Gli ultimi fatti di cronaca legata ai fenomeni di corruzione nelle grandi opere, oltre alla valutazione sulla reale necessità delle stesse, pone sicuramente, con forza, interrogativi e sfide.
Generalmente le forze politiche, basta rileggere i proclami, anche recenti, dei maggiori leaders di partito e movimenti, hanno ridotto l'etica della politica semplicemente al non rubare, al non corrompere o essere corrotti.
Certo questo è un prerequisito essenziale, che dovrebbe essere un fondamento per tutte le culture politiche, ma l'etica politica, credo, debba trovare un suo orizzonte, per nulla neutrale e scontato, ben oltre il semplice agire rispettando la legge, riscoprendo, nella speranza che ci siano, i fondamenti di una forza politica, le sue ragioni ideali, mettendo al primo punto la coerenza tra quegli ideali, la società che si vuole costruire, e gli strumenti e il metodo dell'agire politico, sia a livello locale, che nazionale e internazionale.
Il limite forte di questi ultimi trent'anni, e forse più, è l'avere messo da parte questo bisogno primario e fondante di coerenza, di linearità, di trasparenza... che non possono essere semplicemente ridotte a norme del codice, ma devono essere parte fondante del DNA del fare politica, che forse costituisce l'unica vera riforma del sistema politico.
Rimettere al centro l'etica della politica significa, a mio avviso, avere ben chiaro che contenuti e metodi dell'azione diventano inseparabili.
All'interno del metodo anche il linguaggio assume il suo significante decisivo, senza ridurlo semplicemente ad aspetto formale, svuotando le parole del loro significato profondo.
In tale ottica, come semplice semplice esempi su temi a me cari, abbiamo assistito, con troppa frequenza, all'uso, spesso ridotto a banalità o battuta da avanspettacolo, di riferimenti alla nonviolenza e alle pratiche di democrazia partecipativa, come se bastasse il semplice evocarli per diventarne paladini e autoproclamarsi garanti.
Quest'uso banale mi porta a condividere alcune riflessioni, forse superficiali, cercando, se possibile, di esplorare ambiti e aspetti che ritengo importanti, auspicando una maggiore consapevolezza, tenendo conto che sono elementi che spesso vengono presentati come parti fondanti e caratterizzanti nelle proposte politiche.
Iniziamo dalla nonviolenza, spesso accostata dal leader Grillo ad azioni forti, perché il rischio è proprio quello di svuotare il significato di un'azione e di un orizzonte politico, riducendolo semplicemente al “non far male fisicamente”.
La nonviolenza non è, assolutamente, un requisito obbligatorio del fare politica. Non è semplicemente il rispetto delle leggi che regolano l'aggressività. E' un preciso orizzonte e un agire che deve essere fatto interamente, che esplicita e svela i conflitti gestendoli e abitandoli senza timore, per modificare radicalmente il sistema sociale.
La nonviolenza non può essere ridotta semplicemente ad icona. E' un percorso complesso, articolato, per altro una delle tante opzioni dell'agire politico e nel costruire relazioni internazionali, che si fonda, pur partendo dal punto di vista degli ultimi e degli esclusi, nel riconoscimento dell'altro, delle sue istanze, dei suoi valori di riferimento, degli interessi che rappresenta.
A mio avviso la nonviolenza esalta il dubbio e la parzialità, facendoli diventare un elemento di forza nel costruire un sistema di diverso di convivenza e di relazioni (umane, sociali, economiche, ambientali...).
Non può convivere con pratiche in cui si demonizza l'altro come persona, lo si distrugge e ridicolizza. Non può convivere la nonviolenza con la negazione della propria parzialità. Non può convivere con l'uso formale dell'ascolto e della partecipazione.
Non è semplicemente uno strumento di una tattica strategica, è la pratica e l'azione di chi cerca di costruire un sistema politico evitando di lasciare sul campo vinti e vincitori.
Per questo trovo stridenti certi richiami alla nonviolenza da quanti si ritengono gli unici depositari di verità e di etica, con l'incapacità di costruire confronti e dialoghi, che non vuol dire condivisione, con culture e ambiti politici e culturali diversi.
