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Il movimento delle donne ci riprova

Sembra un destino dei movimenti rendersi "visibili" solo quando scuotono la compagine istituzionale, le sue chiusure, i suoi modelli, la sua cecità rispetto a tutto ciò che si muove intorno e al suo interno. La divisione tradizionale tra politica e società è ancora così salda che è bastata l'imprevista partecipazione alle elezioni amministrative e al referendum per qualificare come "nuovi" protagonisti che sono da decenni tutt'altro che assenti dalla scena pubblica e dai suoi conflitti. I cortei degli studenti e dei precari, le occupazioni delle università, le singolari forme di lotta adottate negli ultimi tempi dagli operai, le grandi manifestazioni delle donne, dal 2006 al 13 febbraio, appaiono nonostante tutto "carsici" finché non producono cambiamenti riconoscibili nei luoghi deputati della politica.

"Il clima  d'opinione, scrive Ilvo Diamanti ("La Repubblica", 27 giugno 2011), non cambia da solo. Ci vogliono nuovi 'attorì in grado di riscrivere l'agenda pubblica imponendo all'attenzione dei cittadini nuovi temi (...) Si tratta di una partecipazione nuova, caratterizzata da componenti sociali tradizionalmente periferiche, rispetto all'impegno politico. In primo luogo le donne e i giovani".

Ma come è possibile che i "soggetti imprevisti" del '68, a distanza di quarant'anni, siano ancora tali? Anche ammettendo che non si tratti di un disperante ritorno dell'uguale ma di una "ripresa" nel senso che Elvio Fachinelli dava a questo termine - il già noto che cerca nuove vie di uscita -, non possiamo non chiederci se il primo nemico del cambiamento non sia la politica stessa, la strenua difesa dei confini astratti che si è data storicamente, fatti di esclusioni ingiustificate, di strappi violenti, privilegi, poteri e linguaggi sempre più vacillanti. La radicalità della dissidenza giovanile e del femminismo degli anni '70 è stata, principalmente, la ridefinizione dell'agire politico: il lavoro, ma anche la quotidianità, la persona, i corpi, i ruoli sessuali, la formazione dell'individuo, le professioni, il rapporto con la natura, con l'ambiente, con la diversità sotto qualsiasi forma si presenti. Sul tracciato che si è aperto allora, si può dire che l'onda lunga di alcuni movimenti non ha mai smesso di scavare solchi profondi e sempre più estesi, fino a far balenare l'idea che "un altro mondo è possibile".

Eppure, la loro presenza e i cambiamenti di cui sono gli anonimi protagonisti, vengono registrati solo quando i "nuovi barbari" riescono ad abbattere qualche paletto della fatiscente impalcatura istituzionale: la cancellazione o la conquista di una legge, un risultato favorevole alle elezioni, l'accostamento alle regole di una politica ancora sostanzialmente separata dalla vita. A questa visione dicotomica non sfugge neppure l'analisi di un osservatore acuto come Ilvo Diamanti che, pur rilevando la "moltitudine di esperienze diverse, diffuse, articolate" del popolo che oggi esprime il suo desiderio di partecipazione, accosta ancora una volta le donne ai giovani, agli studenti e agli operai. Mi chiedo se il femminismo stesso, là dove ha rinunciato a interrogarsi sul rapporto tra il corpo e la polis, la sessualità e la politica, non abbia avallato involontariamente una classificazione che vede le donne come un gruppo sociale tra altri, sia che le si consideri alla stregua di una minoranza svantaggiata o, al contrario, una "risorsa viva" da reintegrare, a sostengo di un sistema in declino.

"Il risultato vero che la manifestazione del 13 febbraio ha dato con successo  - scrive Franca Chiaromonte (www.donnealtri.it, 17 giugno 2011) - è stato quello di mettere in scena una mobilitazione di popolo a egemonia femminile (...) quello che voglio dire è: così come innumerevoli manifestazioni - che di solito chiamiamo di carattere generale, per es. quelle dei sindacati o dei partiti -, sono piene anche di donne (...) altrettanto ora si renderanno possibili e ugualmente potenti, se non di più, manifestazioni all'inverso, dove cioè saranno le donne a segnare i passi decisivi".

Le oltre duecento piazze che hanno accolto l'appello del comitato romano "Se non ora quando" possono far pensare a una forza unitaria delle donne, capace di imporre i suoi temi all'agenda politica, così come suggerire l'idea che uno spazio pubblico segnato per secoli dall'autorità maschile cambi finalmente volto. Ma se si vuole dare una risposta alla domanda di continuità che viene oggi dai comitati diffusi su tutto il territorio nazionale, è importante - come ha scritto Serena Sapegno ("Gli Altri", primo luglio 2011) tener conto che, se il 13 febbraio ha fato cadere "vecchi steccati e pregiudizi aprendosi a donne molto diverse per età e ceto sociale, cultura e esperienza di vita, posizioni politiche, opzioni religiose, scelte sessuali", non per questo viene meno il carattere problematico, contraddittorio, della "frammentazione" che caratterizza da sempre il movimento delle donne. Connaturata a una pratica che parte da "sè", dall'esperienza particolare di singole, gruppi, associazioni, per estendersi a un orizzonte più generale, la pluralità dei soggetti, delle situazioni locali, dei percorsi storici, mal sopportano strette organizzative omologanti, così come la rassegnazione a vedere trasformarsi l'autonomia in isolamento.

L'assemblea di Snoq che si terrà a Siena il 9-10 luglio non può non richiamare alla memoria tentativi analoghi che quasi sempre hanno fatto seguito a mobilitazioni riuscite, ma la ripresa, oltre che essere in questo momento nelle aspettative di molte, prende una valenza nuova e la speranza di riuscita dal contesto in cui avviene. La concomitanza tra le piazze segnate dall'autonomia del movimento delle donne con quelle occupate per giorni dai comitati elettorali e referendari, ha creato occasioni di incontro, scambio, condivisioni inaspettate tra donne di formazione culturale e politica diversa, tra associazioni del femminismo e donne provenienti da ambiti sindacali e partitici. Per alcune città, come Milano, si tratta di una situazione nuova, che richiede come tale attenzione, impegno, disponibilità a interpretare le ragioni che ci hanno tenuto a lungo separate, estranee e diffidenti le une verso le altre. A un livello ancora più esteso, quale è un'assemblea nazionale, sarà possibile fare interagire realtà così diverse, darsi una forma minima di organizzazione che non ricalchi modelli noti - lobby o partiti -, trovare  "un sentire comune, terreni condivisi, azioni concertate"?Sarà questa la sfida maggiore: non scambiare la forza collettiva con l'obbedienza al pensiero unico, la valorizzazione delle differenze con l'assenza di conflitto, la solidarietà con l'adeguamento. Molto dipenderà dall'ascolto reciproco e dall'apertura ai temi molteplici che via via sono venuti allo scoperto nei percorsi della coscienza femminile, oltre che dall'attenzione ai nessi non sempre evidenti che li attraversano. Non solo perciò la rappresentazione della donna nei media, l'ideologia assorbita oggi dalle leggi del mercato e della pubblicità che da sempre l'ha identificata col corpo - erotico e materno -, ma anche la violenza domestica, la subalternità inconsapevole alla cultura maschile dominante, la divisione sessuale del lavoro, che ancora vede le donne - direttamente o attraverso la messa al lavoro di donne, per lo più straniere - responsabili "naturali" della conservazione della vita, l'estensione indebita del concetto di maternità a tutte le funzioni di cura indifferentemente prodigate a persone non autosufficienti e perfettamente autonome, la tentazione di assolutizzare, assumendole come proprie, le attrattive femminili che l'uomo ha asservito ai propri bisogni e desideri.

Dietro i corpi artificiali e mercificati, "offerti ossessivamente al consumo", come scrive Sapegno, ci sono donne non meno reali di quelle che giustamente criticano l'imposizione di modelli. Si possono trovare di volta in volta "obiettivi strategici" all'azione comune, se si ha, al medesimo tempo, la voglia di costruire una visione di insieme che si avvalga della ricchezza di saperi prodotta, paradossalmente, proprio dalla frammentazione conosciuta finora.

Dal sito della Libera università delle donne di Milano

Fonte: Centro di Ricerca per la Pace