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Romero, pastore di agnelli e di lupi

“Oscar Romero, pastore di agnelli e di lupi”, un titolo che dipinge bene la situazione molto complessa del Salvador di allora. Noi non conosciamo la situazione di quel continente in quanto la lontananza, ma soprattutto la storia, le scelte culturali e le situazioni politiche sono molto diverse dalle nostre.

“Pastore di agnelli e di lupi” è un libro che serve soprattutto per coloro che hanno a cuore la vita della nostra società e della nostra chiesa. Romero ha osato dire quello che vedeva mettendo in pratica quanto dice il Vangelo “se non sarete come bambini…” come bambini che, con occhi semplici denunciano ciò che vedono. Questo esempio ci deve insegnare come comportarci nelle nostre comunità, esercitare quella parusia, ossia dire le cose come sono con carità e senza offendere nessuno, se è possibile.

Probabilmente anche noi, e qui mi riferisco alla situazione italiana, dobbiamo esercitare questa virtù sia per quanto riguarda il mondo politico, che la questione del lavoro e la comunità ecclesiale.

Faccio voti affinché l’incontro di oggi sortisca in noi la volontà per iniziare un cammino verso un cambiamento della nostra vita.

Il relatore, don Alberto Vitali, presta la sua opera presso la Parrocchia di S. Giovanni in Laterano a Milano - città Studi, è responsabile dell’Ufficio Sudi di Pax Christi e coordina tante associazioniche hanno come riferimento il Vescovo Romero.

 

Don Alberto Vitali

 

L’idea di scrivere questo nuovo libro su Mons. Oscar Arnulfo Romero è venuta alle Edizioni Paoline, mentre da parte mia, in un primo momento, c’è stata molta reticenza, se non addirittura un rifiuto, per diversi motivi, non ultimo quello che su Romero esistevano già diverse biografie. Alla fine, a farmi cambiare idea è stata la considerazione che quando i personaggi diventano così importanti – come lo è Oscar Romero – corrono sempre il rischio di essere estrapolati dalla storia reale, per venire descritti come santi irraggiungibili o come miti.

Il primo libro uscito in Italia su Romero – e ha fatto innamorare tanti di noi – è stato quello scritto da don Abramo Levi, su richiesta pressante di p. David M. Turoldo, a un anno dalla morte di Romero, che aveva per titolo: «Oscar Arnulfo Romero, un vescovo fatto popolo». Col tempo abbiamo acquisito consapevolezza che forse il titolo andasse un po’ modificato in “Oscar Arnulfo Romero, un vescovo fatto dal popolo”, nel senso che l’iniziativa, in questo caso, è proprio del popolo salvadoregno. Da qui l’ispirazione a scrivere il libro, convinto che Romero non sarebbe mai stato profeta e tantomeno sarebbe giunto al martirio se non gli fosse toccato di essere pastore di un popolo che era profeta e martire prima, durante e dopo di lui. Per questo è importante rendere giustizia al popolo salvadoregno, perché sarebbe incomprensibile la figura di Romero se non letta all’interno della storia del suo popolo.

A trent’anni dunque dalla sua morte, quella di Romero è una figura che continua a parlarci, anzitutto perché è una voce cristiana che provoca la coscienza credente, persino più di altre figure mitiche dell’America Latina, perché lui, caratterialmente, non sarebbe stato portato a fare quello che ha fatto: Romero, infatti, era un buon tradizionalista e tale è rimasto sino alla fine; era quindi una persona che mai avrebbe fatto una rivoluzione. A complicargli la vita fu, però, il fatto di prendere sul serio il Vangelo e leggere il Vangelo, si sa – specialmente in determinate situazioni – obbliga a prendere posizioni che si eviterebbero volentieri. Un altro aspetto non trascurabile è che Romero continua a parlarci per il fatto di essersi incarnato così profondamente nella storia del suo popolo da continuare a parlarci attraverso questo stesso popolo, ancora vivo.

 

Parto quindi da una presentazione, seppur a grandi linee, di El Salvador, per leggere da questo la figura di Romero e tentare di capire quale sia l’attualità e il valore del suo messaggio per noi.

Quando parliamo di El Salvador, parliamo di un popolo che, per alcuni di noi, è diventato mitico, ma che da un punto di vista geografico è piccolissimo, tanto da essere soprannominato il “pulgarcito” (il “pollicino”) del Centro America. Per avere un’idea della sua estensione, El Salvador è leggermente più piccolo dell’Emilia-Romagna e dall’ultimo censimento della popolazione (2007), risulta che abbia poco meno di cinque milioni e ottocentomila abitanti. Quello che però fa impressione, è che vi siano più o meno tre milioni di salvadoregni all’estero: stiamo quindi parlando di un popolo che, in questo momento, ha un terzo della popolazione all’estero, come migranti. Di costoro, circa trentamila sono in Lombardia, di cui la metà a Milano.

Le città di El Salvador che ci interessano per conoscere la figura di Romero sono quattro: Ciudad Barrios, a nord-est, quasi al confine con l’Honduras, suo luogo di nascita (1917); più sotto, sempre a Oriente, c’è San Miguel, capoluogo di dipartimento e sede della diocesi in cui si trova Ciudad Barrios; per cui Romero diventerà prete della diocesi di San Miguel e svolgerà lì i primi ventitre anni del suo ministero (1944-1967). San Salvador, dove soggiornerà una prima volta per sette anni e dove verrà ordinato vescovo ausiliare dell’arcivescovo Chávez (1967-1974). Santiago de Maria (fondata nel 1954, scindendo il territorio di quella di San Miguel), dove vi arriverà come vescovo titolare e vi resterà per due anni e due mesi (1974-1977). E ancora San Salvador, dove vivrà gli ultimi tre anni da Arcivescovo (1977-1980).

 

El Salvador

 

El Salvador si è reso indipendente dalla corona di Spagna, assieme agli altri Paesi del Centro America, il 15 settembre 1821; i quali, dopo due anni di disastri, a causa di disaccordi fra loro, hanno formato la Confederazione delle Province Unite dell’America Centrale, fino al 1840 quando si sono definitivamente separati e dal 1841 El Salvador è una repubblica indipendente. Dico “ufficialmente” perché una certezza assoluta non c’è e già questo la dice lunga sulla situazione del paese, perché se ci rifacciamo alla storia dei romani, abbiamo date più o meno precise, qui invece non esistono documenti ufficiali; si ritiene comunque il 1841 una data attendibile.

A essere invece certo è che, nell’ultimo ventennio del 1800, a fare il bello e il cattivo tempo in tutto il Centro America furono le Compagnie commerciali straniere, vale a dire, le grandi società che trafficavano i prodotti della terra. In quel frangente, infatti, i governi al potere, erano, di fatto, fantocci nelle mani delle stesse compagnie, da cui il detto: “repubblica delle banane”, perché coloro che commerciavano in banane esercitavano anche un pieno controllo sul potere politico. Una storia che si ripete, ai nostri giorni, su scala internazionale, perché, in piena globalizzazione, chi gestisce il potere economico, di fatto, controlla anche quello politico. Nel caso concreto di El Salvador, più che di repubblica delle banane, dovremmo parlare di “republica cafetera”, perché il caffè, assieme al cotone e alla canna da zucchero, erano i prodotti principali del paese; tanto da essere chiamati la “santissima Trinità”. Nonostante quanto si potrebbe pensare, in questa fase di decolonizzazione, che non tutto andò per il meglio e l’indipendenza dalle antiche dominazioni rappresentò tutt’altro che la soluzione ai problemi di quei popoli. Nel caso di El Salvador e del Centro America, in particolare.

 

Anzitutto dobbiamo precisare che gli spagnoli – pur con tutti i loro difetti – avevano dei pregi, almeno rispetto agli inglesi i quali dove arrivavano non si mischiavano con le popolazioni locali, tanto è vero che in India gli indiani sono rimasti indiani e gli inglesi sono rimasti inglesi; mentre nel Nord America, hanno compiuto una delle più grandi pulizia etnica della storia: i pochi sopravissuti tra i nativi li hanno rinchiusi nelle riserve e quelli che oggi chiamiamo “americani” (ma dovremmo chiamare statunitensi) di fatto, sono i discendenti degli inglesi.

Gli spagnoli, al contrario, dove arrivavano si mischiavano con i locali e ne assumevano alcune usanze; per questo, dopo 300/400 anni, il grosso della popolazione era ormai di estrazione meticcia, vale a dire di sangue misto tra spagnoli e indigeni. Alla fine dell’800, però, alcuni si ostinavano a considerarsi creoli, ovvero “puri” discendenti degli antichi spagnoli. Allo stesso tempo però, non si sentivano più legati nemmeno alla madre-patria... e così guidarono il processo di liberazione, impadronendosi del potere e peggiorando ulteriormente le condizioni del popolo.

Gli spagnoli, infatti, avevano perlomeno rispettato la tradizionale proprietà collettiva delle terre, per cui i campi attorno al villaggio appartenevano all’intera comunità ed erano lavorati in maniera “cooperativistica”, per poi ripartirne i frutti. La nuova classe dirigente, invece, riconobbe valore soltanto ai certificati di proprietà privata, di cui – ovviamente – erano sprovvisti i contadini. Le terre collettive vennero perciò dichiarate di proprietà dello Stato, che le rivendette subito – a prezzi stracciati – a quanti potevano permettersi di comprarle, favorendo in questo modo la concentrazione della proprietà terriera nelle mani di pochissime famiglie. Nacque così il latifondo e con esso il mito delle “quattordici famiglie”. Di conseguenza, El Salvador si trasformò in quello che nel nostro Medio Evo era il sistema feudale, ovvero una società composta da pochi proprietari e tanti coloni, che si ritrovarono a lavorare, in regime di semischiavitù, quelle stesse terre che fino a pochi anni prima gli erano appartenute. Quasi che fossero novelli servi della gleba.

 

Situazione pessima ma ancora sostenibile fino al 1929, quando il crollo della Borsa di Wall Street fece sì che i proprietari terrieri non ebbero più interesse a raccogliere il caffè. Anche qui, per certi aspetti, la situazione è parallela a quella odierna, nel senso che il mercato ha nuovamente destabilizzato le coltivazioni in Centro America, in particolare la produzione del caffè, che di fatto non ha più mercato a causa della concorrenza asiatica. Ad aggravare la situazione ci fu il fatto che non essendo più le terre di proprietà dei contadini, questi, oltre a perdere il lavoro, non poterono nemmeno coltivarle per la propria sopravvivenza e così il 1930 fu un anno di disperazione per la grande maggioranza della popolazione.

In vista delle elezioni del 1931 (per normale scadenza della legislatura) i contadini si organizzano quindi nel Partito Comunista Salvadoregno. A tale proposito apro una parentesi. D’ora in poi userò spesso la parola “comunista” e la parola “cattolico”: tenete conto però che in America Latina non vanno interpretate con i nostri schemi mentali. Il comunismo latinoamericano, infatti, è un’altra cosa rispetto al nostro, ma lo è anche il cattolicesimo (perlomeno quello non d’importazione).

Ricordo a tale proposito come una volta, un amico, rettore dell’Università luterana di San Salvador, mi disse di non sottovalutare come i contadini salvadoregni non conoscessero né Lenin, né di Marx o di Stalin. Semplicemente, avevano sentito dire che i comunisti avrebbero dato la terra e il potere ai contadini e quindi tutti si dissero comunisti.

E così, avendo l’appoggio della stragrande maggioranza dei salvadoregni, il Partito Comunista vinse le elezioni del 1931. Vincere democraticamente le elezioni però non è sufficiente per governare, quando non si abbia il controllo dell’economia; si può, infatti, essere rovesciati da un colpo di stato tanto semplice da non richiedere nemmeno l’uso dell’esercito... cosa che l’oligarchia latifondista fece nell’arco di pochi mesi, chiudendo i rubinetti della borsa e riprendendosi il controllo del paese.

