Non sempre è facile cogliere il senso profondo della parola “guerra”: nel panorama della storia italiana, siamo portati a collocarla in un passato nemmeno troppo remoto ma, nonostante conseguenze ancora oggi tangibili, non l'abbiamo vissuta in prima persona e la vediamo farsi sempre più lontana, di anno in anno. Basta però innalzare il punto di vista ed è immediatamente possibile prendere atto di quanto una prassi tanto retrograda, inconcludente e stolta continui ad avvelenare numerose nazioni, che ne sono vittima da decenni senza mai essere giunte ad una pace definitiva: paesi nei quali la guerra è un fatto, la si può toccare con mano, in ogni dove e in ogni tempo, che trascina nell’angoscia di un domani incerto tanto i soldati quanto i civili, in una continua lotta per la propria vita e per la morte altrui. La guerra è distruzione, la guerra è divisione, la guerra è dolore: affligge tutto e tutti, rianima lo spirito animale che la società ha mitigato nell’uomo, proprio perché, in tempo di guerra, di società non si può più parlare.
Noi ragazzi del Clan Pontremoli 1 non vogliamo essere indifferenti ad un fatto così grave ed affermiamo la nostra contrarietà in merito, ma siamo purtroppo consapevoli del fatto che la sua risoluzione non è scontata o di semplice individuazione. Durante la nostra route in Bosnia ed Erzegovina, tenutasi l’anno scorso, abbiamo tentato di comprendere cosa la guerra è in grado di lasciare dietro di sé e di quanto le sue ferite siano ancora pulsanti, nonostante i trent’anni ormai trascorsi dalla fine di un conflitto relativamente vicino ai giorni nostri. Tale esperienza ci ha permesso di riscontrare l’inefficacia dei trattati di pace dal punto di vista sociale, i quali non hanno portato ad una vera e propria riconciliazione. Paradossalmente la situazione post-bellica è risultata essere anche peggiore di quella anteriore al conflitto, demarcando ancor più divisioni di natura etnica, politica e religiosa. Tra i vari luoghi che abbiamo avuto modo di visitare, ci ha colpito particolarmente il Museo dell’Infanzia di Guerra, a Sarajevo, nel quale sono esposti oggetti vari appartenenti a bambini trascinati nel vortice di una follia storica ingiustificabile, della quale si sono trovati ad essere vittime innocenti. PAUSA
*******************
Il mondo che immaginavamo.
Bombardare significava passare del tempo nel seminterrato, nel corridoio, nella tromba delle scale o sotto il tavolo nella sala da pranzo, il che ci dava un falso senso di sicurezza.
Durante i bombardamenti stavo con mia sorella maggiore, Ivana. Suonavamo e cantavamo insieme, avevamo paura insieme, condividevamo i momenti belli e quelli brutti insieme. Avevamo alcuni vecchi mattoncini giocattolo e alcune macchinine giocattolo, oltre a questi mattoncini lego e quattro pezzi di un "gioco da tavolo Ludo”
Nella nostra immaginazione, il coniglietto blu era il papà, la cerva rossa era la mamma, il cane giallo era la sorella e lo scoiattolo verde era il fratello. Condividevamo sempre i mattoncini e le macchinine giocattolo in modo che ognuno potesse costruire una casa per il proprio pezzo. Oltre a possedere una casa e un'auto, i pezzi guidavano anche queste auto e si visitavano.
Ricordo che una delle macchinine era una decappottabile. Il fratello guidava sempre la decappottabile visitando la casa di famiglia insieme a sua sorella. Guidavano per la città e andavano ovunque e dovunque volessero. All'interno di quel gioco, avevamo un mondo tutto nostro, un mondo meraviglioso. Abbiamo chiamato il gioco "Figurine"
Boris, 1986
*******************
Il nascondiglio più sicuro nella Sarajevo assediata.
Ero la prima nipote di nonno Ismet, il mio nonno materno. Poco prima dell'inizio della guerra, mio nonno costruì a mano un'altalena per farmi giocare nella nostra casetta a Lepenica. Mio nonno morì e la guerra iniziò poco dopo. Non ho mai avuto la possibilità di giocare con la mia altalena all’aperto a Lepenica.
La mia altalena è rimasta nella cantina ammuffita dove ho trascorso i primi anni della mia vita invece di essere circondata dalla bellezza della natura. Eravamo sempre in tanti in quel piccolo seminterrato, a volte fino a 30 persone. Mia madre non era in grado di dedicarmi tutto il suo tempo o di vegliare su di me in ogni momento, quindi ha legato un campanello all'altalena per sapere se ero dentro o no.
