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I segni di questi tempi

"Quando vedete una nube levarsi all'occidente, voi dite subito: Viene la pioggia e così avviene. E quando soffia il vento del sud, voi dite: Farà caldo e così succede.
Ipocriti! Voi sapete riconoscer l'aspetto della terra e del cielo, e non sapete comprendere i segni di questo tempo? ... Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto". Sono i Vangeli che dicono queste cose con forza profetica in un tempo di grandi trasformazioni, il primo secolo. Potrebbero dirle oggi?
È cresciuta enormemente la nostra capacità di misurare e dominare terra e cielo ma ci sfugge il senso dei segni dei tempi che si dispiegano sotto i nostri occhi increduli.
Dove ci sta portando la mostruosità distruttiva dell'attività umana che per creare ricchezza sta uccidendo Gaia, la follia del modello di sviluppo fondato sulla divinizzazione della tecnica, del danaro e della competizione mercantile liberista che disgrega i rapporti umani, la incredibile potenza degli arsenali bellici che per dare sicurezza si apprestano a incenerire la terra intera con tecnologie sempre più avanzate?
E al tempo stesso però che cosa annuncia la percezione nuova che ha l'umanità di essere un'unica famiglia in una minuscola fragile casa, su di un pulviscolo vagante nello spazio infinito?
L'attuale ampiezza del movimento per un "mondo nuovo possibile", contro la guerra e contro la globalizzazione liberista è una increspatura di superficie oppure siamo di fronte a un segno, sia pure contraddittorio, incerto e fluttuante, di un vero processo storico rivoluzionario, responsabile, lento e globale, che cioè investe tutti i campi del vivere e del convivere? A volte sembra che la cultura dell'antagonismo avendo raggiunto l'apice della propria capacità distruttiva stia declinando verso la crisi. Più ci avviciniamo alla catastrofe più cresce il bisogno di un taglio col pericoloso livello di inumanità raggiunto. Ma la scure sta attaccando la radice o sta solo potando rami secchi consentendo all'albero della violenza di riprendere vigore? La crisi dell'antagonismo è abbastanza penetrante da coinvolgere il profondo di ognuno di noi e l'intimo di tutte le istituzioni laiche e religiose, degli stati e delle chiese, la radice generativa dei rapporti umani a cominciare da quelli di genere, le potenze terrene e quelle celesti, l'universo del sacro e tutto ciò insomma che si è costituito nella storia sull'asse della guerra?  Sono questi gli interrogativi sulla cui positiva soluzione scommette chi ha desacralizzato un concetto ossificato e ormai inadeguato del vivere e del morire, del noto e dell'ignoto, e ha riaperto la ricerca sul senso dell'esistenza, sulla natura e su Dio.
Al fondo della crudeltà insensata che tutt'ora insanguina il mondo c'è, io penso e vedo, la persistenza di un senso alienato della vita derivante dalla penetrazione nella società moderna del dominio del sacro che è una delle principali fonti di violenza. La vita è sacra in quanto parte di un tutto in divenire che comprende finitezza e morte. La cultura sacrale invece separa la vita dalla sua finitezza. La vita viene sacralizzata come dimensione astratta contrapposta alla dimensione altrettanto astratta della morte. La sacralità, intesa come astrazione, separazione e contrapposizione fra le varie dimensioni della nostra esistenza, è la proiezione di un'angoscia irrisolta, di una frattura interna, di una mancanza di autonomia e infine di una alienazione della propria soggettività nelle mani del potere. Sbaglieremmo se identificassimo il sacro solo con la sua espressione di tipo religioso. La sacralità è una funzione del potere, del dominio e dell'espropriazione dell'uomo e della donna. Ovunque si afferma lo spazio sacro ivi c'è l'interdizione dell'uomo e della donna di gestire la propria esistenza con la ragione e con l'azione responsabile. E s'impone il potere assoluto di un dio, sia il Dio delle religioni tradizionali o il dio delle religioni profane, le religioni del danaro, della scienza, della tecnica, della guerra. Questo travaso del sacro dalla cultura religiosa tradizionale alla razionalità moderna non andrebbe secondo me sottovalutato.
