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Come una ragazza sopravvive nell’Africa "di seconda mano": rottami che il mondo civile spedisce nelle bidonvilles

Per quale ragione chiedere a un francese, per giunta economista e non romanziere di professione, di prefare l’edizione italiana (editore Emi) di un romanzo già pubblicato in Francia senza prefazione? Si può rispondere alla domanda cercando tra una serie di motivi più o meno validi. Cominciamo dal meno credibile: l’assenza nella penisola di persone qualificate per apprezzare e fare apprezzare il lavoro dell’autore. Benché, a causa di un trascorso coloniale più limitato, l’Italia sia meno ricca della Francia in materia di africanisti, non si può dire che vi manchino gli specialisti della letteratura africana, dei problemi dell’emigrazione o del continente nero in generale. Sono stati pubblicati, in particolare nel corso degli ultimi anni, alcuni eccellenti lavori di autori italiani su questi argomenti, che sono poi quelli affrontati nel Ventre del pitone. L’assenza di una mia prefazione all’edizione francese è invece dovuta al semplice fatto che, nel momento in cui il libro veniva stampato, né io conoscevo Enzo Barnabà né lui conosceva me. Certo, avevo già pubblicato L’altra Africa. Tra dono e mercato, che mi aveva forse già dato una reputazione di africanista, ma non credo che Enzo avesse letto il libro prima che ci incontrassimo.

Le vere ragioni risalgono piuttosto alla nostra amichevole complicità e alla comune passione per il continente africano, intrecciate a problemi editoriali. Nella prefazione al libro che abbiamo pubblicato assieme, Sortilegi, ho raccontato come con Enzo Barnabà ci siamo incontrati in Africa, più precisamente in Benin, nel febbraio 2007, come abbiamo non soltanto simpatizzato ma anche scoperto di avere ambedue scritto dei racconti africani che ci è sembrato avessero tra di loro una certa aria di famiglia. Abbiamo allora deciso di mescolarli e di amalgamarli in un tutto più consistente. Dopo le traduzioni e gli aggiustamenti reciproci, il progetto è stato realizzato con successo in Italia ed è così che Sortilegi ha visto la luce. Dal momento che nessuno è profeta in patria - ed è qui che fanno capolino i problemi editoriali - va precisato che sono io che ho potuto aiutare il mio amico per quanto riguarda la pubblicazione in italiano e che poco è mancato invece che, grazie a lui, il volume non uscisse anche in lingua francese. In verità, tutti gli editori, da ambedue i lati della frontiera, ci hanno detto che se il libro fosse stato scritto da un africano l’avrebbero pubblicato immediatamente. Siamo di fronte a un paradosso. Più un paese è razzista e più vi funziona una specie di razzismo alla rovescia del quale profitta un’infima minoranza che assurge ad eccezione. Portare alle stelle un africano o una donna non impedisce il maltrattamento e la persecuzione di tutti gli altri e serve a sdoganarsi dall’accusa di ordinaria segregazione. Per quanto riguarda Il ventre del pitone, il mio amico avrebbe a ragione potuto pensare di firmare il libro con il nome di Lazarine N’Guessan, la giovane africana le cui vicissitudini hanno ispirato il racconto, apparendo eventualmente solo come trascrittore e correttore del testo. Non sarebbe stata, d’altronde, la prima volta che un autore africano si sarebbe ritagliato una fama grazie alla penna di un nègre (gli inglesi direbbero ghostwriter) bianco; giusta e debole compensazione di tutte le nostre depredazioni... Nella fattispecie, l’impostura sarebbe stata lieve e i guadagni commisurati al fatto che l’autrice sarebbe appartenuta a una doppia minoranza perseguitata: africana e per di più donna. Non è assurdo pensare che il libro avrebbe allora avuto un enorme successo. Successivamente avremmo addirittura potuto comprare la complicità di Lazarine per farle assumere la responsabilità di Sortilegi, assicurandoci, indirettamente, un’ambigua celebrità. È vero che, ciò facendo, saremmo stati forse condannati a produrre letteratura africana fino alla fine dei nostri giorni per rispondere alla pressione del pubblico e degli editori... Ma non siamo a questo punto.

Per quel che riguarda Il ventre del pitone, l’impostura sarebbe stata ampiamente credibile dal momento che - diversamente da Sortilegi, i cui racconti, tranne uno, sono effettuati da maschi in maggioranza bianchi - qui è una donna, Cunégonde, che funge nello stesso tempo da protagonista e da narratrice. E svolge le due funzioni con una tale verosimiglianza che ci si può chiedere come un siciliano, anche dopo lunghi anni passati in Africa, abbia potuto mettersi fino a questo punto nella pelle del personaggio. C’è qui un mistero che, a dispetto della mia intimità con Enzo Barnabà, per me resta insoluto. Questa prodezza, che non è il minore dei meriti del libro, può essere difficilmente apprezzata nel suo giusto valore. Infatti, se per l’eventuale lettore africano ciò che prova o racconta Cunégonde fa parte del vissuto quotidiano, al lettore europeo - e specialmente italiano - che non ha mai messo piede in Africa, continente che conosce soltanto per l’importunità dei «vucumprà», sfuggiranno non poche sottigliezze (le stesse che un etnologo avrebbe sottolineato e analizzato, servendosene per costruire la propria reputazione). Certo, c’è il pubblico, ancora abbastanza numeroso, di coloro che sono stati in Africa. Ma una volta tolti quelli il cui contatto con il continente si è limitato al boy (domestico, ndr), all’autista o ai negozi di souvenir, restano soltanto gli intenditori innamorati dell’Africa; che non sono poi tanti: alcuni etnologi e altri missionari smarriti. Costoro, come i responsabili della Emi, saranno certamente in grado di apprezzare l’impresa, ma saranno sufficienti a finanziarla?

