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Hannah Arendt, I senza patria e noi (Alessandro Dal Lago)

[Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 ottobre 2006]

Nel 1969, mentre preparavo la tesi di laurea sul pensiero politico di Gramsci, il relatore mi suggerì di "dare un'occhiata" ai libri di Hannah Arendt, usciti negli anni precedenti. Capii ben poco di Vita activa, fui moderatamente interessato da Eichmann a Gerusalemme e liquidai come propaganda Le origini del totalitarismo. Lessi le tre opere come manifestazioni, qua e là interessanti, di un pensiero sostanzialmente conservatore.
Questo era il clima prevalente nella sinistra dell'epoca. Come è noto, in meno di vent'anni il giudizio cambiò. Il tentativo di omologare Hannah Arendt a una riscoperta del platonismo conservatore (Leo Strass, Eric Voegelin) durò lo spazio di qualche convegno accademico. Venne invece alla luce una stratificazione filosofica complessa - un pensiero che partiva da Heidegger per superare l'impoliticità di Sein und Zeit - e soprattutto si scoprì una lucida teoria dell'agire politico che suscitò un certo entusiasmo perfino nel marxismo più innovativo. Prima che sensibilità diverse (letterarie, femministe) accrescessero la varietà delle letture, Vita activa fu per molto tempo il testo centrale per l'interpretazione di quella che era ormai considerata figura centrale del pensiero politico novecentesco. Le origini del totalitarismo restarono invece un testo marginale. Sulla prima parte, dedicata all'antisemitismo, pesavano ancora le polemiche innescate dal celebre reportage sul caso Eichmann. La terza parte, sul totalitarismo in senso stretto, poteva sembrare, e non lo era, debitrice del clima della guerra fredda. La seconda (l'imperialismo), a mio avviso la più importante, fu interpretata probabilmente come un intermezzo in larga parte letterario, giacché discuteva il ruolo delle teorie razziste e imperialiste nella formazione dell'uomo del XX secolo. Non solo: quando il volume uscì, forse perché si era in piena decolonizzazione, l'imperialismo sembrava un residuo del passato. Insomma, le analisi storiche di Hannah Arendt, rispetto a quelle filosofico-politiche, erano in gran parte ignorate.
Oggi, la sezione sull'imperialismo mi sembra la più attuale delle Origini e senz'altro centrale in tutta l'opera arendtiana. Si tratta non già di una ricostruzione originale dei processi di lungo periodo che portarono alla crisi della prima guerra mondiale - su cui Arendt è debitrice dei grandi studi di Hilferding e Luxemburg, tra gli altri -, ma dell'analisi dei movimenti culturali e ideologici in cui si espresse l'espansionismo europeo.
Uno soprattutto è comune al nazionalismo esasperato, al colonialismo e all'imperialismo: il razzismo. Venticinque anni prima del Foucault di Bisogna difendere la società (e spesso utilizzando le stesse fonti) Arendt dimostra che l'invenzione delle razze è essenziale all'autorappresentazione europea e occidentale. Europa e occidente non possono esistere senza fondarsi sulla superiorità, comunque determinata, rispetto al resto dell'umanità. Superiorità volta per volta mitologica, biologica, razziale, culturale; quale ne sia l'espressione "scientifica", la pretesa ideologica di dominare gli altri sulla base della superiorità, della conquista, della forza o "per il loro bene" è l'essenza della coscienza europea - al di là delle forme più o meno stravaganti con cui la cultura letteraria e filosofica di fine secolo ha rappresentato tale pretesa.
Se la competizione imperiale, maturata per una ventina d'anni prima del 1914, contribuì alla prima guerra mondiale, la fine di quest'ultima, con la soppressione di imperi e stati, ha causato il primo esodo di massa del Novecento e l'invenzione dei moderni senza patria. Le pagine dedicate alle migrazioni forzate tra le due guerre e soprattutto alla fine dell'illusione nei diritti umani sono tra le migliori di Arendt in assoluto. Quello che apparve indiscutibile è che i "diritti" non precedevano logicamente gli stati ma ne erano la conseguenza. Chi, armeno, ebreo o balcanico avesse perso lo stato perdeva qualsiasi personalità giuridica. Gli stati europei non riuscirono a risolvere il problema delle stateless persons tra le due guerre, o meglio le confinarono nel limbo degli apolidi, i titolari del celebre passaporto Nansen, che Vladimir Nabokov, con uno dei suoi famosi giochi di parole, definì passaporto nonsense. Si gettavano le premesse per la sparizione di massa degli esseri umani praticata su larga scala a partire dalla seconda guerra mondiale.
