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I giovin signori e la libertà (del più forte)

Dice il giovine sindaco di Firenze Matteo Renzi che il primo maggio è una «festa di libertà», e questo significa, nel concreto, che «chi vuole lavorare deve poter lavorare e chi preferisce non farlo è giusto che non lavori». Quindi, su le serrande negozi aperti, e a laurà (del resto nelle sue trasferte ad Arcore avrà pur imparato qualcosa, no?). La libertà dei Renzi assomiglia paurosamente a quella concepita dal nostro Caro Leader. Una libertà indeterminata, vuota, astratta: in un mondo che invece è terribilmente concreto, almeno nel senso dei soggetti che lo determinano. Una libertà del genere, dove non si specifica di chi, da che cosa e per cosa, non può essere altro che la libertà del più forte di fare quel che vuole. E, come correlativo, la necessità per il più debole di fare quel che il più forte vuole. Altro che libera scelta: fuori dall'astratta e retorica libertà di Renzi, c'è, in carne e ossa, un esercito di giovani precari sotto ricatto, che non hanno proprio alcuna libertà di scelta nel caso il loro «datore di lavoro» voglia tenere aperto il suo «esercizio». I soldati andranno al fronte, ordinatamente e disciplinatamente, siccome mercato vuole.

Di fronte a una realtà dove i soggetti sono determinati da rapporti forza drammaticamente sbilanciati, questi «giovin signori» à la Renzi, mi si perdoni il triviale calembour, sembrano più dei Don Abbondi, che se ne lavano le mani (ma i tiepidi saranno vomitati dalla bocca, e un cattolico come lui dovrebbe pur saperlo). Si lavano le mani di fronte al fatto che il perno di questa società è il ricatto. Ne è il perno strutturale, economico, sociale, emotivo, psichico. Vivere sotto ricatto, col coltello alla gola, è la condizione normale dei precari - comprendendo nella definizione svariate tipologie contrattuali: tutte accomunate dalla perdita dei diritti (propri del cittadino) e dalla riduzione a suddito che implora. Al ricatto non ci si può ribellare, e la scelta è sempre obbligata. La piramide sociale dell'epoca presente è sempre più vertiginosa, i vettori della sussistenza e della riproduzione personale sono sempre meno orizzontali e sempre più verticali. La dipendenza cresce, e la dipendenza genera ricatto. Il ricatto è lo strumento proprio del capitale che ha libero corso nel selvaggio west del mondo intero, senza più lacci e lacciuoli, moltiplicato e mostrificato nel capitale finanziario che - come ci ricorda Luciano Gallino nel suo recente, mirabile libro Finanzcapitalismo - si sta inghiottendo il pianeta.

Quella di Renzi appare allora come una resa senza condizioni all'imperativo cardine del sistema presente: rendere le persone da una parte lavoratori docili, dall'altra consumatori senza fine. Rottamatore, allora, ma di cosa? Non certo di una casta politica destinata a epocali sconfitte, ché Renzi appare in questo del tutto simile a coloro che afferma di voler rottamare (quelli, del resto, che hanno introiettato l'adesione alla «inevitabilità» di questo processo globale, presentato come naturale, quando invece esso è stato reso possibile proprio da una cosciente operazione politica, totalmente artificiale). Rottamatore, invece, di valori che dicono che l'uomo vale in quanto uomo, e non in quanto consumatore. Oggi che la vita è stata messa al lavoro tutta quanta, asservita ai bisogni e agli imperativi del sistema finanziario-industriale, non ci può essere una festa del/dal lavoro. Non ci deve essere spazio per quella festa dei lavoratori che rivendicano il diritto a non esaurirsi nel lavoro, e si riconoscono nella dimensione festiva della celebrazione, delle relazioni sociali nella loro interezza, di un'identità che eccede la dimensione lavorativa. Se ogni festa è rigenerazione e ricominciamento, quella del primo maggio lo è in particolare, visto che si innesta sulla tradizione delle feste del maggio, con tutta la loro carica simbolica del rinnovamento della natura. Ma nel mondo della dittatura finanziaria, e nell'uso di ogni «cosa» ai fini dell'estrazione di valore, non c'è spazio per la rigenerazione. Non c'è spazio per un tempo altro che dà il senso al tempo ordinario. Il lavoro è un ciclo continuo, anzi una catena continua. E da questa catena non ci deve essere liberazione possibile.

Noi, va da sé, non ci stiamo, e difenderemo la festa, con ogni mezzo necessario.

*Scrittore

Fonte: Il Manifesto del 01/05/2011