Prima di entrare nel vivo di quello che sarà il racconto di questa esperienza desidero presentare sommariamente la ricerca, nata all’interno del laboratorio tenuto da Maurizio Chierici presso il mio corso di laurea e dunque nata inizialmente col solo fine di adempire a un compito, di far bene un esame. Se non che questa si è mostrata da subito capace di avere un valore molto più alto sia per ciò che ci chiedeva di fare sia soprattutto perché mi ha portato a scegliere e poi a vivere un’esperienza per me nuova e certamente breve, ma straordinaria e ricchissima. Ricchissima non solo per il forte apporto in termini di conoscenza, umanità e emozioni ma anche perché pur non essendo ‘completa’ è stata comunque in grado di rispondere a molte delle mie domande e forse, spero, anche di comporre un quadro che possa essere rappresentativo dello stato dell’accoglienza a livello locale. Come ho sintetizzato qui in slide e nell’ordine, ho avuto modo di conoscere, nell’arco di un mese e nella pratica in pochi giorni, oltre a SPRAR Lunigiana qui presente, quattro “centri prefettizi” (ossia le altre strutture che si occupano di “seconda accoglienza” ma sono gestite in maniera semi-autonoma e tramite convenzioni con la Prefettura): nell’ordine, dicevo, l’RSA Michelangelo, reinventatasi per questo e oggi non più operante nel campo; le cooperative Ezio Caprini e Il Pungiglione, con caratteristiche molto diverse; infine, il Vescovile, anch’esso qui presente e che pertanto, come il progetto SPRAR, credo conoscerete presto direttamente.
Dunque cinque realtà fra loro differenti ma che, specialmente negli ultimi tre casi, mi sembra possano condividere molto: in particolare – e credo avremo modo anche oggi di scoprirlo – punti di forza, idee e volontà comuni oltre che un’opinione comune su quelli che sono pro e contro nella quotidianità e nelle attuali politiche di immigrazione. A completare questo quadro mi è stato poi di fondamentale aiuto il contributo di due docenti sempre dell’Università di Parma, il sociologo Sergio Manghi e Giancarlo Anello da sempre impegnato in materie di diritto e multiculturalità. Limitata da alcuni ‘disagi in corsa’, tempi obbligatoriamente ristretti e, in qualche caso, difficoltà con la lingua ho realizzato la ricerca ‘sul campo’ quasi sempre con l’aiuto dei rispettivi mediatori e conducendo interviste semi-strutturate ma che nella pratica hanno assunto generalmente un carattere di imprevedibilità, “serendipità” molto forte e, comunque, per certi aspetti, direi vincente. Vincente perché capace, come tenterò di dire, di portare in primo piano quella dimensione dell’incontro che poi si è rivelata fondamentale e perché capace di mettere insieme tutto ciò che poteva essere utile a carpire, con un pizzico di fiducia reciproca, problematiche, contesti e gioie, animo, storie e persone.
Quindi già da questo capirete che non so se il mio intervento di oggi si possa definire in termini di ‘risultati’ perché probabilmente ciò che manca alla mia ricerca è, oltre alla ‘messa in forma’, un certo rigore. Quando ho deciso di avvicinarmi a questo tema, agli aspetti ed effetti di quella che Kapuscinski definiva “febbre migratoria planetaria”, non avevo infatti ben chiaro cosa volessi realmente indagare. Volevo soltanto, in tutta onestà, mettermi alla prova, tentare una sfida, impormi di trovare da sola risposte, di riuscire a generare nuove domande e, semplicemente, di saperne di più. Non perché non se ne sentisse e non se ne senta parlare abbastanza, negli ultimi anni media e politici ne parlano con gran frequenza, ma perché era proprio da quel ‘frenetico chiacchiericcio’ che avevo bisogno di prendere distanza. Di prenderne distanza perché non solo facilmente abile, come sappiamo, a cadere in strumentalizzazioni e disinformazione ma allo stesso tempo sempre più abile nell’incorrere nel pericolo della semplificazione. Quando invece, pur confusa, a me pareva per esempio chiaro quanto noi non fossimo del tutto e realmente preparati a una dimensione che sarà necessariamente multiculturale: come afferma Manghi e come assurdamente non ammettono molti, è ovvio, non è né un bene né un male, è un dato di fatto. E allora, a partire da questo e complice una conversazione col professor Crocetti, ho pensato di spostare la mia attenzione sul concetto di interazione culturale con l’idea di comprendere come avviene, proprio nel concreto, l’incontro fra culture tanto diverse. Volevo capire questo, volevo individuare gli effetti dell’impatto, ambivo a trarne i punti di forza e i possibili motivi di conflitto ed è così che credo di essermi presentata alle trentanove persone che ho incontrato nel mese di dicembre. Credo di aver dichiarato più o meno questo quando ancora prendevo contatti, stabilivo appuntamenti e chiarivo gli intenti. Ma poi, nell’esplorazione viva e fisica delle cinque realtà che ho avuto la fortuna di attraversare, le cose sono andate diversamente.
