e accoglierci come tali, per permettere a Gesù di salvarci rendendoci umani.
Pace in terra agli uomini che egli ama.
Con questo canto gli angeli accolgono la nascita di Gesù: “gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”. Promessa di benedizione e fonte di speranza.
Oggi come ieri c'è bisogno che Gesù venga ad abitare in mezzo a noi, nella nostra terra ferita, dentro i conflitti odierni, per svelarci il volto di Dio: un Dio che ama gli uomini, che ama ciascuno di noi, che vuole donarci la pace. Questa allora è la nostra Betlemme: non più lontana, ma a portata di mano; non la città dei muri, delle chiusure, dei respingimenti, ma la “casa del pane”, auspicio di una nuova capacità di accoglienza e condivisione.
Maria Stella Buratti - portavoce Accademia Apuana della Pace