Il Natale ha portato quest’anno con sé una serie di provocazioni che aprono questioni e chiedono risposte di grande portata per tutti.
La prima provocazione è stata quella del naufragio dei migranti avvenuto la notte di Natale; se ne è accorto il giornalista Antonio Padellaro che, come usa “Il Fatto quotidiano” che chiede sempre conto ai furfanti delle loro malefatte, il 28 dicembre sul suo giornale ha chiesto conto a Dio di non aver proteso la sua mano per afferrare le manine dei bambini che affogavano nel Mediterraneo; per la risposta chiedeva a padre Spadaro, direttore della “Civiltà Cattolica”, di informarsene presso il papa Francesco. Non si era accorto però che nel messaggio natalizio il papa, ripetendo quanto aveva detto a Mytilene e in molte altre occasioni, già aveva fatto suo questo dramma invocando che non si restasse indifferenti di fronte a “immense tragedie che passano ormai sotto silenzio” quando “rischiamo di non sentire il grido di dolore e di disperazione di tanti nostri fratelli e sorelle”, a cominciare dai migranti, dai profughi e dai rifugiati i cui ”occhi ci chiedono di non girarci dall’altra parte, di non rinnegare l’umanità che ci accomuna, di fare nostre le loro storie e di non dimenticare i loro drammi”.
Ma il messaggio “urbi et orbi” del giorno di Natale si può prendere come una pietra miliare anche perché in questa occasione il papa, come nessun altro, ha fatto propri e ha chiesto di affrontare e porre fine a tutti i conflitti, le contraddizioni e le crisi in corso nel mondo intero: ed ha citato il popolo siriano, l’Iraq, i bambini dello Yemen, l’inimicizia tra israeliani e palestinesi, Betlemme, dove Gesù è nato, il Libano, il Medio Oriente, le popolazioni in fuga dalla loro patria, il popolo afgano, quello del Myanmar, colpito anche nella sua comunità cristiana e nei luoghi di culto, l’Ucraina dove si rischia che “dilaghino le metastasi di un conflitto incancrenito”, l’Etiopia, le popolazioni della regione del Sahel, i popoli dei Paesi del Nord Africa afflitti dalle divisioni, dalla disoccupazione e dalla disparità economica, i ”tanti fratelli e sorelle che soffrono per i conflitti interni in Sudan e Sud Sudan”, i popoli del continente americano perché prevalgano i valori della solidarietà, della riconciliazione e della pacifica convivenza, le vittime della violenza nei confronti delle donne, i bambini e gli adolescenti fatti oggetto di bullismo e di abusi, gli anziani, “soprattutto i più soli”, le famiglie, i malati, le popolazioni più bisognose cui far giungere i vaccini, i prigionieri di guerra, civili e militari, dei recenti conflitti, gli incarcerati per ragioni politiche, nonché le prossime generazioni perché, grazie alla nostra premura verso la casa comune, possano domani vivere in un ambiente rispettoso della vita. E tutto questo il papa non solo ha messo con la sua preghiera nella “mano di Dio” ma ha affidato alle nostre mani.
Certo se a Dio pensassimo come se dovesse fare tutto lui, la storia finirebbe e nella migliore delle ipotesi ci sarebbe solo un paradiso, “l’al di là”, ma senza l’uomo e la donna e la meravigliosa possibilità che essi hanno di fare il bene ed il male, di salvare e far crescere i bambini o di farli morire di abbandono, di miseria e di fame, di perpetrare stermini e genocidi o di dare la vita per la patria o per tutti i popoli, ciò che gli uomini possono fare in quanto sono fatti a immagine di Dio e della sua libertà, oltre ad essere una scintilla della sua ragione e della sua potenza.
Però questa concezione di un Dio tuttofare che “i post-teisti” o secondo il vecchio nome “gli atei”, definirebbero “teista”, è stata da tempo superata non solo dal cristiano riformato Bonhoeffer al prezzo del patibolo, ma dalla più accreditata teologia moderna oltre che dai Concili e dalle stesse Congregazioni vaticane; ed è un Dio ben diverso da quel modello tracotante quello nel cui nome il papa e il grande Imam musulmano ad Abu Dhabi, attribuendo alla “sapiente volontà divina” il disegno di una fratellanza universale e di un pluralismo anche religioso, hanno fatto appello a credenti e non credenti e alle loro istituzioni politiche religiose ed educative perché si facciano responsabili del bene e della pace di tutti difendendo ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi.
C’è da dire però che la concezione di un Dio “tappabuchi” e traboccante di onnipotenza non è nemmeno della Bibbia, dove certo ci sono molte pagine oggi inaccettabili, ma che non deve essere letta senza metodo critico, in modo fondamentalista e letterale, ciò che secondo la Commissione Teologica Internazionale sarebbe “un suicidio del pensiero”. Nello stesso libro di Giobbe Dio respinge le difese che di lui avevano fatto gli amici zelanti attingendo a piene mani dal repertorio biblico: Gregorio Magno, un grande predecessore di papa Francesco, li definisce “eretici”. Dice infatti papa Gregorio nel suo Commento morale a Giobbe che mentre “nella persona del beato Giobbe sono raffigurate le sofferenze del Signore e della Chiesa, i suoi amici simboleggiano gli eretici i quali, come spesso abbiamo detto, offendono Dio proprio mentre si sforzano di difenderlo”.
Spiega infatti quel grande Padre della Chiesa, nella stessa opera, che "Giobbe significa <il Sofferente>. Egli è figura autentica del Servo sofferente, di Colui cioè che si è caricato dei nostri dolori... Egli è giustamente chiamato Servo, perché non disdegnò di assumere la condizione di schiavo. E, assumendo l'umiltà della carne, non sminuì la propria maestà, perché assumendo ciò che voleva salvare e conservando ciò che era, l'umanità non sminuì la divinità né la divinità assorbì l'umanità”; divinità che non ha dunque niente a che fare con quella mondana del Dio “teista” che la modernità oggi giustamente rifiuta.
Possiamo intanto citare come ricca di speranza la visione proposta da Tomaso Montanari che, rifacendosi anche ad Hannah Arendt, parla del Natale come della possibilità che ci è data di “attendere l’inattendibile”, perché in ogni bambino che nasce si apre la speranza che “quella vita cambi tutto”, e l’ingiustizia non abbia la vittoria definitiva”; e anche riferire l'emozione di una partoriente al pensiero che la sua bambina che nasce “avrà un fratello importante e dolce come Gesù”.
Ci sono state in questo Natale altre provocazioni stimolanti, come la vittoria del giovane Gabriel Boric, venuto a liquidare l’eredità di Pinochet in Cile, la morte del grande vescovo sudafricano Desmond Tutu e quella del filosofo francese Jean Marie Muller che ci ripropongono l’uno il lascito della fraternità e dell’integrazione razziale, l’altro la lezione gandhiana della non violenza; ma c’è anche da recepire il messaggio espresso nella conferenza stampa di Putin per un miglioramento delle relazioni internazionali a cominciare da quelle con gli Stati Uniti e il giusto monito a non estendere la NATO ai Paesi dell’Est europeo portando fin sulla soglia della Russia l’intimidazione delle sue armi nucleari; e c’è anche da prendere sul serio e dare riscontro all’inatteso invito di Putin all’Italia di farsi mediatrice di buone relazioni tra la Russia e l’Occidente, in nome di una amicizia ormai consolidata. Ed è vero?
Dunque, tutto considerato, un Natale da ricordare.
Con i più cordiali saluti,
Fonte: Newsletter Chiesa di tutti Chiesa dei poveri - https://www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/