Già prima di iniziare sapevo benissimo, anche per la fase preparatoria di ogni incontro, che non sarebbe stato affatto facile entrare nelle vite di questi giovani e meno giovani che sempre più numerosi e sempre più spesso arrivano da altri Paesi del mondo. Non è facile perché quasi mai è possibile farlo solo perché lo si è deciso - e lo sappiamo, accade anche con chi conosciamo – ma anche perché quello che è la loro storia, il loro passato, oltre a essere quasi sempre doloroso, solitamente l’hanno già raccontato molte volte o, comunque, si preparano a farlo. Si preparano a farlo – e qui riprendo quello che avevo scritto – perché, una volta in Commissione, sarà da quel racconto che dipenderanno le sorti di quello che ai più appare come una ‘gentile concessione di stare al mondo’, al nostro, ma che per loro il più delle volte è la sola possibilità di avere una vita. Di avere una vita, di avere una nuova vita – molti dicevano “una buona vita” – perché la loro vita c’è già, esiste. È venuta fuori e viene fuori a ogni parola, a ogni sguardo, a ogni tic, a ogni cambio del tono di voce. Io non ho, anzi noi non abbiamo mai invaso il loro spazio ma era la loro vita che invadeva e riempiva il nostro di spazio. Certo, c’è chi ha raccontato di più, chi ha raccontato di meno, chi non ha voluto perché – mi ha detto – “avrebbe pianto” ma, in ogni caso e sempre, qualcosa è emerso. E questo è stato senz’altro e sempre il pezzo più difficile del percorso, quello più toccante e quello anche più sorprendente, soprattutto perché non c’era nulla che gli garantisse che potevano fidarsi di me.
Oltre a questo, che volevo dire rapidamente anche perché intendo avere rispetto di ciò che mi hanno concesso, è venuto fuori molto di quello che loro pensano. Di quello che pensano del loro Paese, di quello che pensano delle loro culture, di quello che amano e di quello che odiano della loro terra d’origine; ma anche di quello che pensano di noi, del nostro modo di vivere, del nostro modo di vestire, del nostro modo di relazionarci, del nostro cibo, del nostro aspetto, del nostro mondo. Non ci è voluto molto a parlare di tutto questo e ci è voluto ancora meno, se vogliamo, a rendere speciale e proficuo ogni incontro. Io mi muovevo senza saperlo, mettendo in pratica i consigli di Anello, ma poi Lamin, ormai mio amico, mi ha chiarito tutto: lui diceva che gli italiani non sono amichevoli se vedono che non parli italiano, che capita che lo guardino male in giro perché è nero, ma che se dice loro “Ciao” o “Come stai”, se inizia a parlare con loro, si mostrano subito aperti, cordiali e cambiano idea. E allora ho capito che davvero basta dire “Ciao, come stai?”, basta chiedere “Che cosa ti preoccupa in questo momento?” per capire, almeno un po’, quali sono angosce e ansie, sogni e speranze. Li preoccupa la famiglia, sicuramente. Il lavoro, anche, ovviamente. I documenti, inevitabilmente. La vita – dicevo: e chi non preoccupa? Ma un’altra cosa che li preoccupa e di cui sarebbe più importante parlare è ciò che, dopo, al termine di questo lungo percorso che affrontano, potrebbe accadere. Uno di loro, a cui ho chiesto se ha intenzione di rimanere una volta ottenuti i documenti, mi ha detto: “Eh, questa è una domanda difficile. Se lo chiedessi a te? Dopo i documenti, dove vado? Dove vivo? Dove lavoro?”.
E allora, al netto di tutte le incertezze e mancanze del nostro Paese, al di fuori del cosiddetto ‘piano emergenziale’, nella consapevolezza che questo ciclo migratorio che sta cambiando non solo noi ma il volto del mondo non è transitorio ma intenso e prevedibilmente destinato a durare, è fondamentale che si ragioni in termini di “accoglienza integrata”, come fanno, secondo progetto, gli operatori SPRAR e come ogni giorno tentano di fare le realtà più volenterose. Ed è altrettanto fondamentale, a detta mia e di tutti i soggetti coinvolti in questa ricerca, pluralizzare i momenti d’incontro. Perché, è vero ed ora torno in qualche modo anche all’inizio, alla base ci sono necessariamente differenze culturali, alcune anche evidenti. Ma non è questo, infine, ciò che emerge come rilevante. Manghi sostiene che “non è la differenza in sé e per sé il problema ma lo stingersi delle differenze” e questo, con tutta probabilità, è vero. Le differenze culturali, spesso percepite, ‘mediaticamente’ parlando, come insormontabili, in realtà non rappresentano quelli che sono gli ostacoli maggiori. Certo, se intendiamo la lingua come parte della loro cultura, com’è giusto che sia, allora sì, come ho detto: le barriere linguistiche sono un grosso limite. Lo sono per loro e lo sono per noi – che, come dice Mandjai, “abbiamo bisogno di più tempo”. Ma, oltre a questo, nel percorso esplorativo che ho fatto non è venuta fuori alcuna altra problematica simile, se non limitatamente a conflitti interni a quella che è una convivenza forzata con altri giovani diversi ma, soprattutto, sconosciuti. Non è difficile immaginarlo e più in generale non è difficile nemmeno riconoscerlo perché, sempre riprendendo Manghi, le relazioni non sono fra culture, sono fra persone.
Allora i termini in cui alla fine anch’io credo si debba porre la questione sono termini di relazione, di coscienza di quanto pesi più che la diversità culturale la fatica relazionale; di consapevolezza sia di questo che delle possibilità di scontro con l’altro, nell’ottica di “quel mondo da ristrutturare” nel quale vivere in fraternità e, impegnandosi reciprocamente, in quella che Manghi definisce “ricostruzione delle differenze”. Perché l’incontro con l’altro non è semplice, non lo è mai, ma moltiplicare i luoghi entro i quali sperimentarlo, riconoscendone tutta la complessità e trasformandolo in opportunità di conoscenza e di relazione, è forse la strada giusta per credere in una forma altra di convivenza: migliore, più ricca, possibile. E se oggi siamo qui, ne siamo la dimostrazione.
Contributo di Francesca Fontana (ecodellalunigiana.it ) al convegno “Cittadinanza e Accoglienza” del 27 maggio 2016 a Pontremoli