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Dieci anni dopo (Ennio Remondino)

Ho iniziato ad occuparmi di guerre più o meno dieci anni fa, prima col grande inganno televisivo del Golfo, e nel ’92 con la tragedia bosniaca. Da allora non ho più smesso. Dieci anni di guerre dopo, nello stesso spirito di questa iniziativa giornalistica, ho sentito il bisogno di ragionare attorno alla guerra e alla informazione. “La televisione va alla guerra”, ho proposto in un libro, ma la riflessione credo possa valere per tutti i frammenti del comunicare.
Rilancio qui alcune di quelle considerazioni. Ho scoperto, ad esempio, che la guerra praticamente non ha famiglia, nasce orfana e muore senza figli. La guerra non ha mai un’origine che valesse la pena di raccontare prima. La guerra in televisione e sui giornali, dura fin che durano le immagini e le emozioni utilizzate per raccontarla. Le guerre invisibili non si raccontano, quindi non esistono. Quando muore, la guerra non lascia orfani, strascichi, conseguenze che valga la pena di raccontare successivamente, così che ogni guerra, anche se scaturisce sempre da una precedente, appare nuova di zecca, bella e pronta per essere proposta come una novita’ attorno a cui raccogliere le nostre attenzioni e a stupirci. E’ la cultura della “non memoria”, che ha il suo veicolo di comunicazione affine nella televisione, e come supporto complice, l’informazione scritta, sempre piu’ spesso ridotta al ruolo di fureria della trincea televisiva.

La guerra senza immagini rischia di non esistere. L’intervento militare della Nato contro la Jugoslavia di Milosevic, ha avuto bisogno delle immagini ripetute del dramma dei profughi dal Kosovo per ottenere il consenso politico e popolare alle sue motivazioni. Le poche immagini sugli effetti di quei bombardamenti, hanno ridotto la discussione sull’opportunità’ e le conseguenze dell’intervento, ad una pura questione ideologica fra partiti e schieramenti. Chi era contro e chi era a favore, senza documenti e testimonianze che potessero provocare ripensamenti. Lo scannatoio della Bosnia, con le sue 250 mila vittime ed i suoi milioni di profughi è stato certamente il dramma europeo più cruento dopo la seconda guerra mondiale. Eppure, quel massacro è marcito per quattro anni prima di produrre lo sdegno necessario ad interromperlo. Guerra poco televisiva quella di Bosnia, inquadrature strette di mille piccole tragedie, e poco spazio per le immagini simbolo. Quando la guerra ha già l’immagine che la motiva e la circonda di consenso, come nel caso delle Torri gemelle di New York, il resto giornalistico può essere di troppo, addirittura sgradito.

La guerra nella comunicazione, è come un verbo irregolare che deve essere declinato con regole sue. La guerra ha soltanto l’indicativo presente. Non c’è passato prossimo o remoto, e non c’è il tempo futuro. Anche il condizionale è sconsigliato, soprattutto quando parli di ragioni e di torti, di conseguenze e di vittime. La guerra ha bisogno di Buoni e di Cattivi, senza toni di grigio a suscitare dubbi. La guerra è certezza. La guerra pesa sul genere femminile, ma è sempre maschia. La guerra è sempre voluta dal Cattivo ed è subita dal Buono. La guerra non è mai una scelta, ma un dovere imposto dalla storia. La guerra, per chi la combatte, è sempre patriottica, o idealistica o umanitaria. La guerra è lo spettacolo televisivo di maggiore ascolto e la prima pagina di maggior tiratura, i cui costi principali sono sopportati da altri.

Ci sono dei silenzi più rumorosi delle bombe. Troppo fragore di esplosioni e raffiche di commenti quando la guerra è in corso, e troppo silenzio quando l'evento bellico lascia il posto alla difficile pacificazione. Finito il tempo della "prova di forza", della "sfida necessaria" e via esaltando, diventerebbe inevitabile confrontarsi con le conseguenze delle scelte precedenti, ed in genere questo non è comodo per nessuno. Non è utile alla politica, che preferisce in genere mettere la sordina a quanto rimane in sospeso o non è facilmente risolvibile con slogan accattivanti o con apparenze di decisionismo di governo. Non è gradito al mondo dell'informazione, che dovrebbe rimettere in discussione gran parte delle affermazioni dei propri editorialisti, molte volte “volontari della prima ora” alla chiamata generale alle armi. Finita la guerra, scatta in genere l'ordine di consegna nelle caserme redazionali per tutti quanti, cronisti e opinionisti, ad evitare che il confronto fra le parole del prima, ed i fatti del dopo, possa creare eccessivi imbarazzi.