Come già detto, la nonviolenza non è uno strumento indispensabile nella pratica politica, e non è nemmeno semplicemente il rispetto dell'altro, né il non far male all'altro.
E' invece la capacità di suscitare e gestire i conflitti, facendo si che in questa gestione siano attori tutti i protagonisti dei conflitti.
E' una pratica e un'orizzonte politico in cui metodo e contenuti dell'agire politico diventano inseparabili, non ammettono incongruenze... e il metodo si declina anche nel linguaggio, nella pratica e nella relazione.
Il punto quindi è che i movimenti politici si interroghino se la nonviolenza può essere, non un aspetto di un programma elettorale (perché in questo caso non si tratta di nonviolenza), ma un elemento generale e totale dell'azione politica.
Il punto quindi non è utilizzare un termine, ma interrogarsi sulla compatibilità e la coerenza con il programma e l'agire politico praticato... e se si adotta questo orizzonte diventarne conseguenti e coerenti.
Analogamente per quanto concerne i metodi partecipativi, di cui si fa un gran parlare, spesso alimentando confusione e ambiguità (primarie, consultazione on line...).
Forse varrebbe la pena interrogarsi sul perché si debbano ampliare gli strumenti e gli spazi della partecipazione.
Dal mio punto di vista la necessità di utilizzare strumenti partecipativi in una democrazia, che può benissimo essere governata semplicemente a maggioranze, nasce dall'assunzione della parzialità di una cultura politica come valore fondante, e quindi dal bisogno dell'incontro con altre culture.
In qualche modo è un tema speculare e simile a quello della nonviolenza, tenendo conto che quest'ultima per esplicitarsi ha bisogno della massima espansione dei luoghi e degli strumenti della partecipazione.
L'assunzione della parzialità della propria cultura di appartenenza, significa, nella chiarezza del proprio messaggio, avviare un confronto reale e sostanziale (non semplicemente invitare a mandare delle mail chiedendo giudizio su una proposta secca), con le diversità e le differenti valutazioni che emergono, e che sono un valore aggiunto nella discussione e nella elaborazione.
I metodi partecipativi non sono semplicemente un'espressione di consenso (il “mi piace” dei social network), ma comportano bisogno e volontà di comunicare e di praticare un ascolto reciproco vero, con l'obiettivo, se possibile, di arrivare ad una soluzione condivisa, in cui non si parla di vinti e vincitori.
La scelta, per me fondante, dello strumento partecipativo richiede davvero l'assunzione della propria parzialità e della necessità di costruire un punto di vista più avanzato dall'incontro e dalla sintesi con altre culture.
Così come la nonviolenza, anche lo strumento partecipativo richiede il riconoscimento dell'altro (sia come soggetto che come area culturale), richiede la capacità di esaltare le differenze e le divergenze, ha un senso solo se praticate in un terreno ampio, plurale, e non semplicemente tra chi la pensa come me o chi è iscritto alla mia rete
In un regime democratico la pratica assunta è la scelta per maggioranza, l'ulteriore passo verso metodi partecipativi, comporta un cambiamento profondo del modello di azione politica, inclusi i tempi, che sono oggettivamente diversi, perché devono costruire una sintesi che sia condivisa il più ampiamente possibile.
Ma la rinuncia a tempi celeri e pratiche egemoniche, permette di costruire un consenso reale sulle scelte che si vanno a fare.
Troppo spesso i richiami ai metodi partecipativi sono semplicemente una banalizzazione degli stessi, un semplicemente cercare di fare un'operazione di maquillage, che non modifica niente, culturalmente e politicamente, nella nostra azione politica.
Le pratiche partecipative, che sono elementi fondanti nell'azione nonviolenta, richiedono assunzione della propria parzialità, capacità di ascolto reale e vero, riconoscimento dell'altro, delle differenze, degli sguardi plurali...
Di tutto questo orizzonte io avverto la totale assenza nella pratica politica di tutti quelle forze che spesso fanno richiami, magari urlandoli, alla nonviolenza e alla partecipazione.
Io credo che sia necessario fare chiarezza nelle pratiche delle forze politiche e nei contenuti dei loro programmi, per evitare ambiguità e strumentalizzazioni che non sono necessarie per un'azione politica democratica.
Gino Buratti
Massa, 25 maggio 2014