Mi sono aggrappato a questa altalena per tutti questi anni in modo che anche mio figlio potesse crescere con essa. Due anni fa l'ho offerta alle mie cuginette Lamija e Asija, spiegando che era il mio tesoro più grande, perché potessero dondolare e giocare. Mi dissero che era un gioco disgustoso e noioso, che era troppo semplice, che non emetteva suoni né si illuminava. Fu allora che mi resi conto di quanto fosse tutt'altro che semplice, che in realtà era speciale. È stato allora che ho capito cosa rappresentava: un ricordo di mio nonno che è morto troppo presto; sicurezza, agli occhi di mia madre: la mia casa; tempo libero e una fuga dalla realtà quotidiana della guerra. Non spero più di passare questa altalena con il suo campanellino a mio figlio. Spero che mio figlio abbia un'infanzia spensierata, piena di appuntamenti al parco. Non ho intenzione di stancare mio figlio con le storie della guerra. Invece porterò mia figlia al War Childhood Museum per mostrarle questa altalena piena di sogni, fantasie e speranze, il nascondiglio più sicuro nella Sarajevo assediata.
Naïda, 1989.
*******************
Altra esperienza che ci ha profondamente scosso è stato visitare Srebrenica, che l'11 luglio 1995 fu teatro del massacro di oltre 8000 uomini e ragazzi musulmani bosgnacchi con l'obiettivo manifesto di distruggere il gruppo etnico a cui appartenevano, il che ci permette di definire un evento storico di tale spessore un vero e proprio genocidio. Mladić, il "macellaio dei Balcani", entrò con le sue truppe nella città, precedentemente dichiarata "zona protetta", portando alcuni a fuggire nei boschi circostanti, mentre la maggior parte della popolazione si ammassó attorno alla base delle Nazioni Unite nella speranza di ricevere aiuto. Tale speranza venne però disattesa: i Caschi Blu rimasero impotenti di fronte alla forza serba e impossibilitati ad agire dalle risoluzioni vaghe e inefficaci dell'ONU, decretando un'epocale sconfitta il cui peso morale e politico grava ancora sulla comunità internazionale. La guerra si concluse lo stesso anno della strage con una pace, a nostro parere solo apparente, sancita dai Trattati di Dayton, che decretava la nascita di un nuovo Stato composto dalle tre più importanti etnie del Paese balcanico.
Riteniamo a dir poco paradossali alcune condizioni che si sono venute a creare, in primis quella politica: la Presidenza della Bosnia Erzegovina è oggi infatti un organo collegiale, che costituisce l'autorità massima della federazione. I tre membri che lo compongono sono eletti direttamente dal corpo elettorale ogni quattro anni in modo contestuale; ognuno di essi rappresenta uno dei tre popoli costitutivi: bosgnacchi, serbi e croati. L'aspetto per noi più assurdo risiede nell'alternarsi alla Presidenza del Governo di ciascun membro, che assume a rotazione questa carica per un periodo di otto mesi.
*******************
Nel paese è inoltre presente tuttora l’Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, un’autorità nella quale si identifica la supervisione costante da parte dell’Unione Europea, per garantire il rispetto delle condizioni previste dagli accordi di pace.
Quest’ultima costituisce per noi una misura di controllo contraddittoria che nasconde la consapevolezza di ostilità striscianti tra la popolazione, le quali attendono solo il momento opportuno per riaffiorare.
Per non parlare poi delle fratture oggi rintracciabili all'interno del sistema educativo, frutto della rinnovata fisionomia impartita alla federazione: nelle scuole è in atto una vera e propria divisione degli alunni su base religiosa, sintomo di una pacificazione non davvero raggiunta.
Insomma: la situazione nel Paese è ancora estremamente tesa, sotto diversi punti di vista, e le ferite inflitte dalla guerra non sono solo i colpi di artiglieria che persistono sulle facciate dei palazzi di Sarajevo, testimonianza sempre viva di un fatto che è difficile, se non impossibile, lasciare alle spalle.
Ci auguriamo quindi non solo che queste problematiche si risolvano quanto prima, ma che nemmeno si verifichino in Ucraina a causa del conflitto che da un anno a questa parte lacera il paese. Vogliamo poi guardare con occhi di speranza all'orizzonte futuro ed immaginare un mondo privo di divisioni sociali nel quale i nostri figli possano vivere secondo uno spirito di fraternità e rispetto, ma soprattutto di coraggio, quel coraggio che, come ricorda papa Francesco, occorre per dire sì al negoziato e no all'ostilità, sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni, sì alla sincerità e no alla doppiezza.
Pontremoli, 24 febbraio 2023
AGESCI Gruppo Pontremoli 1