Come spesso accade, le contraddizioni nascono dal troppo o dal troppo poco. Troppi avvenimenti uno dopo l'altro da elencare nella fase bellica, e troppo poco tempo, sensibilità e voglia, per offrire i precedenti, le cause, ed altri spunti di analisi. Quando il conflitto cede nuovamente la parola alla diplomazia parlata, sconti l'overdose di attenzione precedente, e pure avendo lo spazio per riflettere e verificare, il "mercato della notizia" impone di passare ad altro. Comodo e molto ipocrita. Fra battute redazionali ed analisi semi serie, c'è chi ha provato persino a raccogliere in "teoremi giornalistici" alcuni di questi processi.

La prima legge che regola il processo di rapido annullamento della guerra a battaglia finita, potremmo chiamarla, "della dissolvenza". Tanto più un fatto è stato clamoroso, imposto a lungo in copertina, tanto più velocemente scivolerà via, si diluirà nelle pagine interne e delle edizioni minori, sino a dissolversi. Ci sono situazioni di conflitto rappezzate alla meno peggio con l'invio di acclamati contingenti militari internazionali: "Soldati di Pace" è lo slogan che li accompagna alla partenza, salvo dimenticarceli dove li abbiamo mandati. Basta qualche mese perché le sole righe scritte su quella missione, siano quelle sul bilancio statale, alla voce "uscite". Ieri è stato l'Afghanistan a concentrare tutte le nostre attenzioni mediatiche, ma il prossimo fronte della guerra al terrorismo che deciderà George W. Bush, cancellerà definitivamente i nostri "mujaheddin" dal telegiornale, lasciando quella terra martoriata alle esclusive cure del "reporter al seguito", cui ha diritto anche l'ultimo sottosegretario in visita di Stato.

La potenza informativa in guerra, vede di solito schierati massicciamente gli eserciti giornalistici dei Paesi ricchi, una sorta d’Alleanza Televisiva Atlantica. Fra le strutture giornalistiche in guerra trovi tutto e il suo contrario. C’e’ lo spreco delle testate ricche o comunque motivate ad occuparsi di politica estera e d’interessi globali, e c’e’ la lesina dei network che esprimono interessi nazionali e commerciali di piccolo cabotaggio. Nel modello militare della Nato, per un soldato combattente, in prima linea ci sono alle sue spalle, altri quattro che garantiscono il coordinamento, la copertura, le comunicazioni e la logistica. Nell’esercito italiano dell’informazione di guerra, può capitare di trovarti in trincea e di scoprire di non avere alle spalle, non soltanto la copertura logistica, ma neppure un esercito.

Semplice problema di punti di vista, alla fin fine. Qual è la vera prima linea informativa? Il fronte di Piazza Montecitorio (di Capitol Hill, di Westminster, dell’Eliseo), o quell’Afghano, Irakeno o Macedone? E’ più pericolosa un’interpellanza parlamentare o un tiro di cecchino? Una convocazione di fronte alla commissione parlamentare di vigilanza, o l’esplosione di una granata di mortaio? Dalle risposte che i diversi gruppi editoriali danno a queste domande, nascono le diverse attenzioni giornalistiche su quanto accade all’estero, e le risorse che ad esso vengono dedicate. Forse è per questo che nelle guerre in cui hai la possibilità di raccontare stando sulla linea di fuoco, da italiano hai l’impressione di essere chiamato a correre un rally da brivido avendo alle spalle, al massimo, l’assistenza commerciale Fiat.

Nel dispiegamento in guerra dell’informazione, esistono gli eserciti professionali e quelli di marmittoni. Complessivamente l’Europa continentale si classifica, giornalisticamente parlando, fra gli eserciti nazional popolari della leva di fronte all’efficientismo dei soldati di professione. In quest’ultima categoria ci sono innanzi tutto i ricchi marines statunitensi. Per una Christiane Amanpour in prima linea, la Cnn muove l’aviazione privata, containers d’attrezzature, squadre logistiche di coordinatori, organizzatori, interpreti e producers, fitness pret a porter, e Coca cola. Un po’ d’anni fa a Bagdad, trasmettendo dalla postazione televisiva vicina a quella di Christiana, fra la montagna di materiale Cnn, vidi anche una poderosa cassaforte da diversi quintali giunta via aerea dagli Stati uniti poco prima delle loro bombe.

