Qualche mese fa, parlando con una collega con cui ho condiviso molto battaglie, diciamo di sinistra – anche se non è più molto chiaro che cosa voglia dire – è venuto fuori che il suo lavoro a scuola mirava a preparare ragazze e ragazzi per un mondo fondato sulla meritocrazia. Quello era il suo orizzonte di valore. E io sono rimasto sorpreso. In realtà non c'è niente di strano: nella scuola si passa il tempo a dare voti, dunque a riconoscere i diversi meriti dei ragazzi e delle ragazze. Le graduatorie sono il nostro pane quotidiano. E però lì per lì non è mi è tornato. Sono rimasto sorpreso. Quel meritocrazia mi ha dato fastidio. Peraltro, era la prima volta che sentivo usare il termine da un'amica, così senza ombra di problema: come un valore assoluto, che si dà per scontato. Noi siamo per la meritocrazia?, le ho domandato. E lei mi ha guardato, a sua volta sorpresa. In un concorso cosa ti sembra giusto che accada: che vinca chi ha studiato e se lo merita o chi ha le conoscenze giuste, il cognome importante, le raccomandazioni? E certo la mia domanda mi è sembrata decisamente stupida.
Eppure c'è qualcosa che non va.
Non è che non sia convinto che nei concorsi devono vincere quelle/i che se lo meritano, giovani che possono così avere delle possibilità, non fuggire dall'Italia scacciati dai figli di qualcuno. Però mi pare che nella categoria di meritocrazia ci sia anche altro.
Mi è capitato un po' come quando in collegio s'invoca universalmente la professionalità. È la paroletta che mette tutti d'accordo, che esprime la nostra protesta contro qualche ingerenza dell'amministrazione, delle famiglie, del territorio. Noi non siamo psicologi, non siamo assistenti sociali, abbiamo la nostra professionalità. Il più dello volte approvo, ma non riesce a entusiasmarmi la professionalità. La meritocrazia. Categorie che hanno il grande fascino delle cose neutre, indiscutibili. Come una via di fuga dalla realtà, dalla complessità delle cose; ritagliarsi uno spazio tecnico, liberato dai dubbi, in cui affidarsi a dati oggettivi, procedure codificate, protocolli di intervento.
In un articolo recente per una rivista di scienza e di medicina (Privacy, intimità, pudore, www.ricercaepratica.it)Marco Geddes, invece, fa entrare nella competenza professionale la cura della relazione con il paziente. Il pudore e il rispetto delle sue emozioni. Della sua “vergogna” di fronte agli operatori. Non sono aspetti accessori, sfondo garbato di una cura fatta in realtà di conoscenze e farmacologia. La malattia non esiste senza la malata o il malato. E la professionalità ha dentro si sé questa considerazione dell'altra/o, la costruzione di un rapporto, di una relazione, oppure è prestazione che azzera la persona su cui interviene. La nega nel momento in cui vorrebbe curarla. Geddes parla di intimità terapeutica, di amicizia professionale. Insomma la sfera delle emozioni, il coinvolgimento emotivo – certo con quella giusta distanza che connota anche i rapporti di amicizia che funzionano – non sono affatto aggiuntivi, un orpello di gentilezza nella gestione del cliente. Mi verrebbe da dire che nella sanità come nella scuola, il rapporto che si costruisce, lo spazio che si crea fra soggetti diversi, spazio pubblico nel senso che appartiene alla dimensione interpersonale della polis e non al mercato, fa parte della qualità del sapere e della salute – che non sono prodotto di un ente burocratico qualunque o di un ipermercato. Non si riducono a sportello da cui ricevere una prestazione. E questo mette in gioco anche chi compie “la prestazione”. Soggettivamente. Con tutti i dubbi del caso. Perché non esistono le malattie, esistono le malate e i malati.
Lo ha scritto David Foster Wallace in un racconto splendido, storia di cancro e di amore (Solomon Silverfish in Questa è l'acqua):
Solomon sa che una Sophie malata è sotto tutti gli aspetti importanti pur sempre una Sophie, non un insieme di bacchette e tubicini da accarezzare e coccolare (...) Durante tutto questo brutto periodo Solomon ha fatto sentire e capire a Sophie che lei è la malata, non la malattia. Lei è quello che è, non quello che ha dentro.
Forse non c'entra moltissimo, però l'idea della meritocrazia per certi versi mi sembra esprimere una desiderio di semplificazione simile. Fare il proprio mestiere e affidarsi all'indubbia giustizia del premiare chi se lo merita.
