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Israele non è una democrazia

Una democrazia non nega i diritti civili a milioni di persone, non saccheggia la loro terra e le loro risorse, non toglie loro l’indipendenza e la possibilità di scegliersi il futuro.

Mi ricordo il 21° anno dall’inizio dell’occupazione, NdT. Ero alla scuola superiore. Era scoppiata la prima intifada e la televisione era piena di immagini di giovani ammanettati e bendati. La Linea Verde, il confine del paese prima del 1967, che era stato cancellato dalle mappe che si usavano per insegnarci geografia ed educazione civica, era illuminato dalle fiamme dei copertoni incendiati lungo il suo percorso. A quel punto cominciò a farsi strada in me una semplice intuizione: dove c’è occupazione c’è un popolo occupato.

Mi ricordo del 21° anno perché l’intifada infuriava a pochi metri dalla mia casa al confine tra Gerusalemme Est e Gerusalemme Ovest, e anche perché si formò allora un movimento di protesta che aveva proprio questo nome: “Il 21° anno.” Quelli che avevano fondato un’organizzazione con un nome di così breve durata, certamente non avrebbero mai immaginato che l’occupazione avrebbe raggiunto il suo cinquantenario e senza accennare ancora a un prossimo pensionamento. Di sicuro non avrebbero nemmeno preso in considerazione la possibilità che, dopo due intifade e 25 anni di “processo di pace,” l’occupazione sarebbe divenuta sempre più radicata e il colonialismo israeliano sarebbe diventato prospero e ancora più forte.

Nei 30 anni trascorsi da allora, la parte politica che sosteneva la divisione del paese si è comportata per lo più come semplice controparte di una discussione interna, restando entro i limiti di un dibattito tra due posizioni ugualmente legittime. Questo approccio è ben esemplificato dal dibattito avvenuto all’interno del cosiddetto “campo della pace,” in cui ci si chiedeva se fosse legittimo o no rifiutarsi di fare il servizio militare nei territori occupati. C’era una piccola minoranza che appoggiava chi rifiutava di fare il servizio militare in nome della libertà di coscienza. Ma non c’era nessuna personalità o organizzazione di rilievo che vedesse il rifiuto come un mezzo legittimo per ottenere il cambiamento, e figurarsi se qualcuno decideva davvero di rifiutare. Perché Israele è una democrazia e in democrazia uno cerca di persuadere, non di imporre le proprie scelte.

Con la stessa logica si considerava inammissibile quell’attivismo israeliano anti-occupazione che esisteva, cioè gli sforzi di Breaking the Silence, B’Tselem e altri coraggiosi israeliani che dicono in inglese esattamente quello che dicono in ebraico, quando non sono messi a tacere con la violenza o con i decreti. E la stessa logica guida oggi molti di quelli che, pur volendo la fine dell’occupazione, si oppongono a ogni tipo di boicottaggio, compreso quello diretto solo contro gli insediamenti. Perché in una democrazia uno discute, non boicotta.

Ma guardando al passato, e guardando all’occupazione, è difficile sostenere che Israele è una democrazia. Per cui, l’approccio di limitare la lotta contro l’occupazione a semplici atti di persuasione non è soltanto sbagliato: è immorale.

Un regime che permette solo ad alcuni dei suoi sottoposti di prender parte alla politica non è una democrazia. È vero, Israele ha un parlamento eletto, ha la separazione dei poteri e ha la libertà di stampa (anche se, bisogna dire, tutte e tre le cose sono attualmente in pericolo). Ma negli ultimi cinquant’anni, Israele ha comandato su milioni di persone che non hanno il diritto di votare o di essere elette nel sistema che le governa. Israele non solo nega loro i diritti civili, ma depreda la loro terra e le loro risorse per trasferirle ai suoi cittadini più privilegiati, mentre sottrae loro brutalmente e spietatamente l’indipendenza e il diritto di decidere il proprio futuro.

All’inizio, si poteva ancora sostenere che la situazione era provvisoria e quindi non si poteva negare a Israele la sua qualifica di democrazia solo per colpa dell’occupazione. Ma, col passare del tempo, le caratteristiche democratiche del regime israeliano cedono sempre di più sotto il peso di una realtà fatta di tirannide.

Forse nel secondo anno era ancora possibile aggrapparsi all’illusione che Israele stesse cercando una soluzione che non rifiutava apertamente l’idea che ogni persona, persino un palestinese, ha i suoi diritti. Ma oggi il fascicolo di prove che accusano l’occupazione di rafforzare il suo potere sul terreno e di imporre ai palestinesi un regime di apartheid senza fine è divenuto così pesante da essere ormai una pistola fumante.

Ora che comincia il 51° anno, bisogna dire chiaro e forte che un Israele colonialista e predatore, che nega per decenni i diritti di milioni di persone, non può essere considerato una democrazia. Forse nell’antica Grecia era possibile mantenere una democrazia mentre gli schiavi venivano incatenati negli scantinati dei cittadini. Ma da quando il genere umano ha riconosciuto l’ovvia verità che tutti gli individui hanno uguale diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità, da allora un regime che comanda su milioni di persone senza diritti e fa tutto il possibile per perpetuare il suo dominio, non può chiamarsi una democrazia.

Di conseguenza, continuare l’occupazione è illegittimo. Proprio come è illegittima la discriminazione razziale e l’apartheid. Non ha importanza che in Israele ci sia una maggioranza di cittadini che appoggia l’occupazione, né quanto grande sia questa maggioranza. Poiché noi israeliani siamo collettivamente responsabili di ciò che si fa in nostro nome, dobbiamo ribellarci con ogni possibile mezzo nonviolento, senza accettare restrizioni che vengano imposte, in una democrazia, a qualunque legittimo dibattito interno. Dobbiamo rifiutarci di assistere al permanere dell’occupazione, dobbiamo boicottare la sua economia e convincere il mondo a far pressione su Israele perché ponga fine all’occupazione.

Se le forze che si oppongono all’occupazione fossero davvero decise, se non fossero narcotizzate dalla menzogna che c’è una democrazia in Israele, allora il 50° anniversario dell’occupazione sarebbe almeno segnato da uno sciopero politico. Dovrebbe essere un giorno in cui maestri e professori abbandonassero le loro classi, gli attori cancellassero i loro spettacoli e i commercianti chiudessero i loro negozi. Un giorno in cui la gente di Israele potesse ricevere un chiaro messaggio: la resistenza all’occupazione è qui e non se ne andrà.

La resistenza civile è un imperativo urgente. In modo che il 51° anno possa essere l’anno in cui l’occupazione cominciò a sgretolarsi.

Michael Sfard

Avvocato per i diritti civili

http://bit.ly/2rpJ9tY

 

A cura di Assopace Palestina

Traduzione di Donato Cioli

Fonte: Luisa Morgantini - Assopace Palestina