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Brevi note sulle politiche sociali

La crisi economica e sociale che stiamo vivendo ormai ha assunto caratteri drammatici, resi ancor più devastanti perché essa va scavare all'interno di un quadro sociale e culturale devastato da questo ultimo ventennio di neoliberismo esasperato, nel quale si è affermata una cultura individualista, che ha sradicato completamente un senso di comunità, unico contesto nel quale possano svilupparsi pratiche di solidarietà e attenzione al territorio.

Il compito della politica è sicuramente quello di mettere in atto azioni che vadano nell'ottica di un riequilibro delle disuguaglianze, già esistenti e che questa crisi ha drammaticamente ampliato, mettendo in campo politiche fiscali che vadano a prelevare dove i capitali esistono, adottando anche forme di tassazione patrimoniale che vada a colpire chi le risorse le ha abbondantemente e non, come sempre, i soliti noti, che sono semplicemente resi sempre più poveri.

Dall'altro lato tuttavia è necessario che la politica adotti, soprattutto a livello locale, politiche di intervento che vadano a ricostruire un tessuto di comunità, di senso di appartenenza e di coesione sociale che diventi un tessuto fertile per politiche sociali, rese sempre più deboli dai continui tagli adottati dal governo, e dalla inevitabile diminuzione delle risorse.

Le stesse politiche di cura di un territorio devastato possono diventare più efficaci se queste hanno il sostegno e l'attenzione delle comunità che vi abitano.

Per facilitare il rafforzamento di comunità consapevoli sono necessari da un lato percorsi di condivisione delle conoscenze e delle relazioni, dall'altro l'adozione di pratiche di partecipazione.

Ciò tuttavia troppo spesso il significato della partecipazione viene svuotato della sua forza dirompente e del carico di trasformazione di cui può essere portatrice, acquisendolo come semplice pratica di ricerca di consenso, perdendo invece di vista che azioni di partecipazione comportano la rinuncia a fette di potere e alle abitudini, spesso consolidate, di accentramento.

Tuttavia dobbiamo avere la consapevolezza che parole come solidarietà, uguaglianza, partecipazione, pace... non sono termini neutrali, non possono essere acquisiti semplicemente come sfondo di un'azione politica qualsiasi, essi stessi nascono e si alimentano all'interno delle contraddizioni, devono essere elementi generatori di conflitti per superare le disuguaglianze e rendere le differenze non un ostacolo alla convivenza, ma un elemento di crescita della stessa.

Troppo spesso, sopratutto dinanzi alla crisi delle forme partito, assistiamo alla declinazione di termini proposti come panacea di un male, quando essi stessi richiedono una rivisitazione completa dei luoghi organizzati, ma anche una trasformazione cultura dei processi di elaborazione e di condivisione di un progetto.

Un prerequisito della partecipazione è la cittadinanza attiva, il cittadino consapevole che vuole esercitare il suo protagonismo insieme a duna comunità.

Questo necessita, a meno di continuare a perpetuare una politica individualistica, il senso di comunità, una comunità che mi interessa, della quale voglio occuparmi e nella quale riconosco l'esistenza di beni comuni.

Proprio per evitare di ridurre l'idea della partecipazione semplicemente come una ricetta per superare le difficoltà e la crisi della politica, e non invece come elemento radicale e profondo di trasformazione, è opportuno porci seriamente alcune domande:

  • Partecipazione perché?

  • Partecipazione per che cosa?

Se la risposta alla prima domanda diventa abbastanza immediata rispetto al prerequisito di senso di appartenenza ad una comunità e del mio “I care” verso essa, alla seconda domanda si offrono diverse articolazioni di risposte.

Non esistono, all'interno della dialettica democratica, culture politiche vere o false, esistono culture politiche che, a seconda del punto di vista e degli interessi che vogliono rappresentare, danno risposte diverse ad interessi diversi.

Questa visione è fondamentale dinanzi ai processi partecipativi, laddove invece assistiamo sempre di più ad una declinazione dell'idea di partecipazione all'interno di una visione politica monocratica, nella quale il rapporto con le altre culture assume i contorni di un giudizio etico e spesso manicheo (giusto – sbagliato, amico – nemico, onesto – disonesto).

Affrontare i temi dei processi partecipativi in questa prospettiva diventa devastante e fuorviante, spesso antitetico a quella visione di cittadino consapevole dentro una comunità.