Sono tanti i laici che credono di essersi liberati del sacro perché non si fanno più il segno della croce. Si dichiarano non-credenti, atei, agnostici e si voltano altrove. E così le strutture del sacro che avvincono le regioni profonde delle persone e della società possono agire liberamente continuando a inquinare le nostre esistenze individuali e collettive, emergendo come sofferenza psichica, depressione, paura, insicurezza, insoddisfazione, bisogno di affidamento, delega e infine come violenza.
Se ci guardiamo un pò dentro troviamo una percezione della vita separata dalla sua intrinseca finitezza, scorgiamo nella penombra oscura del nostro profondo il mito o il sogno inconfessato dell'immortalità e troviamo parimenti una percezione della morte come realtà a sè separata dalla vita, come male assoluto, ipostasi o icona del nemico dietro a cui si celano tutte le inimicizie.
I germi del sacro come scissione e alienazione sono stati insinuati dal cristianesimo dogmatico per secoli nelle coscienze. Attraverso i catechismi siamo stati abituati fin da piccoli a considerare la morte come punizione per il peccato: una specie di condanna a morte dell'umanità intera divenuta peccatrice, una esecuzione capitale che solo Dio ha il diritto di eseguire. La mostruosità distruttiva della violenza nasce da lì, dalla mostruosità di quella "condanna a morte", dalla violenta espropriazione della nostra responsabilità.
Il dogmatismo cristiano non ha inventato di sana pianta il legame di causalità fra peccato e morte. L'ha ereditata dai millenni, essa è infatti una costante di molti antichi miti, e l'ha rielaborata compiendo un vero e proprio rovesciamento del messaggio di liberazione dalla violenza del sacro e di gioiosa speranza che promana dalle più antiche tradizioni dei Vangeli.
È un compito immane la liberazione del profondo dalla cultura della violenza. Richiede tempi troppo lunghi per la nostra impazienza. Può scoraggiare. Il lavoro di liberazione sociale e politica può essere considerato più gratificante. Eppure il lavoro sul profondo è indispensabile. Il ritorno del sacro come radice della violenza è sempre incombente. Lo costatiamo ogni giorno. È necessario opporsi all'ingiustizia e alla guerra ma il nostro impegno non sarà efficace se non c'incurveremo in un grande sforzo collettivo per individuare e sradicare il gene della violenza dal Dna culturale e religioso, creando e diffondendo una cultura nonviolenta, impastata di saggezza e di responsabilità, illuminata da un senso di felicità reale non illusoria.
"Ci sono quelli che non si rendono conto che noi tutti siamo esseri finiti ma quelli che se ne rendono conto mettono fine all'ostilità".
Sta scritto nel Dhammapada (I, 6) che è una raccolta di aforismi tramandati quali parole di Buddha, compilata parecchi anni dopo la sua morte. Trovo una mirabile consonanza fra questo messaggio e quello del Vangelo dei "segni dei tempi" citato all'inizio. Il "seme che solo se muore fruttifica" così come il Dhammapada della consapevolezza sono un concentrato di saggezza umana che illumina il cammino di oggi. Non va dogmatizzato ma contestualizzato e confrontato col presente. Dobbiamo domandarci se e in che senso vale anche per il tempo presente il legame fra la consapevolezza della finitezza dell'esistenza (il seme che deve morire per dare frutto) e la fruttificazione della cultura nonviolenta, fra il rendersi conto che "noi tutti siamo esseri finiti" e il "metter fine all'ostilità".
Sono spunti scarni questi pochi accenni ma a mio avviso importanti per orientare il cammino. Mentre portiamo ogni giorno la responsabilità dell'impegno politico e sociale per la giustizia e la pace, contro la violenza e la guerra, al tempo stesso il nostro pacifismo ci deve portare oltre la dimensione socio-politica della lotta. E questo vale anche per l'impegno intraecclesiale che non può limitarsi a qualche abbellimento di superficie, a qualche buonismo pacifista, a qualche critica verso scelte inopportune o errate dei poteri religiosi o delle gerarchie. Bisogna andare finalmente alle radici, individuare e tentar di sradicare il gene della violenza che cova in tutto l'apparato mummificato, simbolico e normativo, delle culture del sacro tanto laiche che religiose.
Ognuno deve fare la sua parte, dovunque si trova ad operare, usando gli strumenti di conoscenza e di saggezza che gli sono stati forniti dall'esperienza di vita e dalla rete delle relazioni che ha potuto intrecciare.

Fonte: Centro di Ricerca per la Pace