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Disobbedienza e diritti: quel pugno chiuso alzato in un guanto nero

Bisogna sforzarsi di non guardare i due a testa bassa, il pugno chiuso alzato in un guanto nero, calze nere e niente scarpe, sul podio. Bisogna concentrarsi sull’atleta di sinistra, bianco, lo sguardo dritto, le braccia lungo i fianchi.


Bisogna ricordare alcune cose, di quel 1968 perennemente associato al Maggio francese. Il 16 marzo il massacro di My Lai, il 4 aprile l’assassinio di Martin L. King, il 5 giugno tocca a Bob Kennedy. Aggiungiamoci il Biafra, i carri armati sovietici sulla primavera di Praga, la strage di piazza delle Tre Culture poco prima che cominci l’Olimpiade messicana.
Bisogna sapere che la finale dei 200 metri la vince Tommie Smith in 19”83 (primo a scendere sotto i 20”) davanti a Norman (20’06”) e Carlos (20’10”). Carlos parte forte, troppo forte. Smith lo passa a 30 metri dalla linea e corre gli ultimi 10 a braccia alzate. Norman ai 100 metri è solo sesto, viene fuori nel finale, supera Carlos negli ultimi metri. Bisogna sapere che nel ‘67 Harry Edwards, sociologo a Berkeley, voce baritonale, discreto discobolo, ha fondato l’Ophr, Olympic program for human rights. L’idea è che gli atleti neri boicottino i Giochi, ma è difficile da realizzare. Chi aderisce porta il distintivo, una sorta di coccarda, ed è libero di manifestare la sua protesta come crede. Smith e Carlos, accolti alla San José perché bravi atleti, a loro volta studenti di Sociologia, portano il distintivo e vogliono manifestare.

Bisogna anche avere un’idea sull’età dei tre sul podio. Tutti nati nel mese di giugno. Smith nel Texas, settimo di undici figli. Ha 24 anni. Suo padre raccoglie cotone. Norman è il più anziano, ha 26 anni, suo padre è macellaio, famiglia molto credente e vicina all’Esercito della salvezza. Carlos ha 23 anni, è figlio di un calzolaio, nato e cresciuto ad Harlem.

Appena giù dal podio la loro carriera sarà finita, bruciata, e la vita un inferno. Ma loro non lo sanno e, se lo sanno, non gliene importa.

Nel sottopassaggio che va dagli spogliatoi al podio Norman assiste ai preparativi dei due americani. Tutto è fortemente simbolico, dalla mancanza di scarpe (indica la povertà) alla collanina di piccole pietre che Carlos mette al collo (ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato).
Smith e Carlos spiegano. E Norman dice: «Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti». Così anche Norman sistema la coccarda sulla sinistra della tuta. C’è un problema, Carlos ha dimenticato i suoi guanti neri al villaggio, mentre Smith ha con sé quelli comprati da Denise, sua moglie. «Mettetevene uno tu e l’altro tu», consiglia Norman. Così fanno. Smith alza il pugno destro e Carlos il sinistro.

I due americani furono subito espulsi dai Giochi e, in patria, minacciati di morte, spiati dall’Fbi, boicottati nella ricerca dei posti di lavoro. Norman non fu espulso, ma l’Australia gliela fece pagare salata. "Io penso che tutti gli uomini nascano con gli stessi diritti", disse lui in quei giorni. Era una verità e insieme uno scandalo, "la politica che entra nello sport" (già, perché nel 1936 a Berlino cos’era se non un immenso spot per Hitler?). Peter Norman è lo sprinter migliore che l‘Australia abbia mai avuto: il suo 20"06 di Messico ’68 gli avrebbe consentito di vincere l’oro a Sydney nel 2000, detto di sfuggita. La federazione australiana non lo convocò per Monaco 1972, anche se aveva superato tredici volte il limite di qualificazione dei 200 e cinque volte quello dei 100.
Ma da lui l’Australia non voleva farsi rappresentare. Non ci furono movimenti d’opinione per Peter Norman, era semplicemente cancellato. Si guadagnò da vivere facendo l’insegnante e rimanendo vicino al movimento sindacale. Non fu coinvolto nell’organizzazione dell’Olimpiade australiana né tantomeno invitato allo stadio. Cardiopatico, con tre bypass, stempiato e bianco di baffi e capelli, morì d’infarto il 3 ottobre 2006.

Smith e Carlos non avevano mai più rivisto Norman, ognuno la sua vita, i suoi problemi.
Quando sanno che Norman è morto, vanno al funerale e portano la sua bara, sulle note di "Chariots of fire". Dice Smith: "Peter non ha girato gli occhi dall’altra parte, e un bianco poteva anche farlo". Dice Smith alla famiglia di Norman: "Ragazzi, avete perso un grande soldato. Per me era come un fratello". E tornano negli Usa. Il 9 ottobre, giorno del funerale di Norman, da allora per la federatletica americana è il Norman’s Day. Mentre il boicottaggio dell’Australia continua, a livello ufficiale. Uno dei nipoti, Matt, ha girato un filmdocumentario ("Salute") sulla vita di Norman, molto apprezzato dal pubblico.

Ho raccontato questa storia perché da qualche parte ci dev’essere uno spazio, non necessariamente uno stadio, dove l’etica incontra l’epica, e si stringono la mano, forse s’abbracciano (....). L’epica, vai a sapere se deriva da epos o da epo, ma questi sono affari dell’etica (...). Non l’ho raccontata per dire che il mondo è piccolo, ma per dire che il cuore è grande. L’ho raccontata perché in quel posto, da qualche parte, Norman sta organizzando una corsa sui 200 (...).

Gianni Mura