(Intervento alla tavola rotonda la nonviolenza delle donne, tenutasi a Pisa in occasione del convegno 100 anni di Satyagraha, pubblicato su La nonviolenza è in cammino, n. 1438 del 3 ottobre 2006)
In un convegno come questo, che vuole fare memoria di un altro 11 settembre, per rendere visibile il ricco patrimonio di nonviolenza presente nella storia e aprire così una diversa prospettiva per il presente e per il futuro, mi sembra importante fare memoria anche delle riflessioni e delle pratiche in cui il rapporto tra donne e nonviolenza è venuto alla luce nel corso degli ultimi decenni, a partire dalla mia personale ricerca di nonviolenza e presenza all'interno dei movimenti. Un punto di vista parzialissimo, dunque, e per nulla esaustivo, una testimonianza esemplificativa, più che una ricostruzione storica di ciò che è stata la nonviolenza delle donne dagli anni Settanta ad oggi.
Una prima sistematica raccolta di testi su questo tema si trova sul numero di "Azione nonviolenta" del luglio-agosto 1979, sotto forma di dossier dal titolo "Femminismo. La nonviolenza: una via?", con contributi prevalentemente stranieri comparsi nel corso degli anni Settanta.
Questo materiale costituisce il nucleo di partenza di un testo, Per un futuro nonviolento, curato da Adriana Chemello e pubblicato dalla casa editrice Satyagraha nel 1984 (1). L'approccio che l'autrice propone per indagare il rapporto tra donne e nonviolenza è evidenziato già dal titolo del primo paragrafo dell'introduzione: "Mai più vittime e complici". Una presa di distanza dal vittimismo e un mettere in primo piano la responsabilità, la scelta, sia nelle relazioni di genere, sia in quelle politico-sociali, per rifiutare ogni complicità e attivare la forza e il potere che è nelle mani di ciascuna/o, in perfetta continuità con la concezione nonviolenta del potere.: "La forza di chi opprime sta tutta nella paura e nella debolezza della vittima. Il potere sull'altro si avvale del consenso o della delega" ( p. 12).
Più avanti nell'introduzione si parla della necessità di recuperare per tutti i "cosiddetti" (virgolettato nel testo) valori femminili: "l'empatia, l'attenzione ai cicli biologici, il rispetto dei ritmi naturali... l'armonia col cosmo, l'apertura e la disponibilità verso gli altri" (p. 13) e di ripensare la nonviolenza a partire da sè, di "leggerla dal nostro punto di vista per interpretarla e se possibile praticarla in sintonia con la nostra femminilità" (p. 17).
Ma anche il rapporto tra donne e violenza è indagato a fondo in uno dei saggi proposti ("Tra cane e lupo", di Francoise Collin), mettendo in discussione lo stereotipo della donna "naturalmente" nonviolenta ed evidenziando le varie forme di violenza subita o agita, contro gli altri e contro di sè.
Negli anni Ottanta, nell'ambito del più ampio movimento per il disarmo nucleare, nascono diverse iniziative di donne, come la marcia organizzata da gruppi di Donne per la pace del Nord Europa da Copenaghen a Parigi (21 giugno - 6 agosto 1981), subito caratterizzatasi come crocevia di incontri tra donne di storiche associazioni come la Wilpf (la Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà, nata nel primo dopoguerra) e i nuovi gruppi femministi-pacifisti, costituiti da donne che vogliono portare avanti, anche nella lotta per la pace, la propria specificità di genere.
Da qui si sviluppano esperienze come il Campo per la pace di Greenham Common, in Inghilterra (settembre 1981) contro i missili Cruise, o il Campo delle donne per la pace - La Ragnatela (1983) a Comiso, e la mobilitazione dell'anno successivo, in occasione del processo di Ragusa, in cui sono imputate dodici donne arrestate durante le azioni nonviolente a Comiso (tra di loro vi è Anna Luisa Leonardi L'Abate). Negli stessi anni, a partire dal 1981, un gruppo di donne nonviolente lancia una campagna nazionale contro il servizio militare femminile (previsto nel disegno di legge dell'allora ministro della difesa Lagorio), nel cui manifesto si legge: "lottiamo insieme contro tutti gli eserciti, tutte le guerre... per una parità costruita sulla nostra storia, per la pace e la nonviolenza".
