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Insegnare a scuola la storia del novecento. Intervista ad A. Bravo e E.Gruppi


Pubblicato su "Voci e volti della nonviolenza", n. 140 del 26 gennaio 2008 (autore Una città)
Come insegnare la storia del Novencento a scuola, senza cadere nella facile retorica o nell'ideologismo. Riportiamo questa intervista a Anna Bravo e Eugenio Gruppi fatta dai giornalisti del sito "Una città" - "Una città": Partiamo dalla difficoltà a parlare dell'ultimo Novecento a scuola. È possibile senza rischiare di "fare politica" o di "essere ideologici"?

- Eugenio Gruppi: Non c'è dubbio che tra gli insegnanti questo ha provocato varie perplessità e resistenze, sia perché - si dice - la storia antica e medievale non viene più fatta bene, perché in due anni devono far tutto, sia perché è difficile fare storia su vicende così vicine senza essere troppo condizionati ideologicamente. Quindi può essere interessante sapere se voi, facendo questo manuale, avete avvertito difficoltà di questo tipo. Se, per esempio, avete avuto dei problemi ad affrontare alcuni temi del '900, particolarmente controversi, tipo il totalitarismo sovietico, oppure se, per quanto riguarda l'Italia, si possa arrivare perfino agli ultimissimi anni, al travagliato passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Ho notato che nell'ultimo capitolo voi, secondo me molto giustamente, fate un tentativo di aprire degli scenari, di indicare delle prospettive più che non, appunto, pronunciarvi direttamente sull'attualità.

- Anna Bravo: Intanto la questione degli ultimi anni: a me sembra insensato che si pretenda di fare storia sui fatti dell'altro ieri, per di più in poco spazio e con pochi libri seri da mettere a disposizione degli studenti; i manuali dovrebbero finire agli anni '80, però lì non c'è possibilità di trattativa, sono i programmi ufficiali e chi fa un manuale deve comunque introdurre anche quei periodi.
Quello che abbiamo cercato di fare è proprio quello che dice Eugenio: dare più spazio sia agli scenari sia ai fenomeni che si presume abbiano più respiro, che si riallacciano all'indietro e promettono di andare avanti, tipo i movimenti nati con Seattle (senza idealizzarli, ma intanto continuano), oppure l'immigrazione, i problemi demografici, le religiosità varie che si stanno espandendo, a cui abbiamo dedicato un capitolo intero.
Riguardo alla difficoltà che si crea per i secoli passati, sono d'accordo: è molto discutibile la scelta di restringere l'800 a dei nodi problematici o di sacrificare tanto Medioevo e tanta Età Moderna, perché, per esempio, alcuni grandi cambiamenti che riguardano le donne vengono da lì, sono di fine '700 - inizio '800, e allora si rischia di non capire più nulla.
Sullo spazio da dare al totalitarismo sovietico: noi abbiamo dedicato molte pagine non solo alla teoria, ma alla costruzione dell'apparato repressivo, allo sterminio dei kulaki, al Gulag, alla tragedia dell'industrializzazione forzata; non so se siamo riuscite ad avere un approccio non ideologico, ci abbiamo provato usando fonti garantite per la loro serietà. Posso dire che abbiamo rifiutato una valutazione dei crimini del comunismo "attraverso l'intenzione", cioè, per dirla brutalmente: il nazismo aveva intenzioni criminali fin dall'inizio, il comunismo aveva originariamente intenzioni buone, poi è degenerato. Ho paura di questo criterio di valutazione, non perché le intenzioni non fossero diverse, ma perché questo non mi sembra sufficiente per guardare con occhio diverso le due esperienze, con più "comprensione" per il comunismo. So che possiamo essere accusate di mania comparativistica, a me però sembra che sia mania quella opposta, che scomunica la comparazione, una vera fobia. Se vuoi fare storia devi per forza comparare, che vuol dire cercare sia le somiglianze sia le differenze, devi cercare le connessioni; solo dopo si può dire se la comparazione è utile o fuorviante.

- "Una città": L'impressione che si ha sfogliando i manuali è che prevalga l'idea che non poteva andare diversamente, che la sequenza degli eventi è ineluttabile...

- Anna Bravo: Una delle nostre preoccupazioni principali è stata far capire che le cose non dovevano andare per forza come sono andate. C'è ancora in giro un senso comune determinista che produce effetti mortiferi. I manuali fino ad alcuni anni fa titolavano: "Le cause della prima guerra mondiale", non le origini, sempre le cause: in questo modo le responsabilità collettive, istituzionali, personali, scompaiono, tutto sarebbe parte di un ingranaggio, l'individuo sarebbe agito dall'ambiente, dalla società; tutte le azioni umane si spiegherebbero in termini di meccanismi sovrapersonali, che tolgono completamente lo spazio per la libertà e la responsabilità personale. Ecco, volevamo fare un manuale di storia, per quel poco che può servire, che mostrasse in primo luogo come a situazioni analoghe le persone, le istituzioni, i governi, reagiscono in modo diverso; in secondo luogo, che il peso delle scelte personali è importante, a volte decisivo. Se si sostiene che in determinate condizioni oggettive non può che prodursi quel certo evento, in un rapporto di causa-effetto, non si capisce perché uno dovrebbe muovere un solo dito. È un modo di pensare e di raccontare orribile: se non hai cura di far vedere, soprattutto alle persone giovani, gli spazi per l'iniziativa personale che erano disponibili in una data fase, poi oggi cosa gli chiedi di fare? Niente! E invece persino durante il nazismo in Germania c'è chi consente o tollera, ma c'è anche chi invece si oppone, "sventa", salva.

- Eugenio Gruppi: Sì, si tratta di far cogliere la complessità dei fatti. Non è mai possibile una spiegazione monocausale, sulla base di un unico fattore. Questa prevalenza della causalità è particolarmente rischiosa con gli studenti per due motivi: perché hanno bisogno di certezze e quindi si attaccano volentieri alla causa, perdendo così di vista la complessità dei fattori e la possibile varietà delle reazioni, delle scelte in quelle situazioni o in situazioni analoghe; dall'altro lato, il rischio è di ridurre lo studio della storia al ricordo ossificato di una serie di fatti più importanti, il che li porterà a una difficoltà grave quando questi fatti dovranno in qualche modo interpretarli, capirli. Questo poi si lega a un discorso più generale di approccio critico, anche, almeno per i fatti più importanti: far vedere come lo stesso fatto può essere spiegato con ottiche molto diverse, a seconda del tipo di analisi che lo storico propone, il che non significa che allora una vale l'altra, ma appunto che ci sono una serie di criteri in base ai quali possiamo orientarci. C'è il rischio che quello che leggono sul manuale lo prendano per la storia, cioè l'unica storia possibile. Che su queste cose si litighi, si continui a litigare, si continuino a proporre interpretazioni diverse è una cosa comprensibile anche a ragazzi di sedici, diciassette anni.

- Anna Bravo: Sono d'accordo, occorrono degli assi tematici e cronologici che diano la percezione di come le cose cambino o non cambino, vadano avanti oppure indietro, sennò si rischia di ridurre la storia a tante individualità che fluttuano nel vago. Credo che nel manuale abbiamo messo in luce questi assi, almeno lo spero, perché io a volte tendo ad esagerare nel sottolineare l'aspetto della soggettività, ma lo faccio anche perché i discorsi deterministici finiscono per cancellare quelli che hanno perso, per far sembrare che non abbiano fatto storia...

- Eugenio Gruppi: Sempre legato a questo problema, di far capire che si parla di vicende successe a persone reali e non a personaggi storici, il fatto che voi abbiate scelto un taglio che si può definire narrativo credo sia stata una scelta giusta, perché ci sono manuali che per la preoccupazione, anche condivisibile, del rigore scientifico, propongono appunto, un'analisi talmente specialistica che, secondo me, dà proprio l'impressione che la storia non parli di persone reali, di esseri viventi seppure nel passato.

- Anna Bravo: Io spero sempre che se tu descrivi narrativamente la vita di persone vissute nel passato, ci sia un processo di avvicinamento, di immedesimazione, che può scattare anche verso esperienze sentite come molto diverse, e allora prende la forma della curiosità; ho grande rispetto del ragionamento e del sentimento analogico, che sono una componente primaria della comparazione. Poi si deve arrivare anche a distanziarsi, è ovvio, e il docente ha tutti gli strumenti per indirizzare la comprensione, e anche così si arriva a una solidità culturale. Ma se non c'è il momento dell'immedesimazione, i giovani, e non solo loro, si stufano subito.

- Eugenio Gruppi: Voi sottolineate in un modo diverso rispetto a tutti gli altri manuali il ruolo delle donne nella storia. Questo è anche un modo per spingere gli studenti a interrogarsi sul rapporto tra la conoscenza storica e la loro capacità di giudicare la vita quotidiana, a partire proprio dalla situazione in cui si trovano loro. Come ben sappiamo, il problema del rapporto fra i sessi, in una classe mista poi, viene fuori tutti i momenti.
Quindi avere un'idea della dimensione storica del problema diventa importante, anche appassionante. Per esempio, facendo la rivoluzione francese io sottolineo il fatto che quando là si parla di suffragio universale si parla sempre e solo di maschi, perché i giacobini non si sognano nemmeno di pensare alle donne e la povera de Gouges viene subito fatta fuori. Questo per dire che ci sono, appunto, alcune tematiche di fondo su cui il manuale può aiutare ad attualizzare una questione, un fatto o un fenomeno storico.
Bisogna anche guardarsi dalla tentazione di stabilire delle relazioni improprie, molto raffazzonate, tra il passato e il presente: tu devi riuscire a sfruttare tutte le relazioni possibili cercando di dare, nello stesso tempo, un minimo di dignità storiografica. Bisogna rendere i ragazzi consapevoli che c'è un nesso anche fra avvenimenti lontani e problematiche attuali e che, però, questo nesso non è così immediato, bisogna saper contestualizzare le situazioni differenti.