Ciò buttò nella disperazione – ma anche ormai in una rabbia incontenibile – i contadini, che si organizzano di conseguenza e nel gennaio 1932 lanciarono la prima grande insurrezione salvadoregna, guidata tra gli altri da un uomo che diventerà un leader leggendario, Augusto Farabundo Marti. La rivolta venne però brutalmente repressa e trentamila contadini, in gran parte indigeni, furono massacrati. Non contenti, vi aggiunsero una sorta di pulizia culturale, perché agli indigeni furono bruciati i vestiti e proibito di parlare il proprio idioma (il nahuatl, che in quest’ultimo anno si sta cercando di recuperare, grazie al nuovo governo del presidente Funes). L’operazione riuscì, tanto che ancora oggi quel poco che resta delle tracce indigene salvadoregne è praticamente invisibile, mentre in Chiapas e Guatemala si impongono all’attenzione anche dei più distratti; segno che il ricordo di quei massacri e distruzioni, fisiche e culturali, continua a generare paura.

Dopo quegli eventi, si susseguirono una serie di dittature militari, rigidamente agli ordini dell’oligarchia e ogni forma di diffidenza e protesta venne brutalmente repressa per decenni; a cominciare, naturalmente, da quelle degli studenti.

 

Il giovane Romero

 

E’ in tale contesto che il 15 agosto 1917 nacque Oscar Arnulfo Romero, nella zona orientale del Paese, la più tranquilla dal punto di vista sociale e politico, mentre i grandi movimenti ideologici e rivoluzionari partivano tutti dai dipartimenti occidentali, quelli prossimi al Guatemala. Sono tre le fasi della vita di Romero: la prima, quella più lunga, dura cinquantasette anni ed è quella che ho definito del buon salvadoregno e del vero romano, poi due anni e due mesi a Santiago de Maria, fondamentali per capire la sua svolta e, infine, gli ultimi tre anni come arcivescovo a San Salvador.

Romero nasce in una famiglia povera ma non in miseria, ben messa dal punto di vista culturale: il padre infatti era impiegato alle poste e la madre maestra; lui il terzo di sette fratelli. A tredici anni entrò in seminario dove compì gli studi superiori e i primi anni di teologia, che fu poi inviato a perfezionare a Roma nel 1937. Questo è un malcostume che dura fino ai nostri giorni, la cui motivazione ufficiale (per tutti i Paesi del Sud del mondo, non solo per l’America Latina) è che i più promettenti tra i futuri preti possano studiare nelle migliori facoltà. A smentire questa pia menzogna, c’è il fatto che, quasi negli stessi anni, un altro grande martire salvadoregno di adozione – Ignacio Ellacuria – spagnolo di nascita, entrato dai gesuiti a Loyola, fu mandato proprio da loro a studiare filosofia e teologia prima a San Salvador e poi in Ecuador. Ciò significa che esistevano ottime scuole anche in America Latina, e che la vera ragione del trasferimento in Italia fosse la “romanizzazione”. Noi europei, infatti, siamo pure convinti che tutte le culture siano buone, ma che la nostra – essendo quella dei filosofi greci – sia la migliore e di conseguenza releghiamo le altre in un ambito folcloristico. Inoltre siamo convinti che pur essendo tutti cattolici, noi lo siamo più degli altri, ragione per cui chi deve diventare vescovo è bene che studi a Roma.

 

Parroco a san Miguel

 

Romero vene a Roma con Rafael Valladares che sarà per lui come un fratello e diventerà a sua volta vescovo, come ausiliare di San Salvador. Durante la loro permanenza a Roma scoppiò la seconda guerra mondiale così che, privo della prospettiva di poter tornare in patria, Romero fu ordinato prete a Roma il 4 aprile 1942 senza che nessuno della sua famiglia fosse presente. Il 15 agosto 1944 decisero di rischiare e intrapresero il viaggio di ritorno. Il primo tratto fino a Barcellona, quello più pericoloso per i bombardamenti sopra il Mar Tirreno, andò bene. S’imbarcarono quindi su una nave diretta a Cuba, ma arrivati là vennero presi e rinchiusi in campo di concentramento con l’accusa di essere spie. A quei tempi, infatti, a Cuba non aveva ancora trionfato la rivoluzione castrista e il governo locale era alleato degli USA in guerra contro l’Italia fascista (da cui loro arrivavano) e con la Germania nazista alleata con l’Italia. Usciranno dal campo di concentramento dopo tre mesi con le ossa rotte, tanto che la salute di Valladares non si riprenderà più, mentre Romero, poco alla volta, si rimetterà in piedi. Ciononostante, trattandosi degli unici due sacerdoti preparati di cui poteva disporre, il vescovo incaricò Romero di molteplici impegni, tanto che – da prete novello – si ritrovò incaricato di due parrocchie (una delle quali facente funzione della cattedrale), segretario del vescovo e direttore della curia, non che direttore spirituale di una serie di confraternite. Oltre a ciò Romero stesso fondò alcuni circoli di alcolisti anonimi, perché essendo ormai alcolizzato suo fratello maggiore, aveva sviluppato una particolare sensibilità verso queste persone.

A proposito di questo periodo, le testimonianze concordano nel dire che Romero fosse uomo di grande carità, capace di togliersi il pane e i vestiti per darne ai bisognosi. In questa fase della vita di Romero c’è però un “ma”, che si spiega se lo confrontiamo con quanto diceva di sè un altro grande vescovo latino-americano, dom Hélder Câmara: «fino quando davo da mangiare ai poveri dicevano che io ero un santo, da quando mi chiedo perché ci sono i poveri mi danno del comunista». Romero era precisamente nella fase in cui dava da mangiare ai poveri, ma non si domandava perché esistano i poveri: per lui, infatti, poveri o ricchi non facevano una grande differenza. Il titolo del libro “Pastore di agnelli e di lupi” si riferisce proprio ad una fotografia che gli avevano scattato prima che si trasferisse da San Miguel, dove è ritratto con in braccio un agnello. In quell’occasione una persona ebbe a dire che se anziché un agnello gli avessero regalato un lupacchiotto per lui sarebbe stato lo stesso.

Naturalmente il titolo del libro vuole essere una reinterpretazione alla luce del suo ultimo discorso a Lovanio, quando disse che: “la chiesa ha una buona notizia per i poveri, ma ha pure una buona notizia anche per i ricchi e cioè che si convertano al povero perché un giorno possano condividere con il povero i beni del Regno dei cieli”. Romero non ha mai fatto una lotta di classe, ha però capito che quello stesso vangelo che, per dovere episcopale doveva annunciare a tutti, non lo si può annunciare a tutti allo stesso modo, perché, ai due gruppi, dirà cose diverse.

Romero però, a san Miguel, non era ancora giunto a maturare questa consapevolezza, per cui, essendo uomo di grande carità era amato - dai laici e questo lo rendeva inviso ai preti – ma non andava oltre la soglia della semplice solidarietà. Romero inoltre era tollerante con le debolezze dei laici, quanto spietato con quelle dei suoi confratelli preti, i quali gli restituivano la cortesia criticandolo ferocemente e lui, anziché cercare di spianare il contrasto, faceva di tutto per gettare benzina sul fuoco, tanto che ad un certo punto, quando il vescovo andò in pensione e il suo amico era già stato trasferito come vescovo ausiliare a San Salvador - e quindi non poteva più mediare – la situazione esplode: i laici chiesero Romero come vescovo ma ciò era francamente impossibile, vista l’ostilità del clero. Fu così che mandarono un nuovo vescovo da fuori e non potendo i due convivere si ricorse alla soluzione più classica in questi casi: quella del “promoveatur ut amoveatur”, vale a dire che Romero fu promosso Segretario della Conferenza Episcopale Salvadoregna così da essere spostato da San Miguel a San Salvador nel 1967.

 

Segretario della Conferenza Episcopale

 

Fu così che venne conosciuto dagli altri vescovi centroamericani e, di lì a qualche mese, nominato anche Segretario della Conferenza Episcopale Centroamericana, oltre che assistente di alcuni movimenti. Guardiamo con attenzione le date: siamo alla vigilia di una svolta storica per l’America Latina, perché dal 26 agosto al 7 settembre 1968, a Medellin (Colombia) si celebrò la Seconda Conferenza dell’Episcopato Latino Americano. Nel frattempo, erano avvenute meno due cose fondamentali; dal 1962 al ’65, a Roma i vescovi di tutto il mondo avevano celebrato il Concilio Vaticano II, dal quale erano tornati con i compiti a casa: quello di tradurre in scelte pastorali concrete e locali quelle che erano state le grandi intuizioni del Concilio. Al Concilio però, Paolo VI aveva riservato a sé tre temi: il celibato dei preti, la questione dei poveri e il controllo delle nascite. Di fatto, nei tre anni successivi, Paolo VI emanò tre documenti: la Sacerdotalis celibatus sul celibato dei preti, l’Humanae vitae sul controllo delle nascite e, in controtendenza a queste ultime due, la Populorum Progressio che, a tutt’oggi, fa impressione per la sua attualità.

I vescovi che si riuniscono a Medellin, quindi, prendono le mosse da questi importanti pronunciamenti per compiere quella svolta epocale che passerà alla storia come l’ “opzione per i poveri”. Vale a dire che la chiesa Latinoamericana comprese come fosse insufficiente e inadeguato al proprio mandato limitarsi a fare della semplice assistenza, mentre il vangelo la impegnava a mettersi decisamente dalla parte dei poveri, sostenendoli nelle loro giuste rivendicazioni e permettendogli di essere protagonisti tanto della vita sociale che di quella ecclesiale.

 

Il Concilio Vaticano II e la Conferenza di Medellin

 

L’11 settembre non è soltanto una data di disgrazie, (Golpe in Cile e torri gemelle): l’11 settembre 1962 infatti, esattamente un mese prima di aprire il concilio, in un radiomessaggio, Giovanni XXIII aveva detto: “la chiesa si presente per quello che deve essere, la chiesa di tutti, ma principalmente la Chiesa dei poveri”; vale a dire una chiesa in cui i poveri siano protagonisti. Immaginate cosa non sia successo in America Latina, un continente in cui le oligarchie erano abituate ad avere la chiesa dalla loro parte come strumento ideologico di controllo delle masse fin dai tempi della conquista: di colpo se la trovano dall’altra parte, tanto che urlarono al tradimento. Dal loro punto di vista, tutti i torti non li avevano, perché la chiesa fece davvero un salto di qualità.

Tra i tre vescovi più convinti che tornando a casa diedero gambe a queste intuizioni ci fu l’allora Arcivescovo di San Salvador Mons. Luis Chavez y Gonzales. I primi ad appoggialo furono i Gesuiti e scoppiò la fine del mondo, perché costoro giocavano un ruolo fondamentale nel paese, avendo in mano le tre istituzioni principali; cioè il Seminario (l’unico di tutto il paese, per cui tutti i preti del Salvador passavano da loro), l’Esternato San Josè della Montagna (la scuola superiore dove andavano i figli dei ricchi) e l’Università Centroamericana, fondata dai ricchi per non dover mandare i propri figli all’Università Nazionale, accusata di dare lezioni di comunismo. Oltretutto, alcuni gesuiti erano anche cappellani privati delle famiglie dell’oligarchia da sempre cattoliche, che però andavano a messa nelle cappelle private, quelle dei collegi, per non doversi mischiare con il popolino.