In una lettera di “studenti ventenni” al Presidente del Consiglio, pubblicata il 21 febbraio sul Corriere della Sera, si legge:
Nel sistema economico in cui operiamo, è richiesta la capacità di essere competitivi e dinamici: non abbiamo scritto noi le regole del gioco ma siamo tenuti a rispettarle per vincere la sfida della crescita. Anche le imprese italiane quindi, per offrire nuova occupazione e competere a livello internazionale, devono poter «stare sul mercato». (...)
spostare la bilancia del futuro dal privilegio al merito è l'impegno con cui vorremmo si cimentassero in questo momento le istituzioni patrie.(...)
proprio perché crediamo di valere molto, ci diciamo pronti alla sfida. Si valutino merito, creatività e talento: si premino i più bravi attraverso un nobile sistema di incentivi economici e sociali. Quella che auspichiamo è anche una riforma culturale, i nostri padri oggi vivono nella bambagia delle tutele grazie ad un «dispetto generazionale»: siamo costretti noi tutti a soccombere rispetto alle mille garanzie che le generazioni che ci hanno preceduti si sono arbitrariamente assegnate
Signor presidente, non neghi neppure ai giovani la chance di ripartenza e «rimuova gli ostacoli di ordine economico e sociale» che hanno finito per realizzare l'attuale regime di apartheid occupazionale fra protetti e non protetti.
L'articolo 3 della Costituzione, contro gli ostacoli posti dai privilegi acquisiti dei lavoratori, in nome dell'uguaglianza nella competizione.
Molti hanno commentato la vicenda della figlia di Elsa Fornero e Mario Deaglio, che insegna nell'università del babbo e della mamma nell'epoca in cui chi resta vicino alla famiglia è considerato da quei ministri tecnici uno sfigato. Massimo Gramellini ha fatto un po' di ironia, però ha detto che la ragazza non c'entra. Il suo curriculum di tutto rispetto è una garanzia e parla per lei. Parla per lei, la sottrae alle critiche. Lei se lo merita quel posto. Vero, immagino. Questa è meritocrazia, sento la mia amica che conferma.
E allora ho un rigurgito novecentesco di antica ribellione di sinistra.
Non ho dubbi che la ragazza Deaglio-Fornero se lo meriti. Anche in classe i miei studenti che prendono nove o quattro, non ho molti dubbi che se lo meritino. Eppure quando l'insufficienza la do a Mirko Schostack un po' mi girano le scatole. La mamma è arrivata in Italia da cinque anni, il marito l'ha lasciata subito con quattro figli. Lei era laureata nel suo paese ora fa le pulizie nelle case per mantenere i figli e mandarli a scuola. I suoi ragazzi – mi dice nel colloquio - devono fare bella figura per lei, che si fa un culo pazzesco per loro, e lo sanno... Mirko però non combina nulla di decente, sta per conto suo sempre, solo anche durante l'intervallo. Ho l'impressione che sia schiacciato dalla responsabilità. Siamo sicuri che lui, come altre e altri come lui, incasinati fuori e dentro, li possiamo giudicare sulla base del merito? Glieli diamo i voti che si meritano, ovviamente, perché non possiamo mica inventarci una realtà di riscatto e etica dell'impegno che non esiste, ma siamo sicuri che questa meritocrazia funzioni come un modello di giustizia? Mi sembra che sia decisamente più facile per alcuni che per altri essere meritevoli. Certo, lo scrivo e già sento sulle spalle il peso della tradizionale sinistra patetica: bisogna stare dalla parte degli ultimi, la colpa è della società, le condizioni economiche spiegano tutto... E però anche quest'idea che gli ostacoli da rimuovere secondo la Costituzione siano i privilegi di chi ha (aveva) l'articolo 18, e che si tratti di affidare tutto alla misurazione corretta dei voti, che premiano i migliori, mi sembra una idiozia totale. L'uguaglianza sarebbe questa roba qui: mettere in gara correttamente, senza preferenze, la figlia di Elsa Fornero e Mario Deaglio con Mirko Schostack. Chi vince è il migliore e questa è giustizia. Nell'epoca in cui si sente dire serenamente dai “tecnici” che non si può fare una vera patrimoniale al posto dell'IMU – patrimoniale vera ma solo sugli immobili dei ceti medio-bassi. Non si può fare perché i ricchi di rendite e denaro, beni appunto mobili, se ne vanno altrove se vengono tassati e alla fine lo stato perde anche la contribuzione ordinaria. Come dire l'ingiustizia c'è, ma gli ingiusti sono troppo forti per essere colpiti. Così vanno le cose, così devono andare.
Allora la tentazione paradossale è assumere seriamente il concetto di meritocrazia, ma come una sorta di metafora del comunismo (cosa che non piacerà ai ventenni che hanno scritto a Monti).
Quando ci sarà il comunismo - tutti con le stesse possibilità non solo davanti ai concorsi ma anche anche davanti alle librerie che si hanno in casa, alla lingua che si parla in famiglia, alla musica che si sente nel salotto, alla cultura che si frequenta fin da piccoli - allora si potrà parlare di meritocrazia. Prima mi sembra meglio stare dalla parte di chi non merita. Non ha acquisito grande conoscenza. E, va da sé, non ha neanche le “conoscenze”.
Andrea Bagni