- Anna Bravo: Riguardo all'osservazione di Eugenio sull'utilità di dare spazio alle diverse interpretazioni storiografiche, credo che sia importante spiegare "chi dice cosa", chi c'è dietro le interpretazioni, quale è la soggettività di chi scrive. Faccio un esempio che riguarda proprio le donne: le interpretazione opposte sul rapporto fra rivoluzione industriale e comportamenti sessuali.
Ci sono dei dati che dicono che tra fine '700 e fine '800 i tassi di illegittimità e le gravidanze prematrimoniali crescono moltissimo. Uno storico canadese, Edward Shorter, lo interpreta come l'effetto di una "rivoluzione sessuale": secondo lui sono le giovani operaie, ex contadine inurbate, che si emancipano e saltano allegramente da un letto all'altro. Questo storico chi è? È un signore rispettabile, maschio, progressista, che ha stampata nella sua testa l'ideologia che la libertà delle donne coincide con la loro disponibilità sessuale. Arrivano altre due studiose, Joan Scott e Louise Tilly, guardano gli stessi dati e dicono tutt'altro: spiegano che queste donne che andavano a lavorare in città, a parte che facevano quasi sempre le domestiche e non le operaie, in realtà restano incinte perché continuano a comportarsi come usava nelle campagne, dove si faceva all'amore prima del matrimonio, ma poi, se l'uomo avesse mollato la ragazza, interveniva una rete di protezione e di controllo (la famiglia, la chiesa, la comunità) per costringerlo a sposarla. Le ragazze anche in città fanno all'amore aspettandosi e sperando di essere sposate, ma nel nuovo contesto sono molto più vulnerabili perché le vecchie reti di protezione in città non esistono, e gli uomini possono abbastanza tranquillamente fare a meno di sposarle. L'illegittimità per Scott e Tilly non è per niente un segno di liberazione sessuale, è il frutto di matrimoni mancati, che si sperava avvenissero e non avvengono. E questo chi lo dice? Lo dicono due storiche, due donne che, fra l'altro, hanno anche conosciuto la fase della cosiddetta rivoluzione sessuale degli anni '60 e '70, in cui, di nuovo, la libertà delle donne veniva misurata sulla loro disponibilità sessuale, mentre invece poteva esserci più libertà nel dire di no.
Questo esempio l'ho scelto anche perché ti induce a non fermarti davanti a un dato, ma a indagare, a interrogarti. Per esempio, Shorter dice che guadagnare un salario era decisivo per l'emancipazione; e si ferma lì. Scott e Tilly vanno avanti e scoprono che le ragazze questo famoso salario lo mandavano spesso alla famiglia di origine, in campagna, e dunque non era così emancipativo in quella fase; lo sarà dopo. Ecco un caso dove si vede che i mutamenti nei vari settori possono avere tempi diversi, per le abitudini sessuali sono stati tempi più lunghi; è anche un caso che introduce, mi sembra senza forzature, un tema che ha una rilevanza per la mentalità di oggi. Certo la lettura di Scott e Tilly ridimensiona l'immagine di avanguardia del nuovo che Shorter assegna alle giovani operaie, ma libertà può anche essere la resistenza ad adattarsi alle logiche nuove della società industriale, anche se quella resistenza può avere conseguenze negative...

- "Una città": A proposito di interpretazioni controverse tu fai anche l'esempio del nazismo presentato come regime natalista...

- Anna Bravo: Sì, in vari manuali e anche in testi di divulgazione il nazismo è presentato come un regime pro-natalista. Andando invece a vedere la vita delle donne, si scopre che tutte le provvidenze pro-maternità sono date alle cosiddette "ariane", preferibilmente sane e sposate. Già nel '33 c'è una legge e una politica demografica che puntano a impedire o disincentivare la natalità di quella parte della popolazione tedesca che non viene giudicata adatta a diventare razza dominante, e cioè le persone malate di mente, quelle che hanno malattie ereditarie, ma anche quelle che non sono ben "inquadrate" socialmente. Gli eugenisti tedeschi fissano proprio le quote: la percentuale di tedeschi "sani" va incrementata del 30%, cioè le madri "pregiate" dovrebbero avere 4 figli; la parte "scadente", che sarebbe il 20% della popolazione, almeno un milione e mezzo di persone, non deve riprodursi. E lo si mette in pratica con le sterilizzazioni "eugenetiche" e gli aborti forzati. Le donne ebree sono il prototipo delle donne "non pregiate". Allora, se si dice che il nazismo è "pro-natalista", si accredita l'autoimmagine del nazismo stesso; i nazisti si consideravano pronatalisti perché favorivano le nascite auspicabili; ma erano ferocemente anti-natalisti per una grossa percentuale di donne, e non solo ebree. Se si usa la categoria "genere", si può arrivare a correggere assi portanti delle interpretazioni, questo del nazismo è uno dei casi più vistosi di capovolgimento. D'altra parte, la stessa nascita del nazismo non si capisce fuori da un'ottica di genere, perché è vero che le donne erano complici, responsabili anche loro, ma è altrettanto vero che il partito aveva una composizione in grandissima parte maschile. Ci sono tante ragioni, ma credo conti molto il fatto che gli uomini di classe media e classe operaia, negli anni della crisi, dal '29 in avanti, anni di disoccupazione e miseria spaventose in Germania, non riuscivano più a mantenere la famiglia. Magari guadagnava la moglie andando a servizio, ma il maschio capofamiglia aveva perso quelle sicurezze e quei ruoli che fanno l'immagine dell'uomo rispettabile, che porta il pane a casa. E quando comincia a dilagare la sensazione che non puoi risolvere il problema a livello personale, che per quanto ti sbatterai la famiglia non riuscirai a mantenerla, o, se sei giovane, che non potrai sposarti, sarai più portato a sostenere un partito che promette di risolvere la situazione a livello generale; tanto più che, allora, socialisti e comunisti si combattevano tra loro, i moderati non si contrapponevano affatto a Hitler, quindi non è che ci fossero alternative chiare. Anche la violenza diffusa in quegli anni è sintomo di questa crisi maschile. È un aspetto questo che Simone Weil aveva capito benissimo già nel '33, gli altri no.

- "Una città": C'è anche il rischio di una sacralizzazione degli eventi storici. Certi eventi, in particolare quelli considerati fondativi, vengono spesso trasfigurati, mitizzati. Ne hai parlato a proposito dell'immagine della resistenza, simboleggiata nel maschio giovane in armi, ma questo aspetto marziale maschile è molto presente anche nella storiografia in generale. Tutto questo, oltre che essere profondamente sbagliato, certamente non aiuta a "far lavorare" i ragazzi...

- Anna Bravo: Se parliamo di eventi fondativi, che tu parta da Caino e Abele, o dalla fondazione di Roma o dalla Rivoluzione Francese, stiamo considerando sempre fatti di violenza fisica, poi armata, poi militare, che stanno dentro il circuito simbolico del maschile. Io non ricordo uno stato che abbia alle radici qualcosa di associabile al femminile; solo l'India, e solo in parte. Magari in alcuni casi una radice diversa c'è, ma la rappresentazione ufficiale è ancora sempre di quell'altro tipo: battaglie, guerre; lo schema è sempre quello della violenza che fonda o rifonda, riscatta... Per questo abbiamo tentato di far vedere come usare il genere significhi molte cose legate fra loro: decostruire storicamente la mascolinità e la femminilità, fare la storia delle relazioni uomo-donna, e anche rileggere la politica, i discorsi del potere, le ideologie.
Nel manuale ho scelto l'esempio della Danimarca, su cui ci sono visioni opposte a seconda dell'orizzonte simbolico di chi guarda: indicato come esempio di passività, quello danese è invece uno dei popoli che si comporta meglio nella seconda guerra mondiale.

- "Una città": Puoi spiegarcelo?

- Anna Bravo: La Danimarca è uno dei paesi che non rispondono sul piano militare all'occupazione nazista; del resto c'è una enorme sproporzione di forze, e il suo governo, pur protestando, resta in carica e accetta di "collaborare". Una scelta giudicata così male che era invalsa l'espressione "sdraiato come un danese", e non per caso era un'evidente metafora sessuale: "sdraiato", come una donna, perché non ha preso le armi e non ha combattuto. Ma le cose sono molto più complicate. La Germania aveva firmato un memorandum dove prometteva di non mettere in discussione l'indipendenza politica danese. Ebbene, il governo lo prende alla lettera, e ogni volta che i tedeschi fanno qualche richiesta, adotta una strategia di dilazione e di diversione, sempre richiamandosi a qualche punto del memorandum. Nel '42 quando i nazisti vogliono introdurre leggi razziste, il governo ribatte che così si violerebbe il memorandum, perché la Costituzione danese statuisce l'uguaglianza di tutti i cittadini e qualsiasi attacco agli ebrei danesi è un'ingerenza negli affari interni. I danesi sapevano bene che quella promessa non era una cosa seria, però fingevano che lo fosse, giocando su questo fino al limite. Hannah Arendt ne La banalità del male dice che c'era un tale rifiuto da parte della popolazione e delle istituzioni di accettare leggi razziste, di fare discriminazioni, che persino le autorità naziste in Danimarca ne erano "contagiate", che anche i più feroci si "ammorbidivano"; e infatti Hitler deve cambiare più volte i comandanti. Poi nel '43, quando i tedeschi cominciano con gli arresti, tutto il paese, comprese le istituzioni, si mobilita per portare segretamente in Svezia i "suoi" ebrei, che si salveranno in gran parte; e sono invece parecchi i poliziotti danesi che finiscono nei Lager perché avevano rifiutato o sventato l'arresto di ebrei. È stata la più grande azione di salvataggio di tutta la storia della persecuzione antiebraica.
Sarebbe stato questo il popolo "sdraiato"? È invece un popolo capace di fare una cosa che sembrava impossibile, e infatti non era mai stata pensata, un'azione nuova, "imprevista". Hannah Arendt opera un vero rovesciamento di giudizio sull'atteggiamento danese, a volte quasi enfatizza troppo, sembra come innamorata, e lo sono anch'io. Il fatto è che se ti sposti dal vecchio retroterra simbolico, ti accorgi che tutto cambia, e magari cambia in un minuto, non ci vogliono anni, anzi se capita capita subito; e vengono in primo piano valori come la fierezza della vita, il coraggio morale, le virtù quotidiane e le virtù eroiche di Todorov, e scopri un popolo che si oppose al razzismo in modo creativo e operativo, salvando le persone; e questo popolo diventa un'avanguardia di quella parte della lotta al nazismo che è consistita nello strappargli il maggior numero delle sue prede.
Perché non si può misurare il contributo di un popolo o di un gruppo politico alla lotta antinazista solo sul numero di quelli e quelle che sono morti combattendo con le armi. Gli eserciti, e spesso anche i movimenti di resistenza, si preoccuparono poco di salvare gli ebrei, la loro salvezza e quella degli altri deportati era vista più come un risultato della guerra vittoriosa che non come un obiettivo.
Non so quanto in Danimarca fondino la propria identità nazionale su quei fatti; se fosse così sarebbe uno dei pochi casi in cui un tratto caratterizzante di un popolo non è legato alla figura dei giovani maschi in armi...