So più di televisione che di informazione scritta, ma da alcuni riscontri fatti con i colleghi che le notizie le stampano, la situazione editoriale sembra essere proporzionalmente la stessa. Continuo dunque sul mio terreno televisivo sperando di dire cose di interesse generale. Cifre e forze immaginabili quelle messe in campo dalla solita Cnn sui grandi avvenimenti internazionali. Gli ultimi dati complessivi disponibili riguardano la guerra del Kosovo. Il network di Turner, per seguire quel conflitto, aveva preventivato un investimento di 150 mila dollari il giorno, l’uso delle tecnologie di trasmissione più sofisticate e costose, e la mobilitazione di 60 persone. Sessanta fra giornalisti e tecnici targati Cnn, implicano a loro volta centinaia di collaboratori locali occasionali. Un esercito rimasto in quell’occasione, quasi impotente ai margini del campo di battaglia, mancando il colpo irakeno della “esclusiva”. In Afghanistan e’ stata la televisione araba Al-Jazeera ad intaccare il monopolio informativo statunitense. Il solo tentativo in corso di mettere in discussione il ruolo del potente network americano, come occhio universale della nuova Era dell’informazione.

Fra le televisioni dell’era globale, il mondo di Liliput, è complessivamente quello europeo rispetto al gigante americano. Secondo l’Istituto di Economia dei Media, un network statunitense dei primi anni ’90 spendeva per la copertura estera, mediamente 50 milioni di dollari ogni anno. Cifre da diritti sul calcio, in Italia. La caduta del muro di Berlino e la concorrenza della neonata Cnn (1980), abbassano le attenzioni e gli investimenti. Nel 1992, per il Foreing Bureau, la redazione esteri, l’ABC ha speso un milione e 37 mila dollari, la CBS 736 mila dollari, la NBC 749 mila dollari. Per la Foreing Policy Coverage, la copertura della politica estera e per le corrispondenze, l’ABC spese allora 612 mila dollari, la CBS 509 mila, il NBS 585 mila. Anno di disattenzione nei confronti del mondo quel 1992 per l’America del dopo Muro: solo quattro milioni e 228 dollari fra i tre principali network generalisti, rispetto ai cinque mila 200 del solo 1988, quando ancora occorreva fronteggiare il comunismo.

“Il sogno dei generali è quello di non avere stampa attorno”, denuncia oggi Peter Arnett, il narratore della Guerra del Golfo, di fronte agli episodi di censura nel conflitto “anti terrorismo” in corso. Ogni guerra pone il problema della censura. Non c’è una volta che i militari non l’abbiamo chiesta, sempre per obiettivi nobili e patriottici. Interessi divergenti fra democrazia e sicurezza, ammettono i generali quando hanno il tempo per fare i democratici. In guerra no, non ne hanno il tempo, e per fare bene il loro mestiere, pretenderebbero di decidere cosa i cittadini possano o non possano sapere o vedere. La versione italiana al problema, in altri tempi fu, “Taci, il nemico ti ascolta”. Oggi, tempi di democrazia sbandierata, non si parla più di censura, ma di “senso di responsabilità”. La Casa Bianca ha chiesto l’oscuramento televisivo sui comunicati e le video cassette di Bin Laden. “Il nostro non è un ordine, è un appello”, ha precisato il portavoce di Bush, Ari Fleisher. “Un richiamo al senso di responsabilità di voi che lavorate nel mondo dell’informazione”. “Censura umanitaria”, l’ha chiamata Curzio Maltese, su Repubblica, esercitata col “guanto di velluto”, piena di buone intenzioni, ma sempre censura.

Sulla rilevanza strategica dell’informazione (e del suo controllo) in situazione di conflitto, sono stati scritti decine di volumi, manuali operativi distribuiti a tutte le forze armate di ogni esercito del mondo, studio Geo-strategici da accademie, ed ordini operativi segretissimi. Non c’e’ ufficiale superiore che alla Scuola di guerra non sia stato costretto ad imparare questo nuovo vocabolario: propaganda, guerra psicologica, pubbliche relazioni, evento, opinione pubblica, target, immagine, persuasione, formazione del consenso.

Collin Powell, l’attuale Segretario di Stato Usa, già dai tempi della Guerra del Golfo, quando ancora faceva il generale, spiegò come all’interno delle forze armate, i sistemi informativi non dovessero piu’ essere considerati un servizio, ma “una vera e propria arma”. Per il Capo di stato maggiore dell’US Army, il generale Sullivan, “L’informazione è l’equivalente della vittoria, sul campo di battaglia”. Sempre un generale americano, Fogleman, capo di stato maggiore dell’aeronautica, già nel 1995 ci spiegava che le guerre hanno ormai cinque diverse dimensioni. Le classiche “terra”, “mare”, “cielo”, la più recente dimensione “spaziale”, con satelliti spia ed aerei radar Awacs ed infine la quinta e decisiva dimensione delle “operazioni sulle informazioni”. “Il dominio delle informazioni -viene precisato- è il fattore critico per il successo militare nel futuro” e per non lasciare spazio a dubbi, il generale cita addirittura Churchill, nel suo noto paradosso su come in guerra, la verità è tanto preziosa da dover sempre essere tutelata da una buona scorta di bugie.