Ma essere un cittadino consapevole non significa avere in tasca le soluzioni di un problema, significa avere coscienza della parzialità della propria visione della società e della volontà di svolgere in quella direzione il proprio impegno.

La scelta di un modello partecipativo non può essere semplicemente etica o tattica, essa deve essere la metodologia di un'azione politica capace di trasformare le relazioni di una comunità (sociali, personali, culturali, economiche, di potere...).

Non può esistere un modello partecipativo teorico e neutrale, esiste un processo che si incarna in un progetto di cambiamento strutturale profondo.

Un modello partecipativo deve riconoscere le diverse alterità in campo, anzi deve farne fare esperienza, perché solo in quest'ottica si penetra in un contesto che di per sé è complesso, anche se ormai la politica ci vuole abituare alle soluzioni scorciatoie.

Di contro è pericolosissimo pensare di costruire una proposta politica dentro un processo partecipativo neutrale, perché questo non esiste.

Un processo partecipativo si sviluppa all'interno di una cornice precisa e per nulla neutrale, una cornice che indichi un orizzonte, valori, principi di fondo...

Si pensi cosa significherebbe scrivere un programma politico sull'immigrazione, sull'accoglienza, sulle relazioni internazionali semplicemente partendo dall'ascolto delle volontà e degli umori delle persone.

La partecipazione non può ridursi all'ascolto, e non può essere esclusa da un processo interattivo, di cammino insieme, di condivisone di orizzonti e valori.

Sviluppare processi partecipativi su un'idea, significa allora verificarne il consenso, la capacità di comprensione, individuarne le contraddizioni in un tavolo sempre più largo, ma partendo da una proposta non neutrale appunto.

Il percorso partecipativo può servire anche per costruire un consenso su una proposta, perché solo una proposta condivisa può essere elemento di cambiamento, ma solo se si è disposti a considerare come sfida le opposizioni che può suscitare.

Ad esempio è possibile costruire percorsi partecipativi sul regolamento urbanistico, ma solo quando ho sviluppato un'idea di città, sulla quale mi confronto e rispetto alla quale lo strumento partecipativo è una verifica del mio progetto, ma anche di arricchimento rispetto alle contraddizioni che possono emergere.

Per questo i processi partecipativi non sono neutrali, né sono facili, non possono certo esaurirsi sempre con un click su un tasto di computer... perché quel tipo di scelte non fa crescere, ma chiede solo di schierarsi, non chiede di approfondire, di sviluppare insieme, di analizzarne insieme i punti di forza e le contraddizioni ed anche di verificare la nostra idea con le perplessità e le paure che esistono, proprio nell'ottica di costruire un progetto che, progressivamente, smonti quelle perplessità e quelle paure, senza demonizzarle.

Costruire una comunità ha bisogno di modelli di partecipazione, ma ancor prima significa mettere in campo la propria idea di comunità, che non è l'unica né quella esaustiva.

La mia idea di comunità, come è noto, è quella inclusiva, costruita su processi includenti e di accoglienza.

A questa si contrappone un altro modello di comunità-fortino, fortificata, fortemente identitaria.

La sfida a cui siamo chiamati è quella di proporre percorsi di costruzione di questa nostra idea di comunità e di condividerli.

Questa lunga premessa sulla partecipazione è motivata dal fatto che per affrontare le contraddizioni del modello neoliberista siamo chiamati anche a cercare di costruire sensi di comunità e di appartenenza, che non facciano delle nostre realtà dei fortezze assediate, ma che invece esprimano capacità inclusivo e scelta degli ultimi.

Siamo chiamati a favorire, operando in contro tendenza culturale, l'idea di comunità, quartieri, condomini solidali, nei quali si inneschino le politiche sociali dell'ente locale e della rete di associazioni.

In tali realtà possiamo ripensare diversamente i centri di aggregazione, rimodellarli nel territorio, farli diventare case delle associazioni di quel territorio, ma al tempo stesso centri di gestione dei conflitti, quindi anche terminali di eventuali centri contro la violenza e il femminicidio.

Potrebbe essere utile ad esempio pensare a corsi di formazione rivolti alle associazioni proprio sulla gestione dei conflitti e sulla facilitazione dei processi partecipativi, non per creare illusioni di assunzione, ma per creare conoscenza e professionalità che siano utili per le reti di associazioni e di gruppi informali con le quali è necessario costruire un progetto di comunità solidale e partecipata.