- Eugenio Gruppi: Dei giovani d'oggi si può certamente dire che sono molto refrattari ad approcci retorici o mitizzanti, per cui, per esempio, è molto più efficace un discorso che sappia operare questa ricollocazione, che riesca a far capire loro cosa voleva dire vivere in quel momento, che, certo, non è la stessa cosa del vivere di adesso. Quando si riesce ad attivare questo sforzo di capire la distanza temporale e nello stesso tempo, però, la realtà nazionale, la cosa funziona. Il problema è che non sempre è facile farlo. Questi aspetti direi che sono quelli che interessano di più: ad esempio quando si tratta la prima guerra mondiale, più che sugli aspetti strettamente bellici, interessa molto la guerra di trincea, cosa significava vivere nelle trincee... anche perché, poi, si capisce il salto di qualità nel modo di concepire il conflitto.

- Anna Bravo: Fra l'altro la mitizzazione è narrativamente povera, è una brutta copia del mito. Ci sono molti libri sulla resistenza che sono convenzionali ed eroicizzanti, che non rendono onore ai protagonisti; è comprensibile che poi le persone di 15-18 anni non li leggano... Forse leggono di più altri libri - penso a Fenoglio o Meneghello - più legati alla vita quotidiana, libri che fanno posto ai dubbi delle persone, alle incongruenze, alle cadute di tensione - e anche alla felicità. Per quel che riguarda la grande guerra, puoi descrivere tutto lo scenario politico e militare, però poi gli devi dire cosa succedeva alla gente nelle trincee, devi fare questa "immersione" nell'esperienza soggettiva; chi legge deve poter vedere se e come un dato concetto gli serve a capire quell'esperienza.
Per fortuna che sulla grande guerra ci sono anche cose talmente belle! Basta leggere la lettera di qualche soldato...

- "Una città": Anche la capacità di comparazione è importante per poter lavorare sulla storia. L'esempio che hai fatto è illuminante. A proposito della Shoah, tema di cui non si può non parlare in un manuale del '900, c'è chi pensa che comparare comporti il rischio di relativizzare, di sminuire, di desacralizzare. Voi come avete fatto?

- Anna Bravo: Basterebbe capire che si comparano cose differenti. E invece da alcuni la comparazione viene considerata revisionismo. Ma se un evento, parlo della Shoah, viene considerato fuori dalla storia, come pensano alcuni ed alcune, si rischia di spostarlo su un piano metafisico, non si capisce più come si possa affrontarlo con le categorie della storia. C'è una contraddizione fortissima sulla Shoah: se parli della presenza di forme simili rischi di intaccare l'unicità di alcuni suoi aspetti; se insisti sul suo carattere irripetibile finisci per indebolire la sua funzione di denuncia: se è irripetibile, non contano più le cose che può insegnarci.
Tra poco in Italia uscirà un libro intitolato Le donne nell'Olocausto, che è stato criticato da alcuni storici americani perché secondo loro non solo non bisogna comparare, ma neanche disaggregare l'universo delle vittime; la sofferenza sarebbe la stessa per tutti, e una ricerca sulla Shoah che lavori sulle esperienze maschili e femminili sarebbe inopportuna e addirittura impossibile. È assurdo, perché se è vero che il razzismo prevale sul sessismo, è anche vero che non lo si capisce senza guardare al sessismo.
Credo che ci sia poi un altro motivo, non esplicitato: se ti metti a studiare le donne, vedi che in Germania nei primi anni, dopo le primissime misure razziste, e anche all'est nella fase iniziale dell'occupazione, c'era tutto un lavorio soprattutto femminile per far continuare la vita, facendo lavori di ogni tipo, comprando alla borsa nera e nei ghetti facendo contrabbando, aggiustandosi a cucinare con pochissimo, cercando di avere notizie dei parenti arrestati e prodigandosi in mille modi perché li rilasciassero, talvolta anche riuscendovi e, prima ancora, c'era lo sforzo di rendere l'atmosfera domestica vivibile, di tenere su il morale di tutti.
Secondo me questi storici temono che parlare di questi aspetti dia l'idea di una vita in qualche modo praticabile, e temono che si finisca per confrontare il comportamento delle donne ebree con quello delle donne di tutta Europa, scoprendo che spesso facevano cose simili, sia pure in condizioni enormemente meno tragiche.
Temono che questo banalizzi la Shoah, e non si rendono conto che casomai è vero il contrario: sapere che le donne italiane facevano alcuni gesti e azioni simili a quelli delle donne ebree è una cosa che dà valore alle italiane, alle tante signore Adele o Lucia che correvano al Comando SS: "Voglio mio marito, voglio mio marito!", piangendo e urlando, e a volte glielo restituivano; e non toglie nulla a quello che facevano le donne ebree, anzi... Negli anni '50 fra i giovani israeliani c'era chi diceva che gli ebrei dell'est erano andati a morire "come pecore al macello". Una cosa infame. Anche là, c'era uno Stato che inizialmente si voleva fondare solo sulle minoranze combattenti, sulle rivolte nei ghetti... Ma se questi giovani avessero saputo che cosa si inventavano le donne, ma anche certi uomini, per riuscire a sopravvivere, altro che parlare di "pecore". Anche negli Stati Uniti ci sono delle rigidezze... i crimini nazisti e le sofferenze delle loro vittime non si potrebbero comparare in assoluto, e questo è vero per i campi della morte, che in realtà non erano campi, erano fabbriche istantanee di cadaveri. Ma non vale inevitabilmente per tutto: Lager e Gulag si possono comparare senza banalizzazioni, e anche rispetto alla deportazione politica nei Lager nazisti, quella degli ebrei deve essere distinta, non necessariamente separata. Mi interessa molto la posizione degli studiosi che dicono che il confronto fra Auschwitz e altri crimini non solo non parifica Auschwitz agli altri, non solo non lo banalizza, ma può anzi aiutarci a non riconciliarci con altri eventi intollerabili. Abbiamo dedicato un intero capitolo alla Shoah perché è il massimo spartiacque del secolo, e perché le connessioni sono tante che il rischio di essere grossolani c'è sempre, e peggio che mai se si riduce lo spazio.