Oltre tutto, ci fu un provvidenzialmente cambio generazionale dei gesuiti. L’oligarchia lanciò quindi una campagna mediatica contro l’Arcivescovo e di vero e proprio discredito contro i gesuiti. In questo contesto, l’unico a cantare fuori dal coro fu proprio Oscar Romero, perché, per la sua formazione conservatrice, faticava ad accettare i grandi cambiamenti, soprattutto se improvvisi. Per questo, bisogna prestare molta attenzione a non esagerare, in un senso o nell’altro la lettura della posizione assunta da Romero nei confronti delle scelte ecclesiali del momento. Da una parte, infatti, sarebbe esagerato sostenere – come fa la linea ufficiale – che Romero si sia sempre trovato a proprio agio nell’attuazione del Concilio e di Medellin; dall’altra sarebbe altrettanto esagerato sostenere che li rifiutasse. Per la sua formazione, era infatti solito accettare con fiducia tutto quanto venisse dal papa o dai vescovi: a metterlo profondamente a disagio erano piuttosto alcune scelte pratiche per la loro attuazione.

Romero si trovò così a fare il terzo incomodo tra le parti, per cui l’oligarchia si appoggiò a lui, anche perché aveva una lettura della realtà abbastanza polarizzata: da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. I buoni naturalmente erano quelli che andavano a messa e che facevano la comunione, i cattivi erano gli anticlericali che per lui erano in parte i comunisti, ai quali ha sempre rinfacciato l’anticlericalismo, pur riconoscendo che avessero valori in comune con il cristianesimo; ma soprattutto i massoni, che squalificava completamente.

 

L’oligarchia, invece, essendo cattolica e garante di un certo ordine, Romero la vedeva bene tanto che, in quel momento, si avvicinò sempre più all’Opus Dei (pur non arrivando a farne parte) e quando diventò direttore della rivista diocesana, si comportò come portavoce della classe dirigente più che del suo Arcivescovo; scagliandosi in primis contro i gesuiti. Costoro erano tutti – tranne padre Rutilio Grande – missionari spagnoli. E forse non fu un caso che l’unico con cui strinse amicizia – tanto che andò a colmare il vuoto lasciato dalla morte di Valladares - fu proprio il padre Grande, l’unico salvadoregno del gruppo e, come lui, nato in un paese di campagna.

Questo creò una situazione paradossale, perché non essendoci un palazzo episcopale, andato distrutto in un terremoto dell’inizio del secolo, vescovi e gesuiti abitavano insieme in Seminario. Quando Romero iniziò ad attaccare i Gesuiti, accusandoli di comunismo, il clima si fece insopportabile, tanto che iniziò ad andare in refettorio in momenti diversi, per non incontrarli. Le accuse ai gesuiti, sono rivelative di quanto Romero fosse inconsapevole di quanto stesse avvenendo nel paese. A quel tempo, infatti, in El Salvador accusare qualcuno di essere comunista equivaleva a farlo iscrivere sulla lista degli squadroni della morte, cosa che Romero se ne fosse stato cosciente non avrebbe mai fatto. Il problema è che semplicemente non se ne rendeva conto, anche se la situazione andava peggiorando. Quando poi alcuni vescovi ottennero che il seminario venisse tolto alle gestione dei gesuiti e fu affidato ad una equipe di preti diocesani, guidati da Romero, riuscirono a fare un tale disastro per cui dopo appena un anno dovette essere definitivamente chiuso (1972 -73). Contemporaneamente andavano deteriorandosi i rapporti del nuovo vescovo ausiliare con le comunità ecclesiali di base. Uno dei frutti di Medellin, infatti, fu proprio la nascita di queste ultime, oltre alla cosiddetta Teologia della Liberazione, che sorse come riflessione teoretica sulle scelte e le pratiche pastorale nate da quell’evento. A tale proposito è importante prestare attenzione alle date: Medellin fu celebrato nel 1968 mentre la Teologia della Liberazione prese avvio con l’omonima pubblicazione di Gustavo Gutierrez nel 1971. Fu quindi quell’evento ecclesiale a generare la Teologia della Liberazione e non viceversa.

 

Vescovo a Santiago de Maria

 

Alla fine del 1973 la situazione era quindi diventata peggiore di quanto non fosse quella di San Miguel alcuni anni prima. Perché se allora si scontrava con i preti ma godeva dell’appoggio dei laici, ormai Romero aveva contro tutti. Ancora una volta si optò per la soluzione più radicale, “promoveatur ut amoveatur” e non appena si liberò una diocesi, Santiago de Maria (la più povera e peggio organizzata del paese) Romero vi fu inviato come vescovo titolare. Era il 14 dicembre 1974. Iniziarono così due anni e due mesi fondamentali per comprendere la svolta di Romero. A San Salvador tutti (amici e nemici) lo persero di vista e non si resero conto di quanto poco alla volta il vescovo di Santiago stesse cambiando.

Qui, infatti, avvennero almeno tre cose importanti. Anzitutto, il 21 giugno 1975, in una frazione di campagna (Tres Calles) furono uccisi sei contadini. Niente di nuovo sotto il sole, ma fu la prima volta in cui toccò a lui, come vescovo “andare a raccogliere i cadaveri; leggere il dolore negli occhi degli orfani e delle vedove, la disperazione e la rabbia sul volto dei contadini”. Romero concepiva il proprio essere vescovo come una forma di paternità e quindi si sentiva responsabile in prima persona di quella gente. Tornato a casa sconvolto la sera scrisse quindi al presidente della repubblica, suo amico personale nonché generale golpista, Arturo Molina, per chiedergli un indagine dettagliata. Dalla risposta, si rese però conto – per la prima volta in vita sua – che il confine tra giusti e ingiusti, ragione e torti, in El Salvador non era così marcato come aveva sempre creduto.

Il secondo evento fu quello legato al Centro Los Naranjos, gestito dai padri Passionisti per la formazione dei contadini. Qui venivano preparati ad essere catechisti e molti erano già leader sindacali. Romero arrivò in diocesi con le pressioni fattegli tanto dagli altri vescovi come dal governo affinché chiudesse quel centro a sua volta accusato di sedizione e comunismo. Romero lasciò terminare l’anno in corso, ma impedì la regolare ripresa delle lezioni per aprire invece un’indagine a tutto campo che coinvolse tutti i livelli dei superiori dei passionisti e persino le gerarchie ecclesiastiche fino alla Congregazione per il Clero in Vaticano. Sorprendentemente però dopo tre mesi, il 13 dicembre 1975, riaprì il Centro chiedendo anzi al rettore di accettare l’incarico di vicario della pastorale diocesana per attuare quelle scelte di carattere sociale che fino ad un anno prima aveva contrastato a San Salvador e per cui si era scontrato con le comunità di base.

Il terzo evento importante è quello del cosiddetto “sistema degli aiuti”. Santiago de Maria infatti era zona di caffè, per cui al tempo della raccolta arrivavano braccianti da tutto il paese e da quelli limitrofi (Honduras, Nicaragua). Paradossalmente questo avviene ancora ai nostri giorni, perché mentre in El Salvador è stata “dollarizzata” l’economia – il dollaro USA ha cioè sostituito completamente il Colon – per cui i salari da fame costringono i salvadoregni a migrare, favoriti dal cambio con le rispettive monete nazionali, honduregni e nicaraguensi continuano a trarne per lo meno la sopravvivenza. Romero scoprì allora – avendoli fatti ospitare nelle strutture religiose – come la maggior parte di loro venisse assunta non come braccianti (per cui sarebbero stati tutelati dalle leggi sul lavoro), ma come “aiuto braccianti”. Quindi “in nero” sprovvisti di ogni tutela. Sulle prime, Romero non poteva crederlo ma quando, recatosi personalmente nelle fincas, dovette constatarlo di persona, ne restò sconvolto. I passionisti lo aiutarono allora a rileggere Medellin non soltanto in chiave dottrinale, ma anche e soprattutto pastorale e sociale.

 

Arcivescovo di San Salvador

 

La situazione nazionale intanto andava precipitando. La nuova borghesia industriale cercava di soppiantare i vecchi feudatari terrieri, che si erano trasformati in un intralcio allo sviluppo del paese; mentre la ricchezza distribuita in maniera diseguale provocava il malcontento sempre più incontrollabile dei settori popolari. Per questo il governo diventava sempre più repressivo e l’anziano arcivescovo, cosciente di non essere più tenuto nella debita considerazione a causa della propria età, chiese al Vaticano di essere sostituito. La Nunziatura avviò quindi le consultazioni tra i vescovi per la nomina del successore.

Laici e preti chiedevano a gran voce a Rivera y Damas, l’ausiliare che aveva sempre seguito le orme dell’arcivescovo; mentre l’oligarchia, i vescovi e la stessa nunziatura parteggiavano per Romero. Inutile dire che la scelta del Vaticano ricadde su questi, il quale fece il proprio ingresso il 22 febbraio 1977, non in cattedrale ma nella cappella del seminario perché la violenza era tale da sconsigliare una concentrazione tanto elevata come quella che avrebbe consentito la cattedrale. Alla cerimonia quindi erano presente tutta l’oligarchia e i rappresentanti delle associazioni e delle scuole cattoliche. Naturalmente anche i preti, più però per prendere congedo dal vecchio arcivescovo che non per accogliere il nuovo, tanto che il nunzio si spinse a chiedere loro di accettarlo “in nome delle difficoltà dei tempi presenti”.

In realtà, Romero aveva già dato due segnali, ma nessuno se n’era accorto. Anzitutto, aveva rifiutato l’offerta del presidente della repubblica, di un automobile personale, spiegandogli che ancora aspettava l’indagine sull’assassinio dei sei contadini. Poi, alle famiglie dell’oligarchia che si offrirono di regalargli una casa nella Colonia Escalon (il quartiere bene di San Salvador) rispose testualmente: “sarò lieto di accogliere la vostra offerta, quando avrete dato una casa degna di questo nome a ciascun salvadoregno”. E chiese ospitalità alle suore Carmelitane, presso l’ospedale della Divina Provvidenza, detto Hospitalito. Lì, infatti, c’era una piccola stanza di fronte alla sacrestia e alle spalle dell’altare dove alcuni anni dopo sarebbe stato ucciso. In realtà era una sistemazione impensabile, cosicché le suore riuscirono a convincerlo ad accettare in dono una casetta prefabbricata edificata, nel cortile dello stesso ospedale.

La situazione intanto andava precipitando. Nemmeno un mese dopo fu ucciso il suo amico padre Rutilio Grande, insieme ad un ragazzo e ad un anziano. Romero, immediatamente avvisato si recò ad Aguilares, la parrocchia di cui era parroco Rutilio e dove in tre anni aveva formato duemila catechisti (dopo la cacciata dei gesuiti dal seminario). Di questi alla fine della guerra saranno vivi appena in ottanta, perché nel cattolicissimo El Salvador essere trovati con la Bibbia in casa o una foto di padre Grande era sufficiente per essere uccisi all’istante. La repressione quindi si scatenò con particolare ferocia nel municipio di Aguilares.

Quella notte però, quando alle 4 del mattino Romero celebrò al messa alla presenza dei corpi dei tre uccisi, comprese con immenso stupore che le migliaia di contadini venuti a piangere il loro parroco appartenevano alle FECAS, il sindacato dei contadini cristiani salvadoregni, che secondo il governo costituivano il gruppo più pericoloso tra i presunti rivoluzionari comunisti. Quella notte quindi Romero si rese conto che in El Salvador veniva ormai etichettato come comunista chiunque si mettesse dalla parte dei poveri. Il lunedì successivo vennero celebrati i funerali dei tre uccisi e il martedì Romero incontrò tutti i preti e i religiosi presenti in diocesi che gli trasmisero la richiesta delle comunità di base di compiere un gesto forte, vale a dire, sospendere la celebrazione di tutte le messe nella diocesi la domenica successiva, per celebrarne una sola, tutti insieme in cattedrale con lui e dare così un segno forte di unità contro la violenza dilagante nel paese.

