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Donne in Iraq (Natasha Walzer)

Tratto da "Nonviolenza. Femminile plurale", n. 66 del 1 giugno 2006
(Traduzione di Maria G. Di Rienzo dell'articolo pubblicato su "The Guardian)

Le donne in Iraq stanno vivendo un incubo nascosto all'occidente. Una di esse è diventata regista proprio per aprire a noi una finestra su ciò che le donne sopportano.
Rayya Osseilly, ad esempio, è una medica irachena che si prende cura delle altre donne nell'assediata città di Qaim. Non è sorprendente che la sua testimonianza non sia felice. "Non provo mai la sensazione che l'oggi sia migliore di ieri", dice nel filmato. Guardando ai resti bombardati dell'ospedale in cui lavora, è chiaro contro quali difficoltà stia lottando.
Non è usuale che sia dia uno sguardo più da vicino a cosa accade alle donne in città come Qaim, che ha subito un pesante attacco dalle truppe americane l'anno scorso. L'accesso ai media occidentali è severamente ristretto. Ora, tuttavia, abbiamo uno squarcio di questa realtà grazie ad una donna irachena che ha viaggiato per l'intero paese e ha parlato con vedove e bambine, dottoresse e studentesse, cercando la verità delle vite delle sue connazionali. La regista vive a Baghdad e vuole mantenere segreta la propria identità per timore di ritorsioni, perciò la chiamerò Zeina. Quando le ho parlato al telefono, la prima cosa che le ho chiesto era proprio perché sentiva il bisogno di nascondere il suo nome, e nella sua risposta non ha fatto alcuna distinzione fra il governo e gli 'insorgentì, nel modo in cui noi la facciamo. "Temo il governo e le milizie settarie", ha detto, "I pericoli in Iraq vengono dagli statunitensi, dalle milizie settarie, e naturalmente anche dai criminali, le gang, i rapitori".
Zeina ha deciso di realizzare questo film perché le cose che lei vede ogni giorno non sono viste dal resto del mondo. "Nessuno si accorge di cosa stiamo passando. Tutti gli iracheni sono psicologicamente traumatizzati da ciò che sta accadendo. Conosco bambini che cominciano a tremare se solo sentono il suono di un aeroplano o vedono un soldato. Ho visto intere famiglie smembrate. Ho visto donne costrette a prostituirsi a causa della miseria delle loro famiglie".
Zeina non era una sostenitrice del regime di Saddam Hussein. Durante quel periodo, lavorava come giornalista e traduttrice di critica letteraria. "A livello politico, prima della guerra, non ero contenta. Molte cose erano ingiuste. Non avevamo libertà di parola o di espressione. Ma non avrei mai immaginato che le cose cambiassero in peggio in questo modo. Non avevo mai immaginato una situazione del genere".
Sin dall'inizio delle riprese, la cinquantenne regista sapeva che si sarebbe assunta dei rischi. "Viaggiavo in compagnia di altre due o tre persone, in un'automobile modesta. Quando viaggiavamo verso Qaim dovemmo attraversare il deserto, perché gli americani avevano bloccato la strada. Era buio quando arrivammo a destinazione, e proprio di fronte a noi si gonfiava una nuvola di polvere attraversata da lampi. Stavamo andando giusto incontro ai fucili.
La guidatrice si buttò fuori dalla strada così in fretta che per poco non ci rovesciammo. Poi, mentre stavamo filmando l'ospedale bombardato ed eravamo saliti sul tetto, gli statunitensi cominciarono a spararci. Penso che non volessero ucciderci, ma solo spaventarci. Volevamo mostrarci chi comandava".
Le riprese del gruppo che trova rifugio dalle fucilate in un ospedale distrutto sono nel film. Invero, il film che è il risultato del viaggio di Zeina non è un prodotto ripulito, ma piuttosto una serie di sguardi parlanti che entrano in profondità nelle vite delle donne. Spesso lo spettatore si sente frustrato, desideroso di maggiori spiegazioni di quel che succede, ma data la situazione in cui sono costretti i giornalisti, e che ha reso la maggior parte dell'Iraq invisibile, si perdonano volentieri alla pellicola tutti i suoi limiti.
Il film è particolarmente efficace nel catturare la struttura della vita familiare in condizioni di totale insicurezza, ed una delle sezioni si concentra sulla storia di una bambina di otto anni, sopravvissuta all'attacco dell'automobile in cui viaggiava con suo padre, sua madre ed altri iracheni. Fu trasportata a un ospedale militare, e per tre mesi se ne perdettero le tracce. La sua famiglia non fu informata di dove si trovasse, e nel frattempo la bambina subiva interrogatori in cui le mostravano fotografie di cadaveri chiedendole di identificarli. Il nonno riuscì infine a rintracciarla a Baghdad, e quando nel film la vediamo singhiozzare in grembo all'uomo, sentiamo quasi fisicamente la frustrazione della famiglia: non vi è un'autorità che risponda di ciò che è accaduto, e che possa dar risposta alla loro rabbia.