- "Una città": Mi sembra di capire che uno dei rischi più gravi per te sia quello di non vedere più le sfumature, le tonalità all'apparenza minori, che il rischio sia di estremizzare. Effettivamente se io penso a quello che sapevo dell'Algeria (dico l'Algeria perché ultimamente ce ne siamo occupati di nuovo dopo che da giovanissimi tutti ci eravamo entusiasmati per la rivoluzione) un pò inorridisco...

- Anna Bravo: Ti riferisci al fatto che uccisero dei moderati... Questa è una delle tragedie di tanti movimenti di liberazione nazionale, che spesso mettono subito ai margini o addirittura spazzano via i connazionali moderati. Noi trent'anni fa non lo sapevamo, ma in Algeria come si afferma e si compatta l'Fnl? Ci sono tante ragioni, quella di fondo è che la Francia faceva stragi e torturava, ma conta anche il fatto che i moderati non c'erano più, o non contavano più niente; erano stati il bersaglio sia dei francesi sia dei rivoluzionari algerini. Questo è un copione che sembra ripetersi regolarmente nella storia: i primi da far fuori sono i moderati del proprio schieramento. Adesso in Macedonia la maggior parte della popolazione, chiamiamola "maggioranza moderata", vuole vedere riconosciuti i suoi diritti, non vuole il precipitare nello scontro armato, ma poi arrivano questi che sparano e chissà che cosa non succederà.
Ma lo stesso è stato in Rwanda, in Kossovo, dove i collaboratori di Rugova furono fatti fuori sia dai serbi che dall'Uck, perché erano fra i pochi che potevano opporsi alla barbarizzazione e alla militarizzazione. La linea delle forze radicali è stata quella di spazzare via i moderati, di far mancare l'interlocutore, il possibile mediatore.
Purtroppo noi abbiamo per anni e anni considerato i moderati come un elemento negativo: "Sei un moderato?!" era un offesa, quasi... Se dovessi rifare adesso questo manuale, farei un capitolo sui modelli di rivoluzione per comparare nei diversi casi il ruolo dei radicali e dei moderati... e rinuncerei a un pezzo sulla Grande guerra per spiegare meglio come si sono svolte le crisi precedenti, quella marocchina, le guerre balcaniche, cosa è stato fatto per arginarle e non arrivare a una guerra generale. Qualsiasi altra cosa abbia giocato, lì c'è stata evidentemente anche una componente di moderazione, di maggiore responsabilità: come, perché? Rimpiango di non aver approfondito, lo farò...
Guarda, il problema dei "moderati" riguarda anche il problema delle tregue durante la resistenza. Fino a dieci anni fa parlarne sembrava una cosa inopportuna, perché le tregue, secondo molti, non erano praticamente esistite, oppure erano state fatte in funzione anti-comunista, dai badogliani, che si mettevano d'accordo con tedeschi e fascisti per indebolire i comunisti. Il che spesso era vero, però era vero anche che in certi casi le tregue erano state fatte perché una fabbrica era piena di merce e non si poteva farla uscire dal territorio, e gli operai sarebbero stati mandati a casa e la gente avrebbe fatto ancora più la fame. Spesso era per dare un pò di respiro all'economia, alla società, e in quell'ottica una tregua era una cosa positiva, fatta per "salvare il salvabile", per contenere il danno.
Non si è dato abbastanza valore a questi tentativi, per decenni, e anche adesso, se ne parli a un convegno nessuno ti attacca, ma nessuno riprende il discorso. Io penso avessero un enorme valore progressivo. Per me quelli che le promuovevano o le accettavano erano grandi partigiani e grandi persone.
Non si spara per venti giorni? Cosa cambierà nei destini del mondo, nell'immagine internazionale dell'Italia, se in una vallata non si spara per venti giorni? Questo non vuol dire togliere valore alla resistenza armata. Vuol dire che se si crea uno spazio per ridurre il danno senza rinunciare alla lotta bisogna sfruttarlo: se tu per fare in modo che la gente soffra meno, lasci uscire le merci, cosa sarà mai? Dopo puoi sparare anche più di prima, se è necessario. Quello che mi dà fastidio è la svalutazione programmatica e generale delle tregue e della moderazione, che fra l'altro non coincide con le appartenenze politiche, è trasversale. C'erano dei "moderati", fra i partigiani, che decidevano: in questo caso non attacchiamo i nazisti, perché poi si scatenano contro la popolazione... Non è mancanza di combattività rinunciare. Perché i responsabili sono e saranno sempre i tedeschi, è ovvio, tanto più che hanno disseminato stragi anche dove la resistenza non c'era, però non si può neanche negare che esista un rapporto fra alcune azioni partigiane e alcuni eccidi. Ma ci fu anche chi disse: lasciamo stare.
Nell'astigiano, ma non solo lì, c'erano formazioni partigiane che si limitavano a difendere il proprio paese; erano formazioni di ex militari e di giovani del posto che quando arrivavano i tedeschi cercavano di respingerli per difendere le loro case, e anche i loro vitelli, quando glieli volevano requisire. È vero che avevano un'ottica localista, che non avranno dato un grande contributo alla lotta armata, però non è il caso di cancellarli. Quelle sono anche le zone in cui i partigiani sono più amati, anche quelli di formazioni che certo non si limitavano all'autodifesa, anzi, però anche in molti di loro c'era questa cura del proprio territorio, anche in giovanotti molto spericolati, che pensavano che la bellicosità fosse un valore... e nell'immaginario popolare sono rimasti come quelli del luogo che ti salvano...