 

La messa unica

 

Romero dapprima rimane perplesso: da buon conservatore, infatti, si faceva lo scrupolo che quanti non avessero potuto partecipare a quella messa avrebbero mancato al precetto festivo. Allora, il provinciale dei Gesuiti gli ricordò che, secondo il Diritto Canonico lui, in quanto vescovo, aveva la facoltà di esonerare da tale precetto tutti quelli che non avessero potuto parteciparvi. Così Romero si mise l’anima in pace e andò in nunziatura accompagnato da un prete, padre Jesus Delgado, per comunicare al Nunzio Apostolico (di cui sperava l’appoggio) la sua decisione. Il Nunzio però lo aggredì e qui commise un errore fondamentale, perché Romero - essendo un timido introverso (prendeva ancora delle pastiglie ed era stato in passato in cura dallo psicologo) - come tutti i timidi, nel momento in cui perdeva la pazienza, reagiva in modo aggressivo. Incaricò quindi il sacerdote che lo accompagnava di proseguire il colloquio e si mise spudoratamente a leggere il giornale.

I due giunsero al compromesso di sospendere le messe in contemporanea a quella nella Cattedrale, permettendo però la celebrazione in altre ore. Romero, sornione, lasciò intendere di essere d’accordo, ma uscito di là tornò a riunire i preti chiedendogli di nuovo consiglio. Quelli insistettero e così il giorno dopo l’arcivescovo tornò in nunziatura dove, in assenza del nunzio, fu ricevuto da un giovane monsignore italiano che – più papista del papa – lo trattò in modo peggiore di quanto non avesse fatto il suo superiore il giorno prima. Romero non si scompose e si limitò a rispondere in maniera decisa: “non sono venuto a chiedere alcun permesso, ma a comunicare la mia decisione in qualità di vescovo diocesano” a quel punto Romero aveva passato il suo Rubicone. Più ancora che non la morte dell’amico, fu questo infatti per lui, il vero punto di non ritorno. E questo perché si rese conto d’essere giunto ad un bivio: tra la sua gente e i suoi preti da un lato e i poteri forti dall’altro; ma anche ad un bivio con Dio, rendendosi conto che se vuole continuare ad essergli fedele (come lo era sempre stato, in buona fede, anche quando si era comportato nella maniera peggiore) doveva cambiare radicalmente la propria posizione. Doveva cioè cambiare per non

cambiare.

Parlo quindi di discontinuità nella continuità, prendendo così le distanze tanto dalla versione vaticana, per cui nella vita di Romero non ci sarebbero mai stati dei reali e profondi cambiamenti; quanto da quella di coloro che sostengono un cambiamento drastico e totale. Ritengo invece che abbia cambiato il proprio atteggiamento e scelte pastorali per mantenere intatta quella fedeltà radicale a Dio che lo aveva sempre contraddistinto. Interrogato da un giornalista su questo punto specifico, disse che più di conversione preferiva parlare di evoluzione; avvenuta comunque in un tempo tanto ristretto nella vita di un uomo, come possono essere due anni che, se confrontiamo il vescovo ausiliare che lasciò San Salvador il 14 dicembre 1974 e l’arcivescovo che vi fece il suo ingresso il 12 febbraio 1977, non sembrano assolutamente la stessa persona. Come tutte le persone radicali anche lui non conosceva mezze misure e l’unico punto sul quale si mantenne fermo fu l’obbedienza alla gerarchia. Questo è un punto fermo per comprendere la delusione che provò verso quelli dell’Opus Dei, che disobbedirono alla sua direttiva, celebrando nelle cappelle private dei collegi cattolici per dispensare i fedeli delle classi elevati dal mischiarsi col popolino in cattedrale.

Secondo alcuni questo avrebbe causato una rottura definitiva. Non è vero e non avrebbe potuto esserlo. Intanto perché Romero aveva un fortissimo senso del dovere, anche nei loro confronti, poi perché la storia dimostra che continuò a frequentare anche loro fino al mattino stesso in cui sarà ucciso, quando andrà con loro a studiare alcuni documenti ecclesiali. Da parte mia ritengo significativa, oltre che veritiera la frase (riportata da Jon Sobrino) pronunciata da Romero all’uscita dalla nunziatura: “questi sono come quelli dell’Opus, non capiscono”. Ciò da un lato esprime un giudizio pesante ma anche una presa di coscienza. Romero si rende conto che come loro, anche lui fino a poco prima non capiva la situazione del popolo, ma quello che non può accettare è la disobbedienza a lui in quanto vescovo. In lui infatti è e resterà sempre radicata l’idea dell’obbedienza ai superiori e in questo caso come vescovo viene disobbedito per fare gli interessi di quelli stessi ricchi che stavano massacrando il popolo.

Da quel momento però la situazione nel paese andrà irrimediabilmente degenerando: cinque preti e centinaia di laici uccisi in tre anni. Nel dicembre 1980 anche quattro missionarie statunitensi, violentate e uccise sulla strada per l’aeroporto. Più tardi (1983) Marianela Garcia Villias: una figura grande almeno quanto Romero, impegnata per 15 anni nella difesa dei diritti umani e per questo arrestata torturata e violentata due volte prima di essere uccisa. Di lei ci resta un intervista realizzata da Raniero La Valle per il TG1 nel 1981, anno in cui si era rifugiata in Italia per chiedere inutilmente aiuto ai politici del nostro paese. La Democrazia Cristiana infatti non volle ascoltarla, perché - sebbene anche lei fosse stata deputata democristiana in El Salvador – la DC salvadoregna era in quel momento al governo con i militari grazie agli ambigui opportunismi di Duarte; mentre il PCI non la ricevette per non scontentare la stessa Democrazia Cristiana in tempi di compromesso storico. Comprendendo di non ricavarne niente, decise di rientrare nel suo paese per raccogliere prove dell’uso del fosforo bianco da parte dei militari contro i civili, per portarle a Ginevra all’Agenzia dei Diritti Umani dell’ONU. Approfittò per questo della visita apostolica di Giovanni Paolo II, ma casualmente arrestata fu assassinata. Nel 1989 sarà poi la volta dei sei gesuiti dell’Università Centro Americana (UCA) con due donne: la cuoca e la figlia di questa. Intanto il numero dei civili – in gran parte contadini – uccisi nessuno riusciva più a contarlo.

 

L’incontro con Giovanni Paolo II

 

Tra i preti uccisi vi fu anche padre Octavio Luna Ortiz. Assassinato insieme a quattro giovani durante un ritiro. Quando Romero ne fu informato corse all’obitorio, si gettò per terra nel fango e prese in braccio il cadavere sfigurato del padre Ortiz, il primo prete da lui ordinato, quando ancora era ausiliare. Raccontano le testimonianze dei presenti che il pianto dirotto dell’arcivescovo richiamò persino i militari, che entrarono rispettosamente a vedere quella sorta di pietà salvadoregna. Poi Romero chiese che portassero una macchina fotografica per immortalare quello scempio. Dopo alcuni mesi avrebbe portato quelle immagini a papa Wojtyla, quando il 7 maggio 1970 fu ricevuto da lui.

Siamo così giunti al punto critico di tutte le biografie e cioè il primo incontro tra Giovanni Paolo II e Romero, del quale possiamo dire che per lo meno non si siano capiti. Quel che è certo è che Romero ne usci con le ossa rotte. Tra i biografi e i commentatori ci si divide ormai in due partiti: quello wojtiliano (Morozzo della Rocca in testa, con il suo Primero Dios) sostiene che un Romero depresso cronico non abbia capito nulla di quanto dettogli dal papa; al contrario il partito romeriano sostiene che il papa lo abbia trattato duramente e si sia rivelato incapace di cogliere la situazione salvadoregna oltre che di un minimo di sensibilità.

Generalmente credo che poche volte la verità stia nel mezzo, ma la situazione è comunque più complessa di come venga rappresentata. In questo caso, ad esempio, risulta illuminante considerare la data. Dire il 7 maggio 1979, infatti vuol dire che Wojtyla era diventato papa da soli 6 mesi e cioè appena uscito dall’esperienza del comunismo polacco. Non aveva ancora capito come funzionavano le cose da questa parte del muro e soprattutto al di là dell’oceano. Quel che è peggio poi è che era ancora totalmente dipendente dalla curia vaticana e, in questo caso, non poco influenzato dal cardinale Baggio. Da parte sua a Romero restava poco meno di un anno di vita (sentiva il martirio come un’eventualità possibile e non lontana) e di conseguenza non poteva permettersi di aspettare che papa Wojtyla si rendesse conto di come funzionassero le cose. Da quell’incontro usci dunque deluso e ferito. Con buona pace però di quanti – da una parte e dall’altra – hanno eccessivamente enfatizzato l’episodio, dobbiamo ricordare che non si trattò del primo caso nella storia della chiesa; a partire dalle colonne Pietro e Paolo ad Antiochia.

Tornato in patria, la situazione precipitò e Romero si trasformò nella “Voce dei senza voce”. Al mattino della domenica celebrava l’eucarestia alle 8,30 e le sue omelie duravano da un minimo di un ora a un massimo di due, secondo uno schema preciso. Nella prima parte commentava la parola di Dio, nella seconda annunciava gli eventi ecclesiali, nella terza denunciava i fatti della settimana, avendo ricevuto le denuncie di molte vittime o famigliari delle vittime e avendole fatte verificare dall’equipe del “Soccorso Giuridico”, formata da avvocati e studenti di legge, incaricati di raccogliere le prove. Tutto El Salvador si fermava per ascoltarlo: nelle chiese venivano interrotte le messe, ma anche nelle caserme e negli accampamenti guerriglieri tutti si sintonizzavano sulla radio diocesana che trasmetteva le parole dell’arcivescovo. Chiaramente si trasformò nella voce più scomoda del paese, sia per la precisione delle denuncie che per l’autorevolezza della persona. E dovettero fermarlo. Da prima mettendo una bomba che distrusse gli impianti della radio, a cui sopperirono con un collegamento telefonico con il Costa Rica, dove Radio Noticias del Continente s’incaricò di diffondere il segnale in onde medie, raggiungendo così non soltanto il Centroamerica ma buona parte dell’America Latina. A quel punto per spegnere la voce dell’arcivescovo non restava che una possibilità: la più radicale.

 

Nel frattempo la situazione si era ulteriormente aggravata. Romero decise allora di tentare il tutto per tutto, a due diversi livelli. Scrisse da prima al presidente degli Stati Uniti, Carter, chiedendogli di non mandare più aiuti militari al governo di El Salvador e poi – nella sua ultima omelia domenicale – ai soldati di compiere un’obiezione di coscienza, rifiutandosi di massacrare i civili.

Romero sapeva bene, infatti, che anche l’esercito salvadoregno – come la quasi totalità di quelli latinoamericani – era composto da due gruppi bene distinti: quello degli ufficiali, parte dei quali “formati”, cioè addestrati alla tortura e ai peggiori crimini, alla Scuola delle Americhe (scuola di addestramento militare gestita dagli Stati Uniti a Panama) e dai soldati di rango minore, presi più indiscriminatamente tra il popolo. Tutto ciò è ben documentato nel rapporto “Guatemala Nunca Mas”, redatto dalla chiesa guatemalteca sotto la direzione di Monsignor Gerardi, ucciso per questo due giorni dopo la presentazione ufficiale. In esso, ad esempio, si denuncia come la tipologia delle torture venisse studiata ad hoc in alcune facoltà di sociologia degli Stati Uniti.