Se queste esperienze nascono prevalentemente a partire da donne impegnate nei movimenti nonviolenti o, più in generale, in quello che si potrebbe chiamare il campo della pace, anche nel più ampio movimento delle donne si possono trovare esplicite riflessioni sulla nonviolenza, come testimonia, ad esempio, un gruppo di lavoro al Seminario delle donne di S. Severa del 1984, dal titolo "Conflittualità, conflitto, autodeterminazione, pacifismo nell'era nucleare, femminismo, nonviolenza", da cui emerge una grande attenzione alla nonviolenza, per l'importanza che essa attribuisce alla soggettività, alla scelta personale, alla responsabilità, mentre è vista in modo più problematico, ad esempio, l'accettazione della sofferenza come parte del metodo di lotta e del pensiero nonviolenti.
I temi del nuovo modello di difesa, delle proposte di difesa popolare nonviolenta emerse alla riflessione collettiva soprattutto nel corso della Campagna di obiezione alle spese militari, sono dibattuti in un convegno del 1987 organizzato dal coordinamento donne del Pci della Regione Lazio, i cui atti sono pubblicati, a cura di Lidia Menapace e Chiara Ingrao, in un testo del 1988 che già nel titolo esprime l'assunzione di una chiara prospettiva: Nè indifesa, nè in divisa, (sottotitolo: "Pacifismo, sicurezza, ambiente, nonviolenza, Forze Armate. Una discussione fra donne", che dà conto dell'ampio respiro del convegno e di una ricerca che intreccia diverse dimensioni e contributi).
Di particolare significato, oltre alla sezione dal titolo "In cerca di alternative", con un'intervista a Gene Sharp, la parte su "Percorsi, riflessioni, esperienze", in cui compare, tra gli altri, un capitolo, "Visitare luoghi difficili: per un campo di pace delle donne in Libano", che testimonia l'emergere delle prime proposte di intervento in situazioni di conflitto: "E se... in Libano verranno inviati i contingenti 'di pacè di vari eserciti... non ci sembra importante che le donne ci vadano invece autonomamente e fuori dalle logiche di potenza, non accettando più che solo le armi possano far tacere altre armi?" (Elisabetta Donini, "Il manifesto", 22 febbraio 1987). L'appello "Non ci basta dire basta", per un campo internazionale di pace a Beirut, che segue all'articolo, ha l'adesione di diverse associazioni e coordinamenti di donne e diventa la strada maestra per avviare contatti e intrecciare relazioni con donne libanesi, palestinesi, israeliane e praticare, in questi luoghi di conflitto, una presenza costantemente mantenuta fino ad oggi (2).
È così che, quando nel 1988 sono nate le Donne in nero israeliane, la rete delle Donne in nero si è rapidamente diffusa in Italia, soprattutto a partire dall'opposizione alla prima guerra del Golfo, con le modalità della presenza silenziosa e che veste i colori del lutto, che tutti ormai conoscono.
E proprio sull'esperienza delle Women in black vorrei soffermarmi, prima di concludere, perché essa rappresenta un modello emblematico di attraversamento dei conflitti praticato da donne.
Con la loro presenza muta, a testimoniare sulle piazze di Israele il loro dissenso verso la politica di occupazione, le donne in nero israeliane si sono poste in modo conflittuale rispetto al loro contesto di appartenenza nazionale, dichiarando apertamente la loro non complicità e non collaborazione con il proprio governo. In questo modo hanno svolto un ruolo di "terza parte interna", molto importante per rompere la rigidità dei blocchi contrapposti e per dare spazio e possibilità al dialogo tra le parti. Assumendosi la loro parte di responsabilità esse hanno importato il conflitto all'interno del proprio gruppo, anziché proiettarlo all'esterno.
E questo, come ha lucidamente insegnato Franco Fornari, è il primo passo per mettere in discussione l'idea stessa di nemico, che è rafforzata dai processi di proiezione dei conflitti all'esterno dei gruppi, anziché dalla ricerca di strade costruttive per la loro gestione.
