Un Papa «preso dalla fine del mondo» apre definitivamente la Chiesa alla globalizzazione, con tutte le sue potenzialità e le sue sfide irrisolte, e - in termini più ecclesiali - richiama in modo dirompente la comunità cattolica alla sua matrice universale.
Da ieri la Chiesa non è più immediatamente identificabile come una «entità» anzitutto europea od occidentale, come impropriamente è avvenuto per secoli, né tantomeno come un'istituzione «romanocentrica». Ciò significa, per il mondo, una straordinaria apertura mentale, culturale e spirituale, per l'Europa e per l'Occidente uno «scossone» i cui effetti andranno valutati nel tempo, per la Curia vaticana una sfida a una rinnovata collegialità.
Dalla «fine del mondo», ma potremmo dire anche dal Sud del mondo. Un Sud che in molti Paesi, l'Argentina è uno di questi, conosce tassi di crescita del Pil che sono ormai un miraggio il Vecchio continente, ma anche squilibri economici aberranti e ingiustizie sociali scandalose, un Sud che della globalizzazione conosce bene il fascino, ma anche la prepotenza che rischia di annientare culture e identità. Per la prima volta nella storia, dunque, un Pontefice guarderà il mondo e la Chiesa con gli occhi di questo Sud, ed è una rivoluzione non piccola.
Anche la scelta del nome va nella linea della novità. A questo proposito ci piace sottolineare che - se è indubbio e profetico il riferimento a Francesco di Assisi, a partire dallo stile di vita del nuovo pontefice - non è da escludere che il Papa gesuita abbia voluto riferirsi anche alla figura di Francesco Saverio: tra i primi compagni di Ignazio di Loyola (fondatore della Compagnia di Gesù), patrono delle missioni, pioniere dell'evangelizzazione in Asia, Francesco Saverio è stato un esempio straordinario di quella capacità di «stare sulle frontiere» - geografiche, ma anche e soprattutto culturali - quanto mai necessaria all'annuncio del Vangelo nel mondo post-moderno.
Stefano Femminis
Fonte: Popoli, mensile internazionale dei gesuiti