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La decolonizzazione della Palestina (Giampaolo Calchi Novati)

Pubblicato sul n. 1480 del 15 novembre 1006 di "La nonviolenza è in cammino" e tratto dal quotidiano "Il manifesto" del 12 novembre 2006


Aumenta il numero quotidiano di morti. La deduzione più immediata è pensare a un'impennata dell'estremismo. In Palestina c'è un governo di Hamas che non deflette dalle sue rigidità e che prende spunto dalle incursioni dei tank con la stella di Davide, e relativi orrori o errori, per interrompere le trattative in vista della formazione di un governo di unità nazionale. In Israele il primo ministro Olmert, a corto di idee, coopta nel governo Avigdor Lieberman, un oltranzista che porta in dote un piano per disfarsi degli arabi. Decisi a non cedere al ricatto, i benpensanti richiamano tutti alla "moderazione". La soluzione è il ritorno al processo di pace. Il massimo sarebbe tirar fuori dai cassetti la road map.
Invece della retorica autoreferenziale che mischia deprecazioni e pii desideri - di cui la recente puntata dell'"Infedele" di Lerner su Israele è stata un ottimo esemplare - sono maturi i tempi per prendere atto che alla base della questione Israele-Palestina c'è una realtà che non è considerata dalle pur sensate analisi correnti. Processo di pace potrebbe non essere neanche la definizione più appropriata di una fattispecie che ha come obiettivo quello di sancire l'affermazione di un diritto di tipo nazionale o statale sovvertendo un ordine in cui allo stato attuale esiste un'unica potestà riconosciuta ed esercitata. È necessario tornare con la mente e il cuore alla guerra dei sei giorni, allo straripamento di Israele nella sfera di sovranità, più o meno legittima, di tre dei suoi vicini.
Da allora Israele ha portato a termine la restituzione del Sinai dopo la pace di Camp David con l'Egitto e ha ritirato soldati e coloni da Gaza per vie unilaterali. Tiene sempre sotto il suo controllo diretto il Golan siriano. Ha annesso l'intera area di Gerusalemme proclamandola capitale eterna dello Stato ebraico. Nella West Bank vige un sistema misto di enorme complessità su cui insiste in linea di principio una doppia autorità, con due governi che in parte si spartiscono il territorio e in parte si sovrappongono e si scontrano, perpetuando di fatto l'occupazione. La novità è che nessuno degli stati arabi coinvolti nella guerra dei sei giorni si chiamava Palestina mentre oggi si parla solo di Palestina.
Il punto dolente è costituito appunto dall'occupazione instaurata su tutto lo spazio della Palestina mandataria e dalle modalità per farla finire. Non ci sono precedenti nella storia del Terzo mondo di una decolonizzazione che duri quarant'anni. Con tutte le differenze del caso - così come del resto l'India era diversa dall'Algeria, o il Kenya era diverso dalla Rhodesia - di una forma particolare, o particolarissima, di colonizzazione e decolonizzazione si tratta: gli ingredienti sono l'usurpazione e l'alienazione delle terre e delle coscienze, la mancanza di diritti come norma e sull'altro versante l'autodeterminazione, l'accesso alla soggettività internazionale, la responsabilità di governo per gli "indigeni".

Il termine di riferimento più vincolante non è il sionismo o il panarabismo o il nazionalismo arabo, che al più influiscono sugli ideali e le idiosincrasie che giacciono sullo sfondo, ma il vulnus prodottosi in quel lontano giugno 1967, che gli israeliani più realisti giudicarono subito un errore fatale, da correggere al più presto. Il Libano è un casus belli perenne. Ma è un diversivo per i tempi morti o per distogliere l'attenzione. Il core business, come insegnano nelle facoltà di economia, è la Palestina, la Palestina come nazione virtuale e la Palestina che, dopo tante traversie nei campi profughi o fra Amman e Beirut, alla fine si è coagulata nel paesaggio e nella gente della Cisgiordania, munita se non altro di una certa omogeneità.
Il tentativo più serio di venire a capo della questione palestinese fu compiuto con l'intesa di Oslo e il successivo incontro di Rabin, Peres e Arafat alla Casa bianca sotto l'occhio vigile di Clinton. Ottimismo condiviso e bei discorsi, bellissimo quello dell'ex-falco Rabin convertito di forza da Peres. Peccato che gli accordi del 1993 non affrontassero nessuno dei bocconi avvelenati del rapporto fra Israele e palestinesi: i limiti della sovranità, le frontiere, Gerusalemme, i profughi, l'acqