La stima e l’amicizia che da decenni nutro nei confronti di rav Laras, già rabbino capo di Milano, mi portano a interloquire con le sue riflessioni apparse sul Corriere della sera in reazione agli eventi di Parigi e rivolte come appello a tutto l’occidente. Vorrei precisare meglio cosa appartiene come necessità e compito a noi cristiani e agli ebrei, nel dialogo condiviso. In verità chi sono oggi ebrei e cristiani? Sono fratelli gemelli nati da un unico tronco, quello della Bibbia ebraica, da noi cristiani definita Antico Testamento. Nel I secolo a.C. erano diversi gli ebraismi presenti (sadducei, farisei, esseni…), ed ebrei erano anche Gesù e i suoi discepoli. Nel I secolo d.C., rispettivamente dopo la parabola storica di Gesù e dopo la distruzione del tempio ad opera dei romani nel 70 d.C., ecco affermarsi i due gruppi dei farisei (l’ebraismo rabbinico) e dei cristiani (definiti anche nazareni, galilei, minim): i primi misero al centro della loro fede la Torah; gli altri, invece, mediante una lettura del compimento delle profezie, misero al centro il Messia promesso, cioè Gesù di Nazaret, riconosciuto Maestro, Profeta, Giusto e, in virtù della sua resurrezione, Signore e Messia.
Questo il grande, originario scisma, una divisione che – come affermò Joseph Ratzinger – era legittima a partire dalle stesse Scritture interpretate in modo diverso. Gli ebrei non sono “fratelli maggiori” (espressione carica di affetto e simpatia ma teologicamente non corretta), sono fratelli che con noi condividono l’unico Padre, Dio, e i padri nella fede: Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè e David. Tra ebrei e cristiani vi è certamente un’asimmetria: noi non possiamo vivere da cristiani senza l’Antico Testamento, mentre gli ebrei possono vivere senza il Nuovo Testamento. Nel nostro dialogo, che l’apostolo Paolo arditamente definisce anche “gelosia” (Rm 11,11.14), i rapporti sono di emulazione, e per questo non facili, ma noi siamo chiamati alla riconciliazione sapendo, come scrive lo stesso Paolo, che “la loro riammissione alla fine dei tempi sarà una resurrezione dai morti” (Rm 11,15).
Ma in questo nostro rapporto c’è un tema bruciante e sul quale non pare esserci comprensione: il tema della terra e dello stato di Israele. Secondo le Scritture del Nuovo Testamento c’è un Israele di Dio che sono gli ebrei in alleanza con Dio, ma non tutto Israele è l’Israele di Dio, è discendenza di Abramo. Così come non tutti i nati in contesto di cristianità sono cristiani. È certo che spontaneamente la chiesa si sente legata agli ebrei credenti, i quali sono con Dio in un’alleanza mai revocata e ne vivono le esigenze, ma non identifica questa alleanza, che appartiene all’ambito della fede, con una dimensione etnica, culturale o politica. Noi cristiani, che non abbiamo più terra né patria perché ogni terra straniera è per noi patria – come si legge nell’A Diogneto, uno splendido testo delle origini cristiane –, essendo cittadini del mondo in grado di fare scelte politiche, possiamo volere o non volere lo stato di Israele, ma teologicamente non abbiamo parole in
merito. Ciò non significa lasciare gli ebrei a metà del guado. Personalmente mi auguro al più presto la presenza di uno stato di Israele e di uno palestinese, in pace tra loro e riconosciuti dal mondo, ma teologicamente la mia fede non mi autorizza a ipotizzare uno stato di Israele.
Ed è complementare a questa riflessione pronunciare una parola sugli eventi dell’ultima settimana. Abbiamo parlato troppo e non sapevamo ciò che dicevamo: parole come armi, parole in guerra, disprezzo lanciato verso l’Islam…
Abbiamo sfigurato una religione, l’Islam, l’abbiamo confusa con estremismi che fanno riferimento a essa, ma che non sono molto diversi da quelli presenti ancora oggi in diverse religioni e in ideologie non religiose. Certo, abbiamo la consapevolezza della natura manipolatrice del fondamentalismo, sappiamo che non costa nulla appropriarsi di Dio come di una bandiera (e che Dio sarà quello nella mente dei terroristi?), sappiamo che non è vero che tutti i musulmani sono inclini alla violenza. Sappiamo anche che per ora non c’è uno scontro di civiltà, cioè non si combattono Islam e cristianesimo, non c’è una guerra in corso e dichiararla tale è irresponsabile. C’è invece un terrorismo che si dice ispirato dall’Islam, che individua come nemici alcuni luoghi o soggetti precisi dell’occidente e che miete anche numerosissime vittime musulmane in Medioriente.