Per gli altri, resta comunque l’interesse della storia, per di più proposta in una lingua gradevole. Può essere l’occasione di scoprire un volto autentico e mal conosciuto dell’Africa. Ed è qui che interviene la mia competenza ma anche il mio handicap. Ho scritto - peccato di gioventù - i racconti africani di Sortilegi, ma io non sono un vero scrittore e il mio libro L’altra Africa non è un romanzo. Il paradosso sta nel fatto che la complicità con Enzo si riannoda anche perché Il ventre del pitone fa in un certo senso parte dell’altra Africa, di cui in qualche modo non è che un aspetto vissuto dall’interno da un osservatore esterno! Nella mia analisi ho voluto, in effetti, descrivere come gli esclusi si autorganizzino e sopravvivano. Nelle periferie africane ho osservato tutto un vivaio di gente piena di creatività che coltiva l’arte di arrangiarsi, persone capaci di autorganizzarsi ad ogni livello: sociale, immaginario, tecnico e produttivo; Cunégonde è anche, a suo modo, una che si arrangia. Queste persone riescono a sopravvivere grazie alla solidarietà, mettendo in comune il poco che posseggono. Il più delle volte non sono né santi né mascalzoni. Si sforzano di cavarsela e di trar profitto dagli altri con più o meno onestà e scaltrezza (come si vede bene nel romanzo). Si trova il meglio e il peggio, e spesso presso la stessa persona, in funzione del contesto. Dal momento che dal punto di vista economico l’Africa non rappresenta più nulla - meno del 2% del Pil mondiale - si è sorpresi di trovarvi un po’ dappertutto una straordinaria capacità di produrre gioia di vivere, prodotto che noi occidentali siamo sempre meno capaci di fabbricare. In fin dei conti se queste persone che si arrangiano, che «frantumano i sassi», come si dice in Congo, riescono a produrre un minimo di valore d’uso, è perché c’è una grandissima ricchezza relazionale. Bisogna innanzitutto salutare la straordinaria resistenza - più precisamente la capacità di resilienza - dell’Africa. Malgrado le quattro ondate della globalizzazione (la tratta e il commercio triangolare che l’hanno svuotata del proprio sangue, la colonizzazione, lo sviluppo e infine i piani di aggiustamento strutturale), è riuscita a sopravvivere. La sopravvivenza di circa 800 milioni di superstiti ha qualcosa di miracoloso. L’altra Africa è l’Africa delle savane, delle foreste e dei villaggi, l’Africa delle bidonville e delle periferie popolari; in altre parole «la società civile», l’Africa delle conferenze nazionali. Un’Africa che vive, capace di autorganizzarsi nella penuria e di costruirsi, malgrado tutto, un’arte di vivere.

Tuttavia, La potenza dei poveri, per riprendere il titolo provocatorio del libro di Majid Rahnema e Jean Robert, si mantiene tale soltanto fino a quando i poveri possono preservare la sfera vernacolare, che purtroppo oggi è più che minacciata. L’arrivo massiccio dei prodotti di consumo di massa cinesi fa talvolta concorrenza agli artigiani locali del recupero che erano sopravvissuti alle esportazioni manifatturiere europee. I processi di individuazione, senza generare un vero individualismo, riescono a intaccare la solidarietà che lega l’universo alternativo. Infine, l’inquinamento senza frontiere rende sempre più invivibile un ambiente degradato. Una vera e propria società del consumo di seconda mano con le vecchie auto scassate, i telefoni cellulari che non funzionano, i computer di recupero e tutti gli scarti dell’Occidente, rode come un cancro la capacità di resistere nella dissidenza, tipica di chi si arrangia. In fin dei conti, non si può affermare che l’attuale mercificazione totale risparmi l’Africa. Vi assume la forma particolare della «zairizzazione», cioè dell’integrale commercializzazione e privatizzazione della vita politica. I rapporti sociali, l’accesso agli impieghi, ai titoli di studio, alle responsabilità politiche, tutto viene inglobato nella sfera mercantile. Il mercato colonizza lo stato molto più di quanto lo stato non colonizzi il mercato. L’esito del processo è quello che Jean-François Bayart ha chiamato «la via somala allo sviluppo», fondata sul traffico di droga, la criminalità di stato, l’industria dei sequestri, lo stoccaggio dei rifiuti tossici e così via. L’invasione dei media internazionali attraverso radio, televisione, internet e telefoni cellulari ha effetti corrosivi sui legami sociali: mediante la colonizzazione dell’immaginario, trasforma la povertà modernizzata in miseria e lancia migliaia di migranti verso un drammatico fuggifuggi. Basti pensare alla voglia dei giovani - tra cui Cunégonde - di lasciare quello che finiscono per considerare come un inferno per i paradisi artificiali del Nord, contro le cui porte andranno a frantumarsi. E anche se, come succede a Cunégonde, avviene il miracolo e, non se riescono a oltrerepassare quelle porte, la cosa lascia ferite che difficilmente guariscono. Anche questa è la lezione del bel libro di Enzo Barnabà.