Da parte nostra, in diverse occasioni abbiamo ascoltato la testimonianza dei profughi rientrati dall’Honduras, che sopravvissuti ad alcuni massacri ci hanno raccontato di aver visto i soldati piangere mentre compivano gli stessi. Avendo ben presente questa situazione Romero concluse quindi l’omelia con questo appello:” Di fronte all’ordine di uccidere che dà un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice. Non uccidere… ormai è tempo che recuperiate la vostra coscienza e che obbediate alla vostra coscienza piuttosto che all’ordine del peccato… in nome di Dio quindi e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione”. Il giorno dopo venne ucciso.

 

Il martirio

 

Certo l’assassinio dell’arcivescovo di San Salvador non fu organizzato in 24 ore. Da mesi vi erano segnali precisi e anche il Vaticano, in due occasioni, aveva avvisato Monsignor Romero di questa possibilità. Romero prese quindi alcune semplici precauzioni, ma non accettò mai di farsi condizionare nella sua azione pastorale. Il 24 marzo 1980 quindi nonostante fosse stato sconsigliato da più parti per l’eco inusitata che aveva avuto sui giornali la celebrazione di una messa in memoria della madre di un amico giornalista (eco, che nella peggiore tradizione salvadoregna, lasciava presagire la tragedia) celebrò comunque quella messa. Al termine dell’omelia (mancavano pochi minuti le 18,30) un sicario, appostatosi all’esterno della chiesa, gli sparò un colpo al cuore. Romero perse immediatamente conoscenza e morirà più tardi alla Policlinica Salvadoregna.

I funerali furono celebrati la domenica successiva sulla piazza della cattedrale, dal cardinale Corripio di Città del Messico – rappresentante ufficiale del papa – da molti vescovi venuti da tutto il continente, da pressoché tutti i preti salvadoregni e da una folla immensa. Ancora una volta però al momento dell’omelia la messa dovette essere interrotta, perché prima una bomba e poi degli spari e il panico fecero strage tra i presenti. I dati ufficiali parlarono di una cinquantina di morti, in realtà si ritiene fossero molti di più.

 

Evoluzione politica in El Salvador

 

A quel punto fu chiaro per tutti che le vie democratiche si erano esaurite e le diverse guerriglie confluirono, nel novembre successivo, nel Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (FMLN) lanciando l’insurrezione generale, che in verità, portò semplicemente ad una guerra civile durata 12 anni e costata 80.000 morti, tra omicidi e desaparecido. Secondo l’ONU quasi tutti a carico dell’esercito e si capisce, anche solo per la sproporzione dei mezzi a disposizione. Non va comunque sottovalutato che mentre per la guerriglia l’obiettivo erano unicamente le forze armate, per queste le stragi di civili erano parte della strategia. Nel 1992 la comunità internazionale impose gli Accordi di Pace e iniziarono gli anni del divario sociale. Il gruppo paramilitare cappeggiato dal maggiore D’Aubuisson e la guerriglia si trasformarono in partiti politici (rispettivamente ARENA e FMLN) e i primi riuscirono, con una serie di brogli e l’appoggio degli USA, a governare il paese per 20 anni. Da qui iniziarono a sorgere una serie sproporzionata di centri commerciali, inspiegabili in un paese che conta solamente un 4% di popolazione ricca e uno scarso 20% di classe media, se non con la necessità di riciclare i proventi del narcotraffico, non solo nazionale. Il paese andò così sprofondando sempre più nella povertà. Le cause che portarono alla guerra poco alla volta si ricrearono tutte, mentre tre milioni di salvadoregni migrarono all’estero (contro i 5 milioni 800 mila circa presenti in patria). Il 15 marzo 2009 il popolo salvadoregno riuscì però a far prevalere la propria volontà eleggendo quale nuovo presidente un bravo giornalista, Mauricio Funes, che appoggiato dall’FMLN e da vasti settori della popolazione civile sta cercando di risollevare le sorti del paese.

Due ultime questioni Romero divenne un teologo della liberazione o fu «teoricamente contrario» ad essa, come continua a sostenere qualcuno?

Un dato incontrovertibile è che tra i principali collaboratori teologici di Mons. Romero figurano Ignazio Ellacuria e Jon Sobrino, sebbene, come umilmente confesserà lo stesso rettore dell’UCA nel 1985 (in occasione del conferimento postumo di una Laurea honoris causa all’arcivescovo martire, da parte dell’università gesuitica salvadoregna), «certamente monsignor Romero chiese la nostra collaborazione in molteplici occasioni e questo rappresenta per noi un grande onore: per chi ce la chiese e per la causa per cui ce la chiese... Ma in tutte queste collaborazioni non c’è dubbio di chi fosse il maestro e chi l’ausiliare; chi il pastore che indica le direttrici e chi l’aiutante; chi era il profeta che sviscerava il mistero e chi il seguace; chi era l’animatore e chi l’animato; chi era la voce e chi l’eco». Una collaborazione – da più parti attestata – sufficiente a fugare tante avventate affermazioni sul rapporto di Romero con la Teologia della liberazione. Romero, quindi, non fu un teologo della liberazione, per il semplice fatto che quello del teologo non era il suo ministero. Ma sostenere – come qualcuno ancora fa – che «rifiutava teoricamente la Teologia della liberazione» è quantomeno ridicolo, visto i collaboratori di cui si attorniava nel momento di elaborare i documenti più importanti. Ellacuría e Sobrino rappresentavano, infatti, il volto stesso della Teologia della liberazione salvadoregna. In questo senso, allora, ritengo sia più corretto dire di Romero che non fu un teologo, ma un vescovo della liberazione!

 

La causa di beatificazione

 

Un’ultima questione è quella del processo canonizzazione, del quale ancora non s’intravede la fine. Perché la Chiesa tardi tanto a riconoscere ciò che per il popolo è palese e cioè che monsignor Romero sia morto martire, rimane un mistero fluttuante nel campo delle ipotesi.

Quella più comunemente accampata e che ne attribuisce la causa alla tradizionale prudenza della Chiesa nel valutare le «virtù eroiche» dei candidati alla santità, appare ai più come una scusa. La vicenda di Romero, infatti, è tanto conosciuta – nelle luci e nelle ombre – che trent’anni sarebbero stati più che sufficienti a prendere una decisione. I diversi pareri peraltro non divergono sull’oggettività di quanto successo e la versione più «ufficiale» tende a circoscrivere la figura di Romero entro parametri canonici che dovrebbe piuttosto spianargli la strada.

Una seconda questione è invece di natura «politica»: dal tempo della morte di Romero in El Salvador è rimasta ininterrottamente al potere per ventinove anni (fino al 15 marzo 2009) la stessa classe sociale responsabile del suo assassinio. Il partito ARENA (Alleanza repubblicana nazionalista), infatti, vanta come fondatore il maggiore D’Aubuisson, in cui onore ogni anno il 23 agosto vengono sospesi i lavori dell’Assemblea legislativa, per permettere ai suoi membri di festeggiarne il genetliaco. L’ex presidente Saca gli ha inoltre dedicato un monumento il 22 giugno 2006. Ebbene, questa lunga permanenza al potere, che ha permesso all’oligarchia di continuare a controllare il Paese nonostante dodici anni di guerra civile, sarebbe stata semplicemente impensabile se non fosse stata sostenuta da una precisa volontà politica degli USA, accompagnata da ingenti aiuti militari. Proprio quelli cui si era opposto Romero nell’appello rivolto al presidente Carter. La canonizzazione di Romero quindi avrebbe significato prendere una chiara posizione politica su tutta quella vicenda.

Indubbiamente, non mancò nemmeno una sorta di attenzione alle diverse opinioni presenti nella società salvadoregna e nella Chiesa stessa, poiché l’accusa farneticante espressa da Revelo a Giovanni Paolo II (secondo cui il vero responsabile della guerra civile in El Salvador sarebbe stato Romero!) era purtroppo condivisa da altri. Per questo, non sono mancati negli anni quanti hanno sostenuto che fosse necessario aspettare che passasse un’intera generazione, per evitare reazioni sconvenienti.

Infine, in diverse occasioni, il propugnatore della causa di beatificazione ha dichiarato che sarebbe stato anzitutto necessario «purificare» la figura di Romero dalle troppe incrostazioni ideologiche di cui è stata caricata. Per quanto discutibile, potrebbe trattarsi della motivazione più veritiera. È indubbio, infatti, che la figura di Romero sia stata un po’ mitizzata, soprattutto da parte di quei settori popolari che, oppressi da cinquecento anni, avevano finalmente trovato in lui un buon pastore e un autentico difensore dei loro diritti. Ma questo può costituire un vero problema? È pure indubbio che a chi si ostini a guardare il mondo da Roma o dall’alto delle proprie cattedre, in qualsiasi parte del mondo, faccia una certa impressione sentir citare le omelie di Romero da persone che militano in partiti di sinistra e magari sono ex guerriglieri... ma se ci decidessimo a toglierci gli occhiali delle nostre precomprensioni ideologiche, per guardare a occhi nudi la storia e la vita dei popoli, ci accorgeremmo finalmente che è assolutamente naturale che quelle persone continuino a cercare ispirazione nelle parole del loro pastore. Non si tratta, infatti, di bolscevichi travestiti da cristiani (e crediamo di averlo almeno in parte dimostrato), che usurpino la figura e la parola di un vescovo, ma di cristiani, provenienti in larga parte dalle comunità di base, che dopo i fatti del 1980, per convinzione o necessità, hanno intrapreso il sentiero rivoluzionario. Molti, infatti, all’inizio non lo fecero neppure con convinzione, ma trovandosi intrappolati in una situazione polarizzata come quella salvadoregna, in cui la Democrazia Cristiana avallava i crimini dell’esercito e della destra, non ebbero altra possibilità che spostarsi a sinistra.

 

A chi guarda il mondo dal Nord, inoltre, fa una certa impressione vedere magliette con l’immagine di Romero affiancata a quella del Che o di Farabundo Martí: se li può consolare, a volte c’è persino quella della Madonna di Guadalupe, magari con il bavaglio zapatista. Oppure, la triade dei tre grandi condottieri: Mosè, il Mahatma Gandhi e ancora il Che, in un misto incredibile di lotta armata e non violenza che fa inorridire non solo i curiali vaticani, ma anche i più convinti pacifisti. Il punto però rimane lo stesso: i popoli oppressi, privati della loro dignità e libertà, non dividono il mondo in credenti e atei, santi e rivoluzionari, cattolici e comunisti... lo dividono in amici e nemici, fra quanti cioè si mettono dalla parte della vita e quanti della morte. E chiunque sia disposto a sacrificare se stesso per riscattare la vita del popolo diventa un eroe: una logica che dovrebbe suonare abbastanza familiare alla Chiesa! Per questo, il problema di una Chiesa preoccupata della fedeltà al Vangelo, non dovrebbe essere quello che su certe magliette accanto al Che e ai vari Farabundo, Sandino, Zapata... ci sia qualche vescovo, ma semmai che ce ne siano troppo pochi.

Infine, qualche amante del diritto aveva avanzato l’obiezione che Romero non potesse essere proclamato martire, perché non fu ucciso in odium fidei; un aspetto che certamente ha differenziato la persecuzione delle Chiese latinoamericane da quelle dell’Est europeo. Perché quando la persecuzione è dovuta a regimi dichiaratamente atei, è scontata – giustamente – la solidarietà del resto della cattolicità e anche la palma del martirio... Ma quando avviene per mano di regimi sedicenti cristiani e persino cattolici, in cui i persecutori vanno a messa tutte le domeniche e magari fanno pure la comunione, allora la cosa si complica... Le accuse mosse a Romero sui campi pagati dei principali giornali nazionali erano, infatti, firmate da improbabili «associazioni delle donne cattoliche» o «di Cristo re». Romero pertanto non sarebbe martire, perché ucciso «solamente» per ragioni politiche e non in odio alla fede. Mosso da questa provocazione, Sobrino coniò l’espressione martiri gesuani, ricordando che secondo tale logica neppure Gesù potrebbe essere definito martire.