Oggi più che mai occorre responsabilità, occorre razionalizzare le paure che ci invadono e non lasciare che siano cavalcate, con l’effetto di accrescerle e renderle ingovernabili, da parte di forze politiche barbare e pronte a dichiarare guerra perché solo se hanno di fronte un nemico, a costo di crearlo, trovano una forte identità che non hanno in se stesse, sprovviste come sono di umanesimo. Il recente discorso del presidente egiziano Al Sisi all’università al-Azhar del Cairo ha tracciato per i musulmani una via che contiene molti spunti e domande. Vogliamo aiutare questi fermenti, vogliamo fare qualcosa perché si apra un cammino diverso, all’insegna dell’ascolto e del rispetto reciproco? Perché non cominciare dal precetto universale della regola d’oro: “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”, magari vietandoci caricature offensive verso l’islam, coniugando la nostra libertà con il rispetto per l’altro, soprattutto in quest’ora storica in cui ci sentiamo minacciati da un terrorismo che ricorre al nome di Dio e si pretende islamico? È vero: una caricatura,
anche offensiva, non può mai essere vendicata con la violenza e l’omicidio, questa è barbarie criminale! Ma con la metafora della reazione spontanea del pugno sferrato a chi offende la madre, papa Francesco si è fatto capire dalle persone più semplici e quotidiane.
Ora, se è vero che ebraismo e cristianesimo sono innanzitutto fedi e non soltanto religioni, occorre riconoscere anche all’Islam la capacità di essere una religione avente al proprio cuore la fede. L’unica cosa che mi sento di dire – e uso le parole di Marcel Gauchet – è che “il cristianesimo è la religione che richiede l’uscita dalla religione”, perché capace di una critica, di una distanza dalla stessa religione. Nel cristianesimo, infatti, non è il libro a essere al centro, ma un uomo, Gesù Cristo, che i cristiani confessano Signore e che è morto condannato proprio per le sue prese di posizione che rompevano con la religione esistente. In questo rapporto tra religione e fede, rapporto che il cristianesimo ha saputo mettere a fuoco e distinguere, resta vero che l’Islam, nella sua non contemporaneità con la nostra cultura, ha una lenta
evoluzione e deve fare ancora un lungo cammino di confronto con la modernità, cioè con la critica letteraria e teologica degli scritti sacri in primo luogo, ma anche con la razionalità umana, esercizio assolutamente necessario per purificare ogni religione. D’altronde gli stessi ebrei “religiosi” di Mea Shearim, una minoranza significativa, non hanno ancora elaborato la possibilità di uno stato che non sia teocratico e di una legge civile distinta da quella religiosa… E analoga tentazione colpisce ancora frange fondamentaliste di cristiani americani.
C’è un cammino da fare da parte di tutti e tre i monoteismi che nel passato, pur in forme, modi e intensità diversi, hanno combattuto guerre di religione, hanno perseguitato gli eretici, sono stati intolleranti. In questo cammino è urgente una diversa lettura interpretativa dell’Antico Testamento e del Corano, soprattutto nelle pagine cariche di violenza e di vendette minacciate e consumate. Né va dimenticato che nel corso della storia anche alcune pagine del Nuovo Testamento hanno conosciuto interpretazioni violente e intolleranti, divenute prassi violente e intolleranti. Quanto al rapporto tra ebrei e cristiani – che non può essere paragonato a quello con l’Islam o con le altre religioni perché di natura intrinseca e ineludibile – occorre restare sempre vigilanti per non giudaizzare da parte dei cristiani e per non cedere.
Fonte: La Stampa, 18 gennaio 2015
Segnalato da Angelo Cpuni - Comunità di via Gaggio (Lecco)