Zeina mostra anche, e in un modo che sicuramente dovrebbe suscitare una pausa di riflessione anche in coloro che qui in Gran Bretagna sostengono la guerra, come le vite delle donne siano state colpite dalla crescita dei fondamentalismi religiosi che hanno preso piede nel vuoto di potere imperante. "Alla tv e sui giornali c'è una propaganda continua sulle donne", racconta Zeina, "È disgustosa, e non ha nulla a che fare con l'Islam, ma solo con il rinchiudere le donne nelle case e privarle dei loro diritti". Per mostrare gli effetti negativi di questi sviluppi, Zeina ha viaggiato sino a Bassora. Per chi ha seguito l'evolversi della situazione nel sud dell'Iraq, il fatto che le donne vi vengano costrette ad indossare l'hijab e si impedisca loro di vivere liberamente le loro vite, non è una novità. Ma il significato di questo stato di cose lo capisci veramente quando vedi giovani donne e i loro familiari narrare di minacce di morte e di pallottole inviate a scopo intimidatorio perché una ragazza faceva sport, o non indossava la sciarpa in testa.
Come Zeina sottolinea, questo tipo di esperienza è nuovo per la maggioranza delle donne irachene, che hanno goduto maggior libertà economica e sociale prima dell'occupazione. "Qualche tempo fa stavo riguardando le foto di mia zia al college, negli anni '60. Indossa calzoncini corti e canottiera, e fa sport nei campi della scuola. E poi ho guardato le foto delle studentesse di oggi, nello stesso college, coperte di nero dalla testa ai piedi, con le facce nascoste".
Zeina non ha dubbi nel ritenere l'occupazione la maggior responsabile di queste situazioni: essa ha dato ai settarismi l'opportunità di fiorire.
Ride, semplicemente, quando le chiedo se si sente grata per la democrazia irachena. "Democrazia? Quale? Non abbiamo democrazia, qui. La democrazia di cui parla Bush è una struttura completamente vuota, che ha le sue basi su interessi settari ed etnici. Che democrazia hai quando temi che la tua vita sia in pericolo, o che tuo marito venga ucciso, se solo esprimi te stessa liberamente? Questa democrazia è una brutta barzelletta".
Rispetto all'occupazione, i pareri delle donne irachene sono divisi quanto quelli degli uomini, e nell'Iraq occidentale ho sentito io stessa donne inneggiare alla guerra statunitense. Ma è difficile resistere alla forza e alla passione con cui Zeina descrive il caos in cui la guerra ha precipitato l'Iraq.
E desidera molto continuare a documentare la situazione in cui si trovano le donne, nonostante gli strettissimi limiti in cui è costretta a lavorare.
"Mi sento molto impedita. Voglio davvero raccontare delle intere famiglie arrestate, dei corpi trovati, delle torture. Ma se non sei un giornalista che lavora con gli americani, con il loro permesso, la tua vita è in serio pericolo quando dai testimonianza su questi fatti". Nonostante i pericoli, Zeina è ansiosa di comunicare la realtà che vede, e vorrebbe che noi la ascoltassimo: "Vorrei che le persone in Gran Bretagna capissero che l'occupazione dell'Iraq non fa gli interessi nè del loro paese nè del nostro. I vostri soldati muoiono, e nulla migliora per il popolo iracheno.
Al contrario, la situazione sta andando di male in peggio, in special modo per le donne".