Fu, infatti, processato e condannato dal sommo sacerdote Caifa non già perché credeva in Dio, quanto piuttosto perché predicò la giustizia del Regno: una componente essenziale della fede cristiana. Essere condannati per la giustizia quindi, se cristianamente motivati, equivale a essere condannati per odio alla fede. Di conseguenza, martiri gesuani sarebbero tutti coloro che non potrebbero essere dichiarati martiri in base al Diritto canonico, ma soltanto alla maniera di Gesù...

E scusate se è poco! La questione, in realtà, è molto più seria di quanto possa sembrare: non si tratta, infatti, di un banale cavillo legalistico, ma della natura stessa del messaggio evangelico. La fede, cioè, ha una dimensione politica oppure no? Si può essere autenticamente cristiani, evitando di schierarsi nei confronti dell’ingiustizia oppure no? Fu dovuto a un eccesso di zelo quanto compiuto da Romero o è da ritenere colpevole (cioè una grave inadempienza nei confronti del proprio ministero) la condotta degli altri quattro vescovi? Proclamare « martire » Romero significherebbe pronunziare una parola definitiva (che giudica anche l’oggi della Chiesa) su tutte queste questioni. Tale obiezione però sembrerebbe definitivamente superata dalla ferma convinzione mostrata da Giovanni Paolo II, il 7 maggio 2000, quando volle inserire il nome di Romero nell’elenco dei martiri del Novecento, letto durante la celebrazione al Colosseo. Ciò lo metterebbe anche al riparo da certi tentativi revisionistici, che vorrebbero fargli una sorta di lifting, presentandolo più come un santino della spiritualità che un martire della giustizia.

Intanto però, lontano da queste questioni è continuata la vita di quel popolo che l’ha già canonizzato: «L’America Latina già ti ha posto nella sua “gloria del Bernini”

nella spumosa aureola dei suoi mari nel baldacchino arieggiato delle Ande

vigili nella canzone di tutte le sue strade

nel calvario nuovo di tutte le sue prigioni

di tutte le sue trincee

di tutti i suoi altari...

Sull’altare sicuro

del cuore insonne dei suoi figli!»,

come ha cantato Dom Pedro Casaldáliga.

Un popolo di poveri. Poveri, che da più di trent’anni trovano nelle sue parole l’ispirazione necessaria per continuare a resistere nella dura lotta della sopravvivenza: nei piccoli villaggi come nella gran San Salvador, nelle maquilas e nei mercati, nelle case e persino nelle carceri o in quei concentrati di sofferenza che si ostinano a chiamare ospedali. Che trovano incoraggiamento per continuare la lotta incompiuta per la giustizia e la difesa della memoria, perché il futuro sia davvero di «pace con dignità» per tutti. Che – in definitiva – trovano nelle sue parole una possibilità di riscatto e di vita. La sola vera gloria che possa interessare al loro pastore.

 

Interventi

 

1.Vorrei sapere se quanto successo è dipeso dal percorso personale accidentato che ha fatto Romero, oppure della situazione ambientale. Helder Camara che si è trovato in una situazione analoga, è riuscito a morire di vecchiaia ed ha avuto un’azione incisiva sulla politica del suo paese. Nel caso di Romero, tutto è dovuto ad una oligarchia spietata o, forse, dal suo percorso che ha fatto cambiare opinione alle autorità?

2. Credo che oggi sia necessaria una riflessione sul Concilio e sui suoi linguaggi che vengono dimenticati, anche dalla gerarchia nei suoi documenti. Su Romero mi ha colpito il suo legame con il popolo, con i poveri e con i lavoratori e perché anche nel nostro mondo il richiamo ai poveri l’abbiamo talvolta usato come attenuante per non entrare nel conflitto che creava contrapposizione tra i poveri e i lavoratori e i datori di lavoro, proprio di fronte ad una crisi come l’attuale. Come ACLI avevamo l’impegno di entrare nel mondo del lavoro per essere portatori di speranza, di essere testimoni del Vangelo. Non sempre è stato facile in questo mondo dentro il quale non c’è nulla di chiesa. Mi chiedo poi come è possibile non cadere nella carità spicciola e non invece interrogarci sulle ragioni per le quali ci sono i poveri e le condizioni del mondo del lavoro.

Forse oggi le contraddizioni – anche dentro la chiesa italiana – di gruppi che si identificano e si identificano e si accentuano nelle diversità che hanno tra loro, mi fanno dire che se riuscissimo a porci dentro il Vangelo, forse cambieremmo un po’ tutti, rispetto al rimanere nel proprio ambito di riferimento senza avere il coraggio di confrontarci.

3. Anche a me hanno colpito le scelte che Romero ha fatto nell’ultimo periodo della sua vita, oltre che le precedenti, sempre comunque centrate sulla fedeltà al Vangelo. Ho letto su Avvenire il messaggio del Papa per la Giornata della Pace: bello, ma non c’è un riferimento al vangelo. Nella mia parrocchia si organizzano i Centri di Ascolto (che noi chiamiamo Vangelo in famiglia), ma, già al secondo anno si vorrebbero farli non sul Vangelo ma sulla lettera pastorale del Vescovo. Ma il centro di tutto è il Vangelo, poi il resto può essere di aiuto, diversamente l’evitare di convertirci e di andare al centro del messaggio evangelico e alla sua fedeltà è un pericolo sempre presente, anche se i documenti, la dottrina, la teologia sono importanti. La stessa riforma della chiesa non può che partire dal Vangelo.

4. Quello che di Romero mi ha colpito è l’uomo, un uomo malato che si doveva curare e mi viene di pensare ai nostri rifiuti giustificandoli da momenti di salute precaria. Romero pensava all’uomo, fosse povero o ricco e questo lo faceva alla luce del Vangelo mettendosi comunque in gioco. Noi, nel nostro mondo che facciamo? L’uomo del mondo del lavoro non ha quasi più cittadinanza, le aziende chiudono o vanno all’estero, c’è un mondo di precari o di senza lavoro e ciò porta a pensare che vi sia un altro Dio al quale riferirsi, quello della comodità, quello del soldo, quello dello star bene e che gli altri si arrangino, se è vero – come è vero – che solo il 10% della popolazione è sempre più ricco e il 90% è sempre più povero o comunque in difficoltà: in tutto questo dov’è l’attenzione per l’uomo?

5. L’anno scorso è stato eletto il nuovo Presidente del Salvador e io credo che ciò sia stato possibile perché in America Latina c’è un vento nuovo: dubito infatti che se non ci fosse stato il Brasile, l’Ecuador, il Venezuela che hanno fatto scelte ben precise rispetto al passato, il Salvador, da solo, avrebbe potuto arrivare a cambiare. Mi piacerebbe un chiarimento.

6. Mi spaventa un po’ lo scenario che ultimamente si nota in Salvador e che il presidente dovrà affrontare, perché vedo un parallelismo con quello che tra poco potrebbe esserci anche nel nostro paese e in maniera deflagrante. Nell’escursus del relatore, a partire dall’800 fino ad arrivare a noi, le cose sono rimaste sostanzialmente le stesse, ovvero il 20% che possiede tutto e l’80% che non possiede nulla. In tanti si rendono conto di questa cosa, però c’è ancora una parte minoritaria, anche a livello mondiale e dunque anche da noi, che non è al corrente. Secondo il relatore mancano i profeti che riescono a fare capire o manca la capacità di ascoltarli, avvolti come siamo nell’indifferenza e nell’egoismo che caratterizza la nostra società e il mondo globalizzato.

7. Qualche tempo fa ho ascoltato un missionario del nostro paese di ritorno dal Brasile il quale diceva che dove era lui a svolgere la sua opera, sui libri di testo delle scuole elementari – settore religione – c’era scritto che i poveri ci sono perché i ricchi possano fare qualche opera buona. Credo che questo si commenti da sé. I profeti? I profeti ci sono però vengono castigati, zittiti e mi pare che la chiesa non abbia ancora

capito la lezione. D’altra parte c’è da dire che i profeti sono coloro che possono dare fastidio, sono coloro che credono in un Vangelo vissuto e sanno benissimo (come lo dovremmo sapere anche noi) che credendo a Gesù Cristo, che certo non è morto nel suo letto attorniato dai suoi famigliari, ma è finito in croce, può toccare anche a loro la persecuzione. E devono essere coscienti di questo, se vogliono essere alla sequela di Cristo.

 

Risposte (non riviste dal relatore)

 

Sulla prima questione, ovvero come mai Romero è arrivato fino al martirio e altri grandi profeti latino-americani no, io credo che le cause del martirio siano contingenti, a volta casuali, se non banali, tanto che un altro grande profeta dell’America Latina Samuel Ruiz, Vescovo del Chapas, si presume che morirà di vecchiaia, in quanto ha compiuto ottantasei anni qualche giorno fa, dopo che hanno mancato un colpo nel corso di due attentati da lui subiti. Sicuramente la situazione del Salvador in quegli anni era particolarmente tragica, si era in una situazione esasperata di violenza e di guerra civile, neanche il Brasile è mai arrivato a certi livelli, pur avendo conosciuto situazioni di povertà molto più radicali. D‘altra parte se si vanno a leggere le omelie di Romero (raccolte in otto volumi) non stupisce che l’abbiano ucciso, stupisce che abbiano aspettato tre anni a farlo.

Di voci in Salvador che denunciavano quello che sta succedendo ce n’erano diverse, era però gioco facile, farle passare come voci di propaganda comunista. Ma che l’Arcivescovo tutte le domeniche, in maniera documentata, denunciasse i fatti dal pulpito della cattedrale, era chiaro che andava assolutamente messo a tacere, soprattutto nel momento in cui il mondo se ne era accorto e attorno a Romero si era concentrata una attenzione particolare.

Romero non ha mai vinto il Premio Nobel per la pace, pur essendo stato candidato; è risaputo che per il Nobel per la pace a persone religiose, l’Accademia Reale Svedese chiede prima l’autorizzazione al Vaticano e, quell’anno il premio, anziché a Romero è stato dato a Madre Teresa, sicuramente una santa, ma che dal punto di vista politico dava meno fastidio. La stessa cosa è capitata quando il candidato sembrava dover essere Samuel Ruiz, il premio invece è stato dato ad un vescovo di Timor Est, del quale nessuno aveva mai sentito parlare.

 

Io credo che Romero non se la sia andata a cercare, Romero tutto quello che aveva potuto fare per difendersi lo ha fatto, aveva il terrore di essere ucciso e lo ha confessato fino a pochi giorni prima ad un pastore protestante, suo amico; credo che non bisogna usare il martirio come chiave di lettura del valore delle persone perché – ripeto – a volte è legato a situazioni contingenti. Ci si è dimenticati i termini del concilio? Io credo che noi siamo in contraddizione, nel senso che da una parte il concilio è vecchio di cinquant’anni e noi stiamo vivendo un tempo di forte evoluzione rispetto alle questioni conciliari. Pensiamo al discorso interreligioso e come esso è cambiato dai tempi del concilio: il paradosso è che da una parte ci risulta essere vecchio e superato, lo stesso dialogo tra le religioni è del tutto insoddisfacente; così come lo è sui temi della povertà che proprio non lo ha affrontato. Il Vescovo Bettazzi fa osservare come sia stato insoddisfacente anche sui temi della pace, perché il Concilio – rispetto alla Pacem in terris – ha avuto molto meno coraggio, ha denunciato la guerra totale che è la guerra atomica, ma non la guerra tout court per la resistenza dei vescovi americani (allora c’era la guerra in Vietnam). Paradossalmente però stiamo vivendo un tempo di chiesa in cui uno dice “teniamoci stretto il Concilio perché qui non si sa dove si va a finire”. Un po’ quello che vale per la Costituzione, è vero che dopo sessant’anni forse dimostra i suoi anni, ma è bene non lasciarsela toccare, anche qui non sappiamo dove andremo a finire.