Hannah Arendt scrive a proposito di profughi e migranti: "Gli individui costretti a vivere fuori di ogni comunità sono confinati nella loro condizione naturale, nella loro mera diversità, pur trovandosi nel mondo civile. (...) Il loro distacco dal mondo, la loro estraneità sono come un invito all'omicidio, in quanto la morte di uomini esclusi da ogni rapporto di natura giuridica, sociale e politica, rimane priva di qualsiasi conseguenza per i sopravvissuti".
Arendt pensava che il limbo degli apolidi, conseguenza della prima guerra mondiale, preparasse le stragi della seconda e che fosse quindi una premessa del totalitarismo. Ma le sue analisi hanno un valore che trascende l'analisi storica. Se è la cittadinanza - e non una generica appartenenza umana, come nell'espressione "diritto umano" -, a fondare l'esistenza sociale, allora la perdita della cittadinanza, come avviene per i profughi, o la rinuncia forzata, come nel caso dei migranti, significa l'esposizione all'omicidio anche in situazioni di apparente protezione dell'umanità, come nei sedicenti stati di diritto contemporanei.
Arendt avrebbe visto nell'episodio dei polacchi di Puglia, come nelle morti in mare vicino a Lampedusa, un esempio evidente dell'inclinazione omicida (se non altro per omissione) degli stati di diritto nei confronti di chi non ne è cittadino. Se si sospettasse che dieci italiani sono stati uccisi in qualche parte del mondo (e non solo in Italia) lo scandalo sarebbe enorme.
Uno stupro imputabile a uno straniero fa infinitamente più rumore della morte di alcune decine di stranieri sulle nostre coste. Non si tratta di minimizzare il primo, ma di notare come agli stranieri, privi della nostra cittadinanza, non sia applicabile alcuno schema di responsabilità, anche indiretta, che non sia quella degli scafisti, colpevoli a portata di mano.
Si alzano le spalle, si dà per scontata la nostra innocenza, anche quando - e capita abbastanza spesso - è una nostra nave militare ad affondare qualche battello di migranti. I diritti, e tanto meno umani, non esistono sul nostro territorio e all'interno delle nostre acque territoriali, per chi non è dei nostri.
Collegando fobia anti-islamica e razzismo anti-migranti, la Fallaci (bisogna riconoscerlo) ha il merito di aver reso esplicito oggi ciò che Hannah Arendt aveva intuito cinquant'anni fa e che pochi hanno il coraggio di dire esplicitamente: che il trattamento dei migranti è l'altra faccia del dominio coloniale. La differenza è che all'interno dei nostri stati la privazione dei diritti è sostanzialmente civile, mentre all'esterno è militare. Ma il peso di chi non è europeo o occidentale è lo stesso a Baghdad come nel Mediterraneo, indipendentemente dal fatto che muoia per mano dei marines o per indifferenza. Non esiste socialmente e quindi umanamente.
Lo scenario prefigurato da Arendt nella sezione sull'imperialismo preparava il totalitarismo, ma non si sarebbe esaurito con la sconfitta dei nazisti nè con la fine del socialismo reale. È la semplice conseguenza dell'incapacità dello stato nazione di concepire l'esistenza dei soggetti di diritto al di fuori di se stesso. Della finzione intrinseca a organizzazioni come le Nazioni Unite o dell'ipocrisia di un'Europa che è solo la somma di una ventina di nazionalismi grandi piccoli e non del loro superamento (che d'altra parte non potrebbe configurarsi che come un supernazionalismo). Le politiche migratorie e del diritto d'asilo, in Europa e nel mondo, lo dimostrano.
Ecco dunque il carattere profetico del libro di Hannah Arendt, se lo si sottrae alla vulgata della guerra fredda. Con esso una teoria della soggettività giuridico-politica trova un ancoraggio, anche se non una fondazione vera e propria, tanto meno positiva. Ma è proprio dall'esistenza di un'umanità senza stato, marginale o confinata nelle enclave degli stati nazione del mondo ricco, che potrebbe partire una riflessione su una cittadinanza globale.
Si tratta in fondo del riflesso concreto, troppo concreto, di quella fondazione di un agire comune che Arendt ha perseguito nelle sue opere più celebrate.