Un’analisi del voto referendario del 17 aprile richiede una valutazione complessa per le numerose variabili da considerare.
Tredici milioni di persone che votano SI in un referendum che si è fatto di tutto per boicottare, non sono poche, soprattutto in un paese dove la disaffezione al voto – frutto della caduta verticale di fiducia verso la politica istituzionale- è diventata di ampia portata e quasi endemica.
Il boicottaggio del voto è stato tanto manifesto, quanto evidenti sono i poteri forti che sono scesi in campo per il mantenimento dello statu quo.
Il Presidente del Consiglio, dapprima con la definizione della data –nessun accorpamento con le amministrative e indicazione della primissima data utile per abbreviare il più possibile la campagna referendaria- poi con la discesa in campo aperto per l’astensione, si è dimostrato un pasdaran della nuova idea di democrazia autoritaria e plebiscitaria che propone al paese.
I grandi mass media, dapprima con il totale silenzio sul quesito, poi con la denigrazione dello stesso, hanno fatto ampiamente la loro parte.
A tutto questo va aggiunto l’evidente obsolescenza della norma che disciplina i referendum, che mantiene un quorum (50% più 1 degli aventi diritto al voto) da missione quasi impossibile e che facilita la strumentalizzazione della disaffezione elettorale per far fallire ogni esperimento di democrazia diretta.
Questo quadro oggettivo non esime, tuttavia, dal valutare il voto del 17 aprile come una sconfitta.
Perché, se sono realtà tutti gli impedimenti sopra descritti, è altrettanto vero che, se si decide di sfidare le politiche governative utilizzando lo strumento referendario, si è consapevoli dell’entità della sfida e occorre di conseguenza prendere atto dell’esito.
Ecco perché vale forse la pena provare a fare una riflessione più ampia in merito a quali condizioni rendano praticabile la sfida e a quali invece ne pregiudichino in partenza l’esito.
La prima non può che riguardare la frammentazione sociale che oltre venti anni di liberismo e la crisi sistemica in atto hanno prodotto nel paese: oggi le persone che hanno una visione d’insieme dei problemi sono una minoranza, mentre per la gran parte della popolazione l’isolamento e l’atomizzazione hanno agito in profondità, al punto da renderle disponibili alla mobilitazione solo di fronte ad un attacco diretto ed esplicito alle proprie condizioni di vita.
Se Eugenio Scalfari può scrivere senza vergogna sulla Repubblica che chi non vive nelle regioni direttamente interessate dalle trivellazioni è bene che se ne disinteressi, è perché ha chiara – e la utilizza pro-Renzi - esattamente questa dimensione di frammentazione sociale.
E’ questa realtà a dimostrare come oggi una prima condizione sine qua non la sfida referendaria diviene impossibile è che l’argomento da sottoporre al voto degli italiani debba o riguardare un tema che incide direttamente sulla vita di tutte e tutti o, in alternativa, diversi temi dirimenti che, nella loro pluralità, mobilitino ciascuno una fetta di popolazione direttamente interessata.
Il primo caso lo si è visto con la straordinaria esperienza del movimento per l’acqua, non a caso l’unico referendum degli ultimi venti anni ad aver raggiunto il quorum; il secondo caso, ancora da verificare nella sua efficacia, è attualmente in corso con la campagna di raccolta firme, avviata da due settimane, sui referendum “sociali”.
A mio avviso, c’è una seconda condizione irrinunciabile per poter mettere in campo la sfida referendaria: la raccolta delle firme fra i cittadini. È l’unico antidoto possibile alla disinformazione dei mass media e consente, nell’anno precedente al voto, una sorta di alfabetizzazione di massa e un processo di motivazione sociale che divengono dirimenti nella successiva mobilitazione per la partecipazione al voto.
Sono entrambe condizioni assenti nel referendum del 17 aprile e, che, a mio avviso, ne hanno determinato l’impossibilità “strutturale” di un esito positivo.
Tredici milioni di persone hanno comunque deciso di scendere in campo e di disobbedire all’indifferenza richiesta dal governo e dai poteri forti di questo paese.
A mio avviso si parte da lì.
Marco Bersani
Fonte: ATTAC