Rileggi alcune vecchie regole del giornalismo, l’elenco delle tecniche classiche di manipolazione delle notizie, e ti sembra di avere per le mani il manuale delle Giovani Marmotte. “Distorsione dei fatti, opinioni camuffate da notizie, omissione o focalizzazione selettiva, decontestualizzazione, sbilanciamento delle notizie, ecc…”. Ti guardi attorno e scopri che siamo arrivati ormai alla “disinfotainment”, la disinformazione attraverso l’intrattenimento, la rappresentazione romanzata della realtà. Scopri che esistono istruzioni su come spacciare notizie false, su come far diventare le notizie l’evento stesso, e su come trasformare la notizia in fonte. Scopri che accanto ai manuali di guerra informativa, esistono quelli di “contro guerriglia” informativa. “L’informazione, come la guerra si fonda sull’inganno”, è il confortante presupposto, che ci sta conducendo (o forse già ci siamo), ad una guerra basata sul “predominio dell’intelligence, della tecnologia e della simulazione”. Alle scuole di giornalismo spieghiamo ancora oggi la regola delle “cinque W”, who, what, when, where, why, per confezionare correttamente una notizia. Il giornalismo si affatica a mandare a memoria le sue antiche tabelline, mentre nelle accademie militari, oggi studiano la “information warfare”, la “cyber war”, e la “netwar”.

I generali sembrano i soli ad avere delle idee abbastanza chiare sul ruolo dell’informazione in guerra. “L’informazione è potenza, ed è un fattore che sta modificando la politica, la strategia, e l’economia”, spiega il generale Carlo Jean, facendo riferimento al famoso “fattore Cnn”. Secondo quella regola, le pressioni dei media a favore dell’intervento militare, prima interferiscono sull’estensione del conflitto e sugli obiettivi da colpire, ed altrettanto rapidamente, al primo insuccesso parziale o alle prime perdite, si trasformano in critiche e richieste di ritiro. Gli insuccessi sul campo li puoi anche nascondere, i morti No. Dal “fattore Cnn”, nasce dunque l’obbligo militare attuale, della “opzione zero”, zero morti fra i nostro soldati, e la scelta dei massicci bombardamenti da alta quota adottata dalla Nato in Jugoslavia e dagli americani in Afghanistan, anche a costo di fare molte più vittime fra i civili delle file avversarie. Il “fattore Cnn” si determina, ovviamente, soltanto per i morti di casa.

La guerra della comunicazione, e la comunicazione come forma di guerra, svelano oggi gli alti comandi militari. Portando avanti il paradosso, se la comunicazione e’ guerra, la guerra diventa uno strumento per comunicare, una forma di dialogo. “Ogni bomba è un messaggio con duplice significato. Da un lato contiene un invito a trattare o accettare le condizioni che si vogliono imporre, dall’altro lato è una minaccia di bombardamento successivo”. Spregiudicato ma chiaro il generale Jean, che aggiunge, “L’uso della forza rappresenta solo uno strumento di natura comunicativa”. In questo “dialogo” a colpi di cannone e di missili, si aggiunge la comunicazione nei confronti delle opinioni pubbliche, quella di casa cui chiedi il consenso necessario all’iniziativa militare, e quella dell’avversario che devi riuscire ad influenzare in senso opposto. In generale Jean ha in gran considerazione il potere dell’informazione e della televisione in particolare, al punto da attribuirle la possibilità di interferire “sulle decisioni sia politiche, sia strategiche”. “Spesso le opinioni pubbliche sono informate di un avvenimento prima dei governi (…). Politici e militari si trovano spesso costretti a reagire in tempi rapidissimi, sotto la pressione dei media (…) quasi nelle condizioni di chirurghi obbligati ad operare in sale piene dei parenti emozionati e vocianti, ciascuno dei quali ha il proprio suggerimento da dare”.

Se l’informazione è in grado di condizionare la conduzione politica e strategica di una guerra, è obbligo istituzionale di chi dirige politicamente e strategicamente un conflitto di condizionare a sua volta l’informazione, di ingannare, di manipolare, di subordinare all’interesse che lui ritiene primario (la guerra), l’interesse ed il diritto del cittadino ad essere informato. Ed eccoci da capo al “conflitto di interessi” chiave della nostra Era dell’informazione, il conflitto fra il diritto alla democrazia ed il diritto alla sicurezza. Quanta democrazia mi chiedete in cambio della sicurezza, e quale sicurezza ci proponete, rispetto a quali minacce? Il contratto sarà rescindibile? Chi e’ chiamato a fare da arbitro? Chi ne ha il diritto e soprattutto il potere?