- Eugenio Gruppi: Secondo me è utile far capire agli studenti, senza appunto cadere in nessun relativismo perché ti tieni ancorato ai fatti, anche il punto di vista dei "cattivi". Per fare un esempio lontanissimo, quindi meno ideologicamente connotato, quando facevo il Medioevo e l'Inquisizione, io sottolineavo sempre che gli inquisitori torturavano e poi bruciavano gli eretici convinti di fare il loro bene, perché almeno si sarebbero salvati l'anima. Fargli capire che gli inquisitori non erano dei sadici pazzi che si divertivano è importante, dopodiché i fatti restano che persone venivano inquisite e torturate esclusivamente per le loro convinzioni religiose.

- Anna Bravo: È giustissimo, e bisogna anche guardare dentro lo "schieramento buono" per capire se ci sono e quali sono le contaminazioni possibili, i meccanismi che, a volte, fanno assomigliare i loro comportamenti a quelli "dei cattivi". In questi anni sono usciti bei libri sulla memoria di comunità vittime di stragi naziste e sulle azioni partigiane che le avevano precedute, e in quelle memorie c'è ancora dopo 50 anni un rancore spaventoso: tramandano l'astio verso i partigiani invece che verso i nazisti... Questo è successo anche perché in certe scelte di quei partigiani l'etica della responsabilità, che voleva dire preoccuparsi anche delle conseguenze per la popolazione civile, ha avuto poca voce in capitolo, e ne ha avuta troppa l'etica della convinzione. Certo non si possono assumere ciecamente nè l'una nè l'altra, penso che tra l'una e l'altra ci sia un continuum e che di volta in volta si debba valutare e decidere se ci si sposta più verso la responsabilità o più verso la convinzione.

- "Una città": Questa dinamica credo sia interessantissima per i ragazzi e ci rimanda continuamente all'attualità. Pensiamo solo al contrasto fra "responsabilità" e "principio", fra la necessità di impedire eccidi, di portare soccorso a inermi e la repulsione a usare la violenza, la prepotenza anche, che ha tormentato le coscienze a proposito della guerra del Kossovo...

- Anna Bravo: Ma infatti... lo stesso principio del "portare soccorso" deve essere meditato in base alle conseguenze prevedibili. Il principio è impedire che vengano commessi crimini, però devi valutare secondo l'etica della responsabilità le conseguenze che può avere un intervento, e le conseguenze diverse che può avere in un paese o in un altro. Non basta dire che essendo intervenuti in Kossovo, ora si deve fare lo stesso per la Cecenia. C'è il dovere di agire dove e come si può (o si pensa di poterlo fare) ma valutando caso per caso. Insomma, ogni volta devi trovare una mediazione fra due principi entrambi cruciali; non esiste per nessuno il privilegio di poter decidere una volta per tutte.

- "Una città": Il comunismo. Come parlarne in un manuale? Torna anche il problema della comparazione, fra Lager e Gulag, che per tanti è una bestemmia. Mi sembra che tu dicessi che sul comunismo ti eri fermata parecchio a pensarci...

