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Immigrati, sbandati e degrado della città? Qual è l'ordine giusto? (Buratti Gino

Alcuni giorni fa Alleanza Nazionale e Azione Giovani hanno organizzato una manifestazione in Piazza della Stazione a Massa, con lo slogan "Fermiamo l'lnvasione. Fermiamo la criminalità. Le nostre strade, le nostre piazze sono in mano agli immigrati" La piazza della Stazione, invasa da sbandati e immigrati, è senza dubbio uno dei simboli del fallimento delle politiche della sicurezza portata avanti dalla sinistra. Riprendiamoci la piazza! Riprendiamoci la città!".
Analoga iniziativa era stata presa tempo addietro nei confronti degli albanesi che risiedono alla Partaccia, sempre con lo stesso slogan.
Ho atteso prima di scrivere queste note, convinto che il problema, serio e complesso, non richieda né atteggiamenti emotivi, né politiche puramente elettoralistiche, ma un’analisi attenta, oltre a un chiaro sistema di valori di riferimento.
Chi scrive conosce personalmente quegli immigrati e quegli sbandati che spesso nel pomeriggio e verso sera soggiornano in Piazza della Stazione, perché sono gli stessi (sia stranieri che italiani) che talvolta sono stati ospiti da noi presso la Casa di Accoglienza della diocesi di Massa Carrara, presso la quale sono volontario.
Inoltre abito poco distante da Piazza della Stazione per cui conosco altrettanto bene il “degrado” della zona, ma che tutti noi sappiamo non avere origini dagli immigrati e sbandati che vi soggiornano, quanto dalle politiche di abbandono che sono state praticate in questi ultimi anni, come i numerosi documenti dei commercianti locali e del Viale della Stazione testimoniano.
Quel territorio avrebbe bisogno di iniziative, di essere abitato da manifestazioni, da musica, da cultura… ed allora tornerebbe ad essere un luogo non degradato, nel quale forse anche quegli immigrati non assumerebbero più quel connotato carico di negatività: ma ciò chiede alla politica e alla forze sociali un’assunzione di responsabilità ed una capacità di progettare diversamente una città.
E’ facile e scontato abbinare “immigrazione e marginalità” al degrado di un territorio, e non pensare che forse il paradigma è proprio in una lettura inversa: il degrado di un territorio che genera e alimenta la marginalità e l’esclusione.
E’ tragicamente semplicistico (ma la complessità sicuramente spaventa) cavalcare la paura, scaricando “sugli ultimi” le rabbie e le paure, creando di volta in volta “un nuovo nemico”, alimentando quella “percezione di insicurezza” della nostra esistenza che, alla fine, ci fa accettare forme di sopruso e di limitazione della libertà… oltre ad accettare di coprire i problemi, magari chiudendoli in un Centro di Permanenza temporaneo, lontano dai nostri occhi, oppure in nuovi manicomi, o in classi separate per portatori di handicap.