La Populorum Progressio è sicuramente superata in termini del modo di cui parlava, ma citandola sicuramente non si può essere classificati come eretici, in quanto fa parte del patrimonio della Dottrina della Chiesa.

Qual è stato il rapporto di Romero con i lavoratori e con i poveri. Io credo che sia significativo lo sviluppo che c’è stato nella sua consapevolezza, nel senso che all’inizio del suo ministero, il suo era un approccio di tipo caritativo al povero in quanto tale: in casa sua la mamma gli aveva insegnato che bisognava fare la carità ai poveri, era però quella carità irriflessa, quella di non chiederne le cause. Poco alla volta si era reso conto, non tanto nella riflessione economica o ideologica, quanto nel rapporto personale diretto, che i poveri non erano poveri per caso, che i lavoratori restavano poveri nonostante il loro lavoro, una povertà dovuta ad una ingiustizia strutturale. Romero si è allora lasciato guidare da due cose: dal Vangelo e della Dottrina sociale della Chiesa, perché questa è la forza di tutti gli spiriti conservatori. Mi spiego: se io stesso non ho mai amato studiare i documenti della chiesa, ma, ad un certo punto, sono arrivato a rendermi conto che le stesse cose che direi io, sono già state dette e scritte, con la differenza che se io le dico io sono comunista, invece se le ha detto Paolo VI° nessuno può metterci in croce. Mi domando perché non dobbiamo fare uno sforzo per ricuperare questo patrimonio che abbiamo, inchiodando chiunque a questa responsabilità.

Che cosa è che ci manca? Ci manca la formazione a tutti i livelli e io credo che stiamo vivendo un’epoca in cui la comunicazione è puramente di immagine, di slogan. Qualche volta può servire, ma non si può vivere di soli slogan.

Io sono segretario del Centro Studi di Pax Christi, fortemente voluto da Mons. Bettazzi nel ’91, nel momento in cui si è reso conto che anche Pax Christi – un po’ come tutto il movimento pacifista – stava prendendo una virata sui grandi slogan, ma assodato che possano anche servire, è molto importante studiare e conoscere le cose. Anche quando si discute di economia, si sente parlare molta gente con frasi fatte: la battuta può servire al momento, invece il nostro compito è quello di lavorare di più sulla formazione, sulla quale, mi pare, che siamo del tutto spiazzati dal punto di vista della pace, dell’economia, della formazione politica.

Mi rendo conto che non tutto è proponibile a tutti e allo stesso modo: non sta scritto da nessuna parte che le proposte debbano essere univoche e proposte a tutti, pertanto a seconda del target le faremo in modo diversi, per gli adolescenti in una specifica maniera, per gli adulti in un’altra. Ricordo che uno dei testi più belli sul rapporto della chiesa con la guerra, l’ho letto su quel grosso libro pubblicato dal Centro Studi delle ACLI qualche anno fa. Ed è un testo che ha fatto scuola ed io credo che su questi temi dobbiamo assolutamente insistere.

Leggere oggi il Vangelo? Assolutamente sì e credo che la cattiva idea di non leggerlo stia facendo scuola. A Milano abbiamo vissuto l’epoca d’oro di Martini; appena passato Martini mi sono reso conto che qualcuno stava tentando di far passare anche il Vangelo come una sorta di moda. Negli anni di Martini c’era la moda della Lectio Divina. Ci possono essere delle mode che vanno e che vengono, il Vangelo però deve essere per tutte le stagioni, non può essere una moda; è davvero preoccupante il fatto che si sentono eminenti personaggi di Chiesa che riescono a fare interi discorsi senza citare una sola volta il vangelo, così come è preoccupante che escano dei documenti – anche di un certo calibro – senza che il vangelo sia un riferimento preciso e, credo, ciò accada non a caso.

Il problema del vangelo è che ormai, come chiesa, noi stessi siamo strutturati in una maniera diversa da quella del vangelo; leggere il vangelo vuol dire avere la capacità di ristrutturarci su tutta una serie di cose, il problema è che noi lo leggiamo con gli occhiali della nostra ideologia, della nostra cultura, tanto che a volte vi si legge anche quello che non c’è scritto perché sin da piccoli lo abbiamo letto così. Io ho poca speranza che, nell’immediato, saremo capaci di farlo, d’altra parte la vedo come sola e unica possibilità. La mia angoscia è guardare una chiesa, che per i prossimi venti anni, si riduca sempre di più perché in qualche modo si concentrerà su posizioni molto settarie che hanno poco a che fare con il vangelo.

 

Nella mia parrocchia si celebrano due messe, alle otto e alle nove sono molto frequentate, vi sono tanti giovani, ma se non sono di CL sono dell’Opus Dei e, se l’immagine della chiesa futura che stiamo dando sarà così, qualche timore ce l’ho. La parola chiave è comunque “formazione”, vale a dire fare la fatica di studiare, frase fuori moda per i nostri giorni, ma assolutamente necessaria.

Si parlava dell’uomo. Anche quando malato, l’importante è l’uomo. Ma è proprio vero? Gesù diceva che il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato, ma forse è vero il contrario. L’esperienza che stiamo vivendo ormai da anni ci dice che si sacrifica più volentieri l’uomo per salvare i principi. Se penso a tutta la discussione in campo sanitario, con caso Welby ed Englaro, ai principi della morale, al grosso capitolo dei divorziati, come si fa a rimettere al centro l’uomo? Ma soprattutto, quello che ci interessa è un uomo concreto o un uomo simbolico? Anche in questo è interessante l’esperienza di Romero perché la sua visione di uomo era molto teorica, nella misura in cui confessa “a Santiago sono inciampato nella miseria” cioè nella storia dell’uomo concreto. Perché è Dio stesso che ha interesse per l’uomo in quanto persona concreta che, pur con tutti i suoi difetti e meschinità, Dio è disposto a bruciare un intero sistema ideologico e culturale per salvare quella persona, sia esso un lebbroso, una prostituta o un pubblicano. Però per credere tutto questo bisogna interiorizzare il Vangelo e io, come chiesa, credo che ci siamo già distanziati troppo dal Dio del Vangelo, per questo mi fanno paura quei tentativi di instaurare una religione civile che ci

porterebbe definitivamente alla deriva.

Il cambio in Salvador è avvenuto a prescindere dall’America Latina: sono due storie a sé. Il Salvador era veramente un’ultima spiaggia, quel paese o cambiava o era finita e quello che ha permesso il cambio è stato, a sua volta, il cambio dell’Amministrazione Nordamericana. Quando ci sono state le elezioni in USA, io le ho osservate con molta attenzione perchè mi sono detto che se avessero vinto ancora i Repubblicani, per il Salvador sarebbe finita, se invece vinceva Obama poteva succedere qualcosa di diverso. Da parte del Salvador c’erano tutte le condizioni per il cambio e ce ne siamo resi conti negli anni precedenti, per il fatto che la gente non ne poteva più e ne parlava direttamente al mercato e io ho avuto la sensazione che il cambio ci sarebbe stato la mattina delle elezioni quando dovevamo essere in un seggio cittadino per le ore 5,30 del mattino: siamo arrivati in una città blindata, come osservatori ai seggi. Date le nostre generalità ai poliziotti, non solo ci hanno fatto passare, ma addirittura ci hanno accompagnati al seggio invitando i votanti a darci spazio. Ho pensato che qualcosa non funzionasse, una cosa analoga negli anni precedenti non sarebbe mai successa, anzi ci avrebbero ostacolati in tutti i modi, anche con le cattive. Durante la giornata mi è stato detto che anche i militari e poliziotti non ne potevano assolutamente più.

Quando il Tribunale Supremo Elettorale ha tentato di dire che era stato scrutinato un terzo dei voti e i candidati erano alla pari, dopo venti minuti è uscito un nuovo comunicato che diceva che il Frente era decisamente avanti con il 75-80%. Due giorni dopo abbiamo saputo che era arrivata una telefonata da Hillary Clinton in cui diceva che gli USA non erano disposti ad appoggiare nessuna forma di broglio. C’erano tutti gli occhi del mondo puntati sul Salvador per vedere se la politica estera del nuovo esecutivo Obama (insediatosi due mesi prima) era davvero cambiata.

Il problema generale dell’America Latina io lo guardo con un po’ di preoccupazione, nel senso che quest’anno quando siamo andati là per la prima volta e ci siamo trovati a discutere ferocemente con i nostri amici, perché le avanguardie del Salvador accusavano il Presidente Mauricio Funes d’aver tradito il popolo, per cui la scelta di Funes di allearsi con Obama e con Lula e non con Chavez, l’hanno vissuta come un tradimento. A mio parere questa è mancanza di lucidità, ma la cosa sconvolgente è che ciò avviene anche in gente assolutamente lucida dal punto di vista analitico. La realtà dei fatti è che il Presidente Chavez è seduto sopra il petrolio che serve agli USA, fare il presidente della Bolivia vuol dire stare seduti sul gas, fare il presidente del Salvador vuol dire stare seduti sui debiti.

Un paese che non ha nulla dal punto di vista delle risorse naturali, le uniche fabbriche sono quelle di assemblaggio a capitale straniero in zone che sono “zona franca internazionale” per cui non pagano neanche le tasse; un paese pieno di debiti con l’estero che compra beni di prima necessità dagli altri Paesi del Centro America ed è vincolato da una serie di trattati internazionali che non possono essere rescissi. La novità dell’estate è che, per fortuna, le cosiddette avanguardie pro Chavez, si sono accorte che i poteri finanziari hanno tentato il colpo e, di colpo, sono rinsaviti e hanno rimesso giudizio, dandosi una calmata.

Più in generale mancano i profeti: se mi permettete una battuta, dei profeti possiamo benissimo farne a meno e, parafrasando Brecht, direi “povero quel popolo che ha bisogno i profeti”. I profeti vengono fuori nei momenti drammatici, quando le cose vanno male; nell’alternativa tra profeta e pastore, il pastore è magari un po’ più noioso, il profeta è più brillante, ma quelli che servono sono i pastori, non i profeti. Serve la laboriosità della quotidianità, non la voce brillante che in un momento urla. Nella storia di Israele i profeti vengono fuori con estrema ratio, quando Dio non riesce più a fare avanzare di un passo questo popolo e credo che di profeti ne abbiamo avuti tanti.

 

Mi domando allora cosa ci resta da sentir dire di più di quello che già abbiamo sentito. Anche sulla pace si dice che dopo don Tonino Bello non ce n’è più stato un altro e a me viene da dire a cosa ci serve un altro don Tonino Bello: le cose che lui ci ha detto rimangono tutte lì e tutte vere, allora il problema non è qualcun altro che in maniera più o meno brillante dica le stesse cose, ma capire queste cose e metterle in pratica giocandovi la nostra disponibilità nel farle nostre.

Un ulteriore problema è che ci sono quelli che hanno tutto l’interesse a far finta di non sentire e di non capire e poi ci sono quelli che avrebbero tutto l’interesse a capire e a sentire e non capiscono e non sentono. Per capirci, il berlusconismo non è soltanto della Confindustria, è sostenuto dai poveracci, perché in Italia non possiamo invocare i brogli elettorali? In Regione Lombardia Formigoni ha imbrogliato, ma voi credete che andiamo a votare in maniera democratica non vinca un’altra volta? Allora il problema torna ad essere quello della formazione e io credo che, su questo, abbiamo davvero una grossa responsabilità, sia come Chiesa che come partiti della sinistra.

Le due grosse realtà che avevano una presenza sul territorio erano la chiesa con le parrocchie e il PCI con le sezioni e con le cellule: queste ultime non si sa che fine hanno fatto, le parrocchie parlano di fiabe e può capitare che in Consiglio Pastorale siano i preti a stimolare e i laici a remare contro. E’ duro dirlo, ma qui abbiamo davvero perso la formazione, ricordo che quando ero nella mia prima parrocchia, quando abbiamo fatto una serie di iniziative sui temi interreligiosi tenuti in un centro commerciale, uno dei più grossi di Milano, il cui direttore, persona illuminatissima, sosteneva che, nell’antichità, il centro del commercio era anche luogo di scambi culturali, nel suo centro aveva organizzato anche la Mostra del Codice di Leonardo. Questo signore, come titolo di studio, aveva la quinta elementare, tutto il resto lo aveva appreso nelle scuole di partito del PCI ed era una persona con la quale si riusciva a lavorare bene.

 

Allora capite bene che, alla base di tutto, c’è un problema di formazione e dunque sarà importante individuare quali sono gli spazi. Il più ridotto, come chiesa, è l’omelia e mi sorprende sempre il fatto che con mio padre, propagandista dell’Azione Cattolica degli anni ’50, debba sempre litigare per questioni teologiche. Ora è chiaro che l’impostazione teologica di mio padre non è la mia e mi rendo conto che mi sto scontrando con una generazione che comunque una formazione teologica l’ha ricevuta, mentre il mio problema nelle omelie è diventato quello di semplificarla sempre di più, perché colui che hai di fronte non può più dare per scontato niente. Tu parli di Mosè e capiscono Noè, parli di Abramo e capiscono Adamo, e così via. Da questo punto di vista, credo che associazioni come le ACLI, Pax Christi e Caritas, sono forse ancora quelle che abbiamo un minimo di retroterra da offrire e un po’ di credibilità per poterlo fare.

Io credo nei giovani, e non per partito preso, e ne parlo molto poco perché quando sento quelli che parlano troppo bene dei giovani e del loro futuro, mi viene sempre il sospetto che sia una malattia da vecchi, perché quando sei deluso dalla vita, rischi di proiettare sugli altri quello che non sei riuscito a fare tu. E quando sento dire che i giovani di oggi non hanno più i valori di una volta mi viene sempre da dire “meno male”, perché se è vero che la società è ridotta come è ridotta e che i giovani a trentacinque anni non sono ancora protagonisti né del lavoro, né della politica, vuol dire che questo danno non l’hanno fatto loro. Quindi se i valori di quelli di prima ci hanno portato a questo e li hanno persi, meno male. Guardando i giovani più da vicino, mi sembra che dal punto di vista emotivo siano molto generosi e, se ripenso alla mia adolescenza, ma la mia generazione non aveva neanche l’idealismo di quella che ci aveva preceduto.

Detto questo però, è evidente che sono destrutturati, perché a sostenerli a fare da base non c’è nulla e questo – con un po’ di autocritica – devo dire che è colpa nostra, delle parrocchie: se li portassimo un po’ meno alle giornate della gioventù e offrissimo loro qualcosa di più sostanzioso, almeno quelli che ci rimangono attaccati avrebbero qualcosa di più. Se questo è vero, il cerchio si chiude, ancora una volta, sulla formazione e non può non preoccupare che in questi incontri, io continuo ad essere uno di quelli più giovani. Credo che, in sostanza, la sfida sia questa.

 

Domande

 

8. Anche da noi c’è una guerra tra poveri, con in sovrappiù la difficoltà per i giovani di capire la storia, sollecitati come sono dalla televisione, dal consumismo e dai bisogni indotti dalla pubblicità in una massa di precari e senza lavoro.

9. Si diceva che gli USA hanno sempre considerato il Centro America come il retrobottega; martedì ci sono state le elezioni a medio termine: visti i risultati si potrebbero aprire prospettive negative?

10. C’è qualche modulo formativo da distribuire ai circoli ACLI?

11. Nella relazione è stata citata la Teologia della Liberazione, vorrei chiedere cosa è stata allora e cosa ne è attualmente?

12. Parliamo di comunicazione. Il relatore sostiene che, a seconda della popolazione, il messaggio va indirizzato in modo diverso, ma in una comunità ciò non è facile, sia per la diversa cultura dei partecipanti, sia per appartenenza politica degli stessi. Questo è soprattutto evidente a livello parrocchiale, dove ogni gruppo è un gruppo chiuso. Come superare questi aspetti di incomunicabilità?

 

Risposte (non riviste dal relatore)

 

Per quanto riguarda gli USA si tratta di capire cosa succederà negli ultimi due anni del mandato di Obama: gli è andata piuttosto male, ma il Senato l’ha salvato. Se il popolo non va a votare in massa e, se lo fa, vota contro i propri interessi, il gioco è fatto. Cosa succederà non lo so, però è chiaro che se dovessero rivincere i repubblicani, si rimette in discussione anche la questione del Centro America. A meno che – nel frattempo – il discorso dell’ALBA sia riuscito a consolidarsi. Qui però ci sono molti elementi in gioco, per esempio la questione di Chavez che, a mio modo di vedere, potrebbe diventare anche un elemento destabilizzante. Se, fra due anni, Obama sarà ancora eletto, questo garantirà altri quattro anni di stabilità per il Centro America e quindi la possibilità di consolidare alcuni movimenti che sono in atto. Ad esempio, lo scorso anno, dopo che quelli di ARENA hanno perso le elezioni, sì è spaccato il partito, per cui si è formato un nuovo partito, si

stanno mangiando tra di loro e se ci sarà il tempo per riassestare i partiti, più o meno con le proprie alleanze, questo potrebbe garantire il futuro.

Sulla richiesta di un modulo formativo, ancora non ce l’ho, ma lo spero, infatti l’obiettivo principale che mi sono dato come Centro Studi di Pax Christi è di arrivare a fare questo. Intanto, sul sito, stiamo cercando di scaricare tutto il materiale possibile su alcuni temi quali l’economia, il diritto, la società, la politica, la teologia. Da diciotto anni a questa parte, Pax Christi ha tenuto dei seminari di altissimo livello, peccato che fino allo scorso anno non è mai stato messo da parte alcun atto di questi seminari, per cui è andato perso tutto il materiale. Nel frattempo ho messo insieme la squadra e pare che, adesso, si riesca anche a metterla in carta, il che vuol dire gli atti del convegno per trasformarli poi in schede formative a disposizione di parrocchie e professori interessati all’argomento. Al di là del materiale che produciamo direttamente noi, teniamo orecchie aperte su articoli di un certo spessore che escono con l’obiettivo di fare rete.

Sulla Teologia della Liberazione. La TdL viene da Medellin e viene innanzitutto da una scelta pastorale, nel senso che la teologia dovrebbe essere una riflessione posteriore su una pratica di fede che è già in atto. Purtroppo i teologi sono ridotti a fare gli interpreti del magistero, per cui se parlano di cose fondamentali non vogliono essere bruciati il giorno dopo. La TdL è invece nata proprio come scelta a partire da Medellin dove, come spiegava un vescovo, avevano un problema: come dire a gente che muore di fame che Dio è un padre buono e provvidente? Poi è loro venuto in mente che la Storia della Salvezza inizia con un evento importante, la liberazione dall’Esodo, ovvero un Dio che interviene dicendo basta all’oppressione.

Questa era diventata la chiave di lettura per leggere la fede alla luce dell’oppressione dei nostri popoli. Di lì è poi nata l’opzione per i poveri, è nata la pratica pastorale delle chiese latinoamericane e, come riflessione su questa, è nata la Teologia della Liberazione: sarebbe più esatto chiamarle le Teologie della Liberazione perché sono molto diverse al loro interno e la riduzione a una è dettata o da una ignoranza esterna per cui per noi, loro sono tutti uguali, oppure dalla malafede di volerla accomunare per condannare tutti. L’elemento in comune è che tutte hanno dato fastidio al sistema ecclesiale. Se ci si mette dalla parte dei poveri, si dà fastidio ai ricchi non ci sipuò mettere dalla loro parte.

E’ vero che ci saranno stati teologi della liberazione che avranno assunto in maniera un po’ troppo critica l’analisi economico-scientifico marxista, è vero che vi sono stati sostenitori della Teologia della Liberazione che hanno fatto i guerriglieri, e allora? Quanti cappellani militari e quanti benedicenti di eserciti e di gagliardetti abbiamo avuto dall’altra parte? Ciononostante non ci è mai venuto in mente di bruciare le altre teologie, né di bruciare la teologia tomista perché a questa scuola si sono formati coloro che poi hanno autorizzato la guerra giusta e tutto il resto. Alla domanda fatta a Pedro Casaldaliga, su cosa resta della Teologia della Liberazione, Pedro ha risposto “Dio è il Dio dei poveri”. Si può chiamarla come si crede, il problema non è la Teologia della Liberazione, il problema è fare teologia dalla parte dei poveri; si potrà chiamarla in maniera differente, ma resterà il compito e resterà il problema: ogni qualvolta prenderemo sul serio il Vangelo e cercheremo di leggerlo dalla parte dei poveri, questo farà riesplodere le stesse problematiche della TdL.

Oggigiorno, della TdL a livello accademico è rimasto poco, perché stanno morendo i teologi e i vescovi, ma grazie a Dio la buona notizia è che il Vangelo non lo si può riscrivere, si potranno taroccare i documenti, ma il vangelo rimane quella roba lì, che può dare fastidio, ma nessuno può cambiare. La TdL la vedo molto di più a livello di base, ad esempio in America Latina, con l’occasione dell’anniversario di Romero, è stato rifatto – dopo anni che non c’era più - un incontro Centro Americano delle comunità di base. Tenete conto che, in questo momento, la TdL inizia ad essere criticata dalla Teologia Indigena, che critica, sia pur in maniera amichevole, la TdL accusandola di essere una teologia borghese, di importazione europea. Questo è vero, infatti la Teologia della Liberazione è stata fatta, in buona parte, da missionari o comunque da gente che si era formata alla cultura europea, misconosce tutta la spiritualità indigena, tutta la questione del passo successivo al dialogo interreligioso che è quello del pluralismo religioso, misconosce tutta la questione nera e indigena e la teologia indigena non è ancora diventata famosa perché troppo piccola, non è stata condannata perché non è ancora stata percepita come pericolosa dalle alte gerarchie, ma io non escludo che nel futuro la TdL andrà a comporsi con la teologia indigena.

Da ultimo come trasmettere a diverse appartenenze. In questo caso bisogna usare il linguaggio comune e, anche se appare ridicolo ricordarlo, i documenti della chiesa sono lì apposta. Nella chiesa stiamo vivendo una schizofrenia enorme perché tanto è illuminato, avanzato e bello e buono quello che sta scritto nei documenti, tanto, a livello di chiesa, stanno facendo altro. Un mio amico, presidente della Conferenza Episcopale del Guatemala di qualche anno fa mi diceva che il modo più sicuro per farsi condannare è prendere sul serio quello che dice il Papa.

Quello che c’è scritto nei documenti, per un cattolico, dovrebbe essere accettabile e io mi immagino che se, per esempio, devo parlare ai miei parrocchiani che, in buona parte, sono di un certo livello economico e, fra di loro, vi sono degli illuminati di sinistra, non citerei mai degli intellettuali di sinistra perché scontenterei i presenti di destra e viceversa, ma se cito i documenti della chiesa, dovrebbero essere accettati sia dai cattolici di destra che da quelli di sinistra. Questa diventa una piattaforma comune sul quale leggere il presente. Sul resto della storia vedremo più avanti.

Angelo Levati

Forneletti, 7 novembre 2010