- Anna Bravo: Vorrei fare una premessa sul tema dei manuali e della censura politica. Si è parlato tanto di punti di vista e di libertà di interpretazione, ma mi pare che il punto sia anche un altro: faccio un esempio per eccesso, quello di un eventuale libro di testo negazionista. Ecco, un testo di storia che negasse la Shoah sarebbe come uno di fisica che insegnasse che il sole gira intorno alla terra. Bisogna richiedere degli standard minimi. Uno può dire: "Il nemico principale di Hitler erano gli ebrei", e l'altro, invece, può dire: "Il nemico principale di Hitler erano i bolscevichi", queste sono due interpretazioni, ma certamente nessuno può dire che non c'è stata la Shoah.
La libertà dei punti di vista e delle interpretazioni è sacrosanta, ma altra cosa è sostenere che sia il sole a girare intorno alla terra, che non ci sia stata la Shoah o minimizzarla fino a snaturarla, o che non ci siano state le foibe. Queste non sono interpretazioni, sono semplicemente menzogne, incoraggiate dal relativismo per cui tutto è opinabile e perciò tutto è tollerabile; invece ci sono verità storiche certificate da una mole di documenti e di testimonianze, e anche da reperti fisici.
Per tornare al tema del comunismo, credo che alcuni ed alcune docenti possano essere urtati dalla nostra scelta di non fargli sconti, ma siamo convinte che non si possa minimizzare, anche come quantità di spazio dedicata, come succedeva, e forse succede, in alcuni manuali.
Siamo convinte che si dovesse parlare del Terrore, del Gulag, ma anche del fatto che la repressione comincia nella primavera del '18 contro gli anarchici; che si dovesse ricordare Bucharin, che già alla fine del 1918 chiedeva di arginare gli "eccessi di zelo" della Ceka, ricordare la critica di Rosa Luxemburg contro la pretesa dell'avanguardia politica di essere proprietaria della verità, che era il punto centrale della sua polemica con Lenin... Lei viene sempre citata, ma bisogna rimeditare tutte le sue parole, pena continuare a pensare che Lenin fosse un grande leader lungimirante...
Il discorso sulle "intenzioni buone" del comunismo puoi farlo prima o dopo aver detto queste e altre cose, ma non senza averle dette. C'è chi si risente, ma queste cose sono state scritte settanta anni fa dagli anarchici.
Penso a Emma Goldman, e nel decennio scorso sono usciti ottimi libri come quelli di Graziosi, Zaslavski, Bongiovanni, Flores, Romano; non c'era proprio bisogno de Il libro nero del comunismo, dove non c'è una parola di nuovo, anzi si riprendono cose di Graziosi.
Il problema vero è capire se la rivoluzione poteva autoriformarsi nel tempo, con le energie che aveva dentro di sè, con programmi come la Nep.
Quello che più mi dà fastidio è l'implicita graduatoria delle vittime. In un seminario, due amiche, anzi ex amiche, hanno trattato questo manuale come se scottasse, ma senza mai entrare nel merito, senza fare un solo esempio.
Conoscendo le loro simpatie politiche, non posso non avere il dubbio che a dare loro fastidio fosse la lunga parte sul comunismo e sul Gulag, come se su alcune vittime fosse rispettabile dilungarsi, su altre no. Se fossi un'insegnante, cercherei di far riflettere sul rapporto fra la repressione e la presenza di questi grandi orizzonti sovrapersonali, rispetto ai quali l'individuo sparisce. A chi interessa la sorte dei singoli, se è il prezzo che si deve pagare per realizzare la società giusta? - Eugenio Gruppi: Quello che mi preme, fatta salva l'analisi del sistema sovietico come sistema totalitario (che mi sembra indiscutibile storicamente e che sarebbe grottesco cercare di attenuare o negare), è riflettere tra queste due possibili interpretazioni: se necessariamente dal pensiero di Marx deriva l'Unione Sovietica o se invece ha senso distinguere, per cui quella è stata una degenerazione; e quindi se il leninismo sia, come pretende, una rigorosa applicazione del marxismo o se sia già un'altra cosa. Questo, secondo me, è di nuovo un tentativo di non nascondersi dietro giustificazionismi, ma di dare agli studenti i dati storici che chiaramente evidenziano la struttura totalitaria e, nello stesso tempo, evitare, come lo voglio evitare per il fascismo, un puro discorso di demonizzazione.
Il tutto poi serve anche strumentalmente a fargli ripassare un pò Marx...

- "Una città": Ma ci sono ancora dei tabù su questi temi, in fatto di manuali, di libri di testo?

- Anna Bravo: Secondo me no. Io ho avuto solo un incidente, sono sparite tre righe, in cui si diceva che i detenuti a Kolyma venivano uccisi al suono delle orchestrine di altri prigionieri. Non ho capito chi sia stato, non penso a una scelta della casa editrice, ma a un intervento estemporaneo di qualcuno anche piuttosto stupido, perché dopo che hai scritto che Stalin ha fatto morire 5 milioni di contadini con la carestia, che senso aveva tagliare quelle tre righe? Certo, però, che quella frase metteva a fuoco la somiglianza con le uccisioni nei Lager nazisti, che per noi è una cosa agghiacciante, forse per chi ha vent'anni no, ma allora tocca a noi parlarne apertamente e spiegare che è agghiacciante davvero, e perché.

- Eugenio Gruppi: Devo dire che il clima politico e culturale in cui viviamo non induce molto all'ottimismo, però penso che questi aspetti si possano leggere anche in una chiave positiva. C'è tutta una riflessione, che ormai è in corso da anni, che permette di produrre testi migliori, capaci appunto di fare i conti con tutta una serie di aspetti contraddittori e anche scomodi, sui quali è vero che i manuali erano molto elusivi. Secondo me c'è stata un'acquisizione di maggior rigore nella storiografia. Purtroppo questo poi non sempre si coglie perché salta in primo piano l'uso politico della storia con tutto questo rimpallarsi di "c'è scritto questo, non c'è scritto quello". Invece, in realtà, la qualità media dei testi di storia è migliorata. C'è un approccio più problematico, critico, uno sforzo maggiore di riflettere, sul Novecento in particolare. Insomma, spero che poi, alla lunga, valga più questo che non tutte queste polemiche strettamente politiche.