La base di un rapporto sessuale è, per definizione, il consenso. Sì vuol dire sì. No vuol dire no.
Ma, troppo spesso, il no, inteso come dissenso al rapporto, sembra non essere sufficiente per qualificare un atto come violenza sessuale, sia a livello giudiziario, sia a livello mediatico, sia a livello di opinione pubblica, con buona crisi della tanto agognata cultura del consenso. Il "no" non basta, si è detto. E non basta perché c'è sempre e comunque una gonna troppo corta, un alcolico di troppo o un capello troppo curato ad aver provocato lo stupratore.
Risale al 1979 il primo processo per stupro trasmesso in diretta tv, da cui emergeva che, in qualunque parte del mondo si svolgesse un processo di questo tipo, la donna che aveva subìto violenza diventava la vera "imputata", qualificata quasi sempre come donna dalla moralità discutibile, quindi necessariamente consenziente al rapporto, "non essendo nemmeno così palese la sua ribellione nei confronti degli aggressori."
Era il 1979, la violenza sessuale era reato contro la morale e la donna che aveva subìto violenza era più indagata degli indagati. Oggi siamo nel 2016, la violenza sessuale è delitto contro la persona, ma una cosa non è cambiata: il processo morale e sociale alla donna che subisce violenza, valutata sulla base dei suoi rapporti personali, del suo stile di vita, della reazione che sembra aver avuto (o non aver avuto) nei confronti dello stupratore (reazione ovviamente mai abbastanza "forte" da essere equiparata ad un rifiuto. Sempre per il solito principio che dire di no non è sufficiente).
A me hanno insegnato che, a parte rare eccezioni, le indagini sulla personalità dell'imputato sono vietate da una specifica disposizione del codice penale (art. 220 c.p.), per impedire che la penetrazione all'interno della sfera più intima della personalità possa violare il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza.
Perché questo divieto non vale, nella prassi, per la donna che subisce la violenza? Strano questo principio di presunzione di non colpevolezza che garantisce l'indagato-imputato e non, invece, la persona offesa dal reato!
Due casi eclatanti.
27 luglio 2015. Viene pubblicata la motivazione della sentenza della Corte d'Appello di Firenze, che assolve con formula piena, "perché il fatto non sussiste", sei ragazzi, condannati in primo grado per violenza sessuale di gruppo nei confronti di una loro coetanea di 22 anni. E' il caso, noto, della Fortezza da Basso, in nome del luogo dove la presunta violenza si sarebbe verificata. Con la doverosa premessa che le sentenze si rispettano (sono certa che l'assoluzione sia stata il risultato di approfondite indagini e di un giusto processo), ma si possono criticare, magari in modo consapevole, l'aspetto maggiormente discutibile è il contenuto della motivazione, basata su una serie di giudizi morali sulla ragazza. La vicenda e' stata "incresciosa", si legge; "non encomiabile per nessuno", si continua; ma "penalmente non censurabile", si giudica alla fine. Del resto, la ragazza "è un soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso disinibito, creativo (creativo?), in grado di gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti occasionali", si motiva.
Ed il consenso? Vale ancora qualcosa?
La vittima non si è difesa, sostengono. Ma la letteratura scientifica spiega molto chiaramente le possibili reazioni automatiche, non volute, non scelte, del corpo, conseguenti ad un trauma. Mai sentito parlare, ad esempio, di freezing? Ovvero quell'immobilità, che è più una simulazione di morte, automatica e non consapevole, in virtù della quale, in una situazione di pericolo, non esce la voce quando vorremmo urlare, non riusciamo a muoverci quando vorremmo fuggire o reagire e ci dissociamo dall'esperienza traumatica che stiamo vivendo per sopravvivere?
Che senso ha, dunque, rimanere concentrati sulla apparente assenza di reazione fisica, piuttosto che indagare sul come e quando si sia manifestato il consenso? Ma, abbiamo detto, sembra che il "no" non basti.
E ancora. 3 maggio 2016. Un noto giornalista, scrittore, autore televisivo, già parlamentare europeo, chi-più-ne-ha-più-ne-metta, commenta in diretta tv lo stupro e l'uccisione di Fortuna, la bambina di 5 anni abusata e gettata da una terrazza per aver rifiutato un rapporto sessuale con il vicino di casa di 43 anni, oggi. L'analisi del giornalista, scrittore, autore televisivo, già parlamentare europeo, si concentra sui boccoli della bambina, sul suo "modo di atteggiarsi da sedicenne", "perché guardi com'è pettinata e come sono i boccoli che cadono!" La domanda sorge spontanea: come devono cadere i boccoli di una bambina? O come devono cadere i boccoli in generale?
Si prosegue con la figura della madre (ma Fortuna aveva anche un padre, prima che le togliessero la vita, un padre che, guarda caso, non viene mai nominato, tantomeno in questo processo mediatico fatto alle figure femminili, solo femminili!, della vicenda): una di quelle "mamme di classe umile, che scaricano sulle figlie i loro sogni, truccandole e abbigliandole come avrebbero voluto essere alla loro età."
Quindi, fatemi capire. Il fatto che esitano famiglie diverse dai nostri standard perbenisti legittima il fatto che l'attenzione, con relativi giudizi, sia spostata dallo stupratore-assassino alla vittima di violenza? Legittima, forse, che tutta la questione del rifiuto dell'atto sessuale passi in secondo piano?
Si può essere vittime di violenza sessuale anche se il nostro stile di vita non e', secondo quegli stessi canoni perbenisti, lineare o la famiglia da cui proveniamo non è quella degli spot pubblicitari.
Arrivederci, cultura del consenso. Ci rivediamo in tempi migliori.
Cristiana Sani