Ma una simile pratica presuppone molte cose: che si sappiano riconoscere, in un conflitto, le relazioni tra le parti e le loro reciproche influenze; che si sappia vedere la sofferenza dell'altro, insieme alla propria; e che, in conseguenza di ciò, si pongano al centro della trasformazione del conflitto spazi di incontro e di ascolto, in una prospettiva relazionale concreta e non individualistica e astratta (Carol Gilligan, Con voce di donna, Feltrinelli, Milano 1987, e anche l'articolo Gendering conflict resolution, in "Peace and Change", ottobre 1994; Del Turco, Donne, conflitti e processi di pace, 2005).
È questa, dunque, una pratica di gestione del conflitto chiaramente segnata da una specificità di genere, una pratica che connette il dentro con il fuori, la violenza dentro di sè con la violenza fuori di sè, il privato e il politico, un patrimonio prezioso sul quale le donne possono richiamare l'attenzione anche nei movimenti nonviolenti specifici e su cui ritornerà anche Luisa Del Turco.
Per concludere questo breve e sommario percorso, vorrei ancora ricordare che si è formalmente costituita nel 2001 una Convenzione permanente di donne contro la guerra, che raccoglie adesioni individuali e di gruppi impegnati in questo ambito, nel cui statuto è sancita la pratica dell'azione nonviolenta, considerata "metodo decisivo per allontanare dalla politica in generale simboli, metafore, anticipazioni di guerra" (art. 3).
Note
1. Tra i testi pubblicati negli anni successivi: B. Brock-Utne, La pace è donna, Ega, Torino 1989, nato nell'ambito della peace research; Sara Ruddick, Il pensiero materno, Red, 1993; Maria G. Di Rienzo, Monica Lanfranco, Donne disarmanti, Intra Moenia, Napoli 2003.
2. Significativo anche un più recente seminario della scuola di politica del Forum donne del Prc (settembre 2004), di cui sono stati pubblicati gli atti: La forza della nonviolenza, a cura di Imma Barbarossa, Edizioni Punto Rosso.
In un convegno come questo, che vuole fare memoria di un altro 11 settembre, per rendere visibile il ricco patrimonio di nonviolenza presente nella storia e aprire così una diversa prospettiva per il presente e per il futuro, mi sembra importante fare memoria anche delle riflessioni e delle pratiche in cui il rapporto tra donne e nonviolenza è venuto alla luce nel corso degli ultimi decenni, a partire dalla mia personale ricerca di nonviolenza e presenza all'interno dei movimenti. Un punto di vista parzialissimo, dunque, e per nulla esaustivo, una testimonianza esemplificativa, più che una ricostruzione storica di ciò che è stata la nonviolenza delle donne dagli anni Settanta ad oggi.
Una prima sistematica raccolta di testi su questo tema si trova sul numero di "Azione nonviolenta" del luglio-agosto 1979, sotto forma di dossier dal titolo "Femminismo. La nonviolenza: una via?", con contributi prevalentemente stranieri comparsi nel corso degli anni Settanta.
Questo materiale costituisce il nucleo di partenza di un testo, Per un futuro nonviolento, curato da Adriana Chemello e pubblicato dalla casa editrice Satyagraha nel 1984 (1). L'approccio che l'autrice propone per indagare il rapporto tra donne e nonviolenza è evidenziato già dal titolo del primo paragrafo dell'introduzione: "Mai più vittime e complici". Una presa di distanza dal vittimismo e un mettere in primo piano la responsabilità, la scelta, sia nelle relazioni di genere, sia in quelle politico-sociali, per rifiutare ogni complicità e attivare la forza e il potere che è nelle mani di ciascuna/o, in perfetta continuità con la concezione nonviolenta del potere.: "La forza di chi opprime sta tutta nella paura e nella debolezza della vittima. Il potere sull'altro si avvale del consenso o della delega" ( p. 12).
Più avanti nell'introduzione si parla della necessità di recuperare per tutti i "cosiddetti" (virgolettato nel testo) valori femminili: "l'empatia, l'attenzione ai cicli biologici, il rispetto dei ritmi naturali... l'armonia col cosmo, l'apertura e la disponibilità verso gli altri" (p. 13) e di ripensare la nonviolenza a partire da sè, di "leggerla dal nostro punto di vista per interpretarla e se possibile praticarla in sintonia con la nostra femminilità" (p. 17).
Ma anche il rapporto tra donne e violenza è indagato a fondo in uno dei saggi proposti ("Tra cane e lupo", di Francoise Collin), mettendo in discussione lo stereotipo della donna "naturalmente" nonviolenta ed evidenziando le varie forme di violenza subita o agita, contro gli altri e contro di sè.
Negli anni Ottanta, nell'ambito del più ampio movimento per il disarmo nucleare, nascono diverse iniziative di donne, come la marcia organizzata da gruppi di Donne per la pace del Nord Europa da Copenaghen a Parigi (21 giugno - 6 agosto 1981), subito caratterizzatasi come crocevia di incontri tra donne di storiche associazioni come la Wilpf (la Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà, nata nel primo dopoguerra) e i nuovi gruppi femministi-pacifisti, costituiti da donne che vogliono portare avanti, anche nella lotta per la pace, la propria specificità di genere.
Da qui si sviluppano esperienze come il Campo per la pace di Greenham Common, in Inghilterra (settembre 1981) contro i missili Cruise, o il Campo delle donne per la pace - La Ragnatela (1983) a Comiso, e la mobilitazione dell'anno successivo, in occasione del processo di Ragusa, in cui sono imputate dodici donne arrestate durante le azioni nonviolente a Comiso (tra di loro vi è Anna Luisa Leonardi L'Abate). Negli stessi anni, a partire dal 1981, un gruppo di donne nonviolente lancia una campagna nazionale contro il servizio militare femminile (previsto nel disegno di legge dell'allora ministro della difesa Lagorio), nel cui manifesto si legge: "lottiamo insieme contro tutti gli eserciti, tutte le guerre... per una parità costruita sulla nostra storia, per la pace e la nonviolenza".
Se queste esperienze nascono prevalentemente a partire da donne impegnate nei movimenti nonviolenti o, più in generale, in quello che si potrebbe chiamare il campo della pace, anche nel più ampio movimento delle donne si possono trovare esplicite riflessioni sulla nonviolenza, come testimonia, ad esempio, un gruppo di lavoro al Seminario delle donne di S. Severa del 1984, dal titolo "Conflittualità, conflitto, autodeterminazione, pacifismo nell'era nucleare, femminismo, nonviolenza", da cui emerge una grande attenzione alla nonviolenza, per l'importanza che essa attribuisce alla soggettività, alla scelta personale, alla responsabilità, mentre è vista in modo più problematico, ad esempio, l'accettazione della sofferenza come parte del metodo di lotta e del pensiero nonviolenti.
I temi del nuovo modello di difesa, delle proposte di difesa popolare nonviolenta emerse alla riflessione collettiva soprattutto nel corso della Campagna di obiezione alle spese militari, sono dibattuti in un convegno del 1987 organizzato dal coordinamento donne del Pci della Regione Lazio, i cui atti sono pubblicati, a cura di Lidia Menapace e Chiara Ingrao, in un testo del 1988 che già nel titolo esprime l'assunzione di una chiara prospettiva: Nè indifesa, nè in divisa, (sottotitolo: "Pacifismo, sicurezza, ambiente, nonviolenza, Forze Armate. Una discussione fra donne", che dà conto dell'ampio respiro del convegno e di una ricerca che intreccia diverse dimensioni e contributi).
Di particolare significato, oltre alla sezione dal titolo "In cerca di alternative", con un'intervista a Gene Sharp, la parte su "Percorsi, riflessioni, esperienze", in cui compare, tra gli altri, un capitolo, "Visitare luoghi difficili: per un campo di pace delle donne in Libano", che testimonia l'emergere delle prime proposte di intervento in situazioni di conflitto: "E se... in Libano verranno inviati i contingenti 'di pacè di vari eserciti... non ci sembra importante che le donne ci vadano invece autonomamente e fuori dalle logiche di potenza, non accettando più che solo le armi possano far tacere altre armi?" (Elisabetta Donini, "Il manifesto", 22 febbraio 1987). L'appello "Non ci basta dire basta", per un campo internazionale di pace a Beirut, che segue all'articolo, ha l'adesione di diverse associazioni e coordinamenti di donne e diventa la strada maestra per avviare contatti e intrecciare relazioni con donne libanesi, palestinesi, israeliane e praticare, in questi luoghi di conflitto, una presenza costantemente mantenuta fino ad oggi (2).
È così che, quando nel 1988 sono nate le Donne in nero israeliane, la rete delle Donne in nero si è rapidamente diffusa in Italia, soprattutto a partire dall'opposizione alla prima guerra del Golfo, con le modalità della presenza silenziosa e che veste i colori del lutto, che tutti ormai conoscono.
E proprio sull'esperienza delle Women in black vorrei soffermarmi, prima di concludere, perché essa rappresenta un modello emblematico di attraversamento dei conflitti praticato da donne.
Con la loro presenza muta, a testimoniare sulle piazze di Israele il loro dissenso verso la politica di occupazione, le donne in nero israeliane si sono poste in modo conflittuale rispetto al loro contesto di appartenenza nazionale, dichiarando apertamente la loro non complicità e non collaborazione con il proprio governo. In questo modo hanno svolto un ruolo di "terza parte interna", molto importante per rompere la rigidità dei blocchi contrapposti e per dare spazio e possibilità al dialogo tra le parti. Assumendosi la loro parte di responsabilità esse hanno importato il conflitto all'interno del proprio gruppo, anziché proiettarlo all'esterno.
E questo, come ha lucidamente insegnato Franco Fornari, è il primo passo per mettere in discussione l'idea stessa di nemico, che è rafforzata dai processi di proiezione dei conflitti all'esterno dei gruppi, anziché dalla ricerca di strade costruttive per la loro gestione.
Ma una simile pratica presuppone molte cose: che si sappiano riconoscere, in un conflitto, le relazioni tra le parti e le loro reciproche influenze; che si sappia vedere la sofferenza dell'altro, insieme alla propria; e che, in conseguenza di ciò, si pongano al centro della trasformazione del conflitto spazi di incontro e di ascolto, in una prospettiva relazionale concreta e non individualistica e astratta (Carol Gilligan, Con voce di donna, Feltrinelli, Milano 1987, e anche l'articolo Gendering conflict resolution, in "Peace and Change", ottobre 1994; Del Turco, Donne, conflitti e processi di pace, 2005).
È questa, dunque, una pratica di gestione del conflitto chiaramente segnata da una specificità di genere, una pratica che connette il dentro con il fuori, la violenza dentro di sè con la violenza fuori di sè, il privato e il politico, un patrimonio prezioso sul quale le donne possono richiamare l'attenzione anche nei movimenti nonviolenti specifici e su cui ritornerà anche Luisa Del Turco.
Per concludere questo breve e sommario percorso, vorrei ancora ricordare che si è formalmente costituita nel 2001 una Convenzione permanente di donne contro la guerra, che raccoglie adesioni individuali e di gruppi impegnati in questo ambito, nel cui statuto è sancita la pratica dell'azione nonviolenta, considerata "metodo decisivo per allontanare dalla politica in generale simboli, metafore, anticipazioni di guerra" (art. 3).
Note
1. Tra i testi pubblicati negli anni successivi: B. Brock-Utne, La pace è donna, Ega, Torino 1989, nato nell'ambito della peace research; Sara Ruddick, Il pensiero materno, Red, 1993; Maria G. Di Rienzo, Monica Lanfranco, Donne disarmanti, Intra Moenia, Napoli 2003.
2. Significativo anche un più recente seminario della scuola di politica del Forum donne del Prc (settembre 2004), di cui sono stati pubblicati gli atti: La forza della nonviolenza, a cura di Imma Barbarossa, Edizioni Punto Rosso.