Così viene alimentata l’idea che siamo in presenza di “una invasione”, dinanzi alla quale ogni mezzo ed ogni strumento viene giustificato, incluso quello di rendere ancora più invisibili, e pertanto più ancora più marginali, quelli che già ora lo sono, semplicemente per non disturbare il nostro sguardo e la nostra coscienza, quando poi, ad esempio, i dati sugli immigrati residenti nel nostro territorio dicono che non siamo in presenza di nessuna invasione.
Noi e loro! Noi i massesi e loro gli invasori sporchi! Noi i civili e loro i barbari! Noi i cristiani e loro i musulmani! Questa è la cultura di quella manifestazione, ma è la cultura nella quale costruiamo il nostro sistema sociale, nella quale cresciamo i nostri figli.
Dimentichiamo che dietro a quegli sbandati, siano essi italiani o stranieri (il 50% degli ospiti della casa sono Italiani), ci sono dei volti, delle persone, con la loro dignità, con le loro contraddizioni, con i loro limiti, con i loro errori, gli sbagli commessi, ma anche le ingiustizie subite.
Chi commette un reato non è italiano o straniero, è una persona che ha commesso un reato, che deve essere valutato in maniera equa, a prescindere del suo essere o meno cittadino italiano… così come una persona ai margini è solo una persona che urla aiuto, a prescindere, anche in questo caso, che sia o meno cittadino italiano.
Nella sofferenza non alberga la cittadinanza, esiste solo l’uomo!
Quando nei media, nel denunciare una violenza ad una donna, si mette prima di tutto l’accento sulla nazionalità del violentatore, si opera questa mistificazione, nella quale quell’odioso delitto diventa quasi secondario rispetto a chi l’ha compiuto, se questo è immigrato. Una mistificazione appunto, perché si dimentica che oltre il 60% delle violenze (la fonte dei dati è quella del Ministero dell’Interno) avvengono in casa, ad opera dei partners (quindi per lo più italiani).
Si diffonde una paura progressiva, alimentando quel rifiuto “alla conoscenza” dell’altro, che genera sempre nuove e più alte barriere, dove è facile poi che l’odio trovi asilo.
Quando si sostiene che gli immigrati dovrebbero essere fermati anche con i cannoni, altro non abbiamo fatto che “costruirci il nuovo nemico”, un tempo austriaco, comunista…
Non si tratta di essere “buonisti” sempre disposti ad accogliere, nessuno è chiamato ad essere santo, a meno che la sua fede religiosa non lo incammini in quella strada, però non possiamo non comprendere come questi flussi migratori siano l’inevitabile conseguenza dello squilibrio cronico e disumano delle risorse e delle ricchezze… squilibrio che, alla fine, è solo funzionale al nostro benessere e al nostri stile di vita, centrato solo e soltanto sulla crescita (del nostro benessere e, di conseguenza, della povertà altrui, visto che il contenuto energetico e delle risorse è costante).
Io non sono un buonista, nemmeno quando sono alla casa, non considero gli immigrati e gli sbandati che incontro alla Casa di Accoglienza semplicemente delle brave persone, le considero persone, a prescindere che siano in regola o no, o che abbiano rubato qualche portafoglio o meno, che hanno diritti e doveri, sono persone alcune delle quali lavorano, altre sbagliano… con le quali mi rapporto a prescindere della loro nazionalità o della loro condizione o provenienza.
Mi piacerebbe che certi rigurgiti “legalisti” emergessero ad esempio nei confronti di quei datori di lavoro italiani che per risparmiare utilizzano manodopera immigrata a basso prezzo (penso all’edilizia, ma anche alle donne utilizzate nei lavori di cura…), perché in quel caso chi commette il reato di sfruttamento non sono le vittime, ma gli italiani.
Se vivere nella marginalità porta inevitabilmente a usare “espedienti” per sopravvivere, la sfida a cui siamo chiamati non è quella di rendere ancora più pesante la condizione di sofferenza, oppure di celarla al nostro sguardo, ma di intervenire sulle condizioni di quelle vite.
In tutto ciò quello che mi spaventa è il silenzio delle Istituzioni, delle forze politiche e sociali, ma anche delle Chiese (pensiamo che poco distante da Piazza della Stazione c’è la mensa della Parrocchia della Madonna Pellegrina), come se tutti noi fossimo diventati impotenti dinanzi al dilagare di questa cultura del rifiuto.
Occorrerebbe ben altro coraggio (Don Milani, di cui ricorre il 40° della morte, in questo senso è ancora terribilmente attuale, ma purtroppo è diventato solo meta di pellegrinaggi da parte di politici nelle cui scelte poi non alberga il messaggio del priore di Barbiana) da parte delle forze politiche e sociali, da parte delle Chiese, accogliendo la complessità nella sua interezza, senza scegliere facili o semplici scorciatoie (ora gli ultimi sono gli immigrati, ieri erano i tossicodipendenti, ieri l’altro i matti… domani magari gli omosessuali…), cogliendo in chiunque l’essere persona, e non l’etichetta che di volta in volta gli assegniamo, ma leggendo la domanda di aiuto che emerge dal loro disagio, e, soprattutto, consapevoli che una città pensata partendo dagli ultimi, è una città in cui chiunque si sente davvero a casa sua… anche chi sta bene!
Siamo chiamati a questa sfida, che è una sfida culturale, che si traduce in politiche sociali (non “per”, ma “con”), urbanistiche, economiche precise… una sfida che non è neutrale perché, sempre rifacendomi a don Milani, essere dalla parte degli ultimi non è una scelta neutrale.
Ma noi da che parte vogliamo stare?

Buratti Gino

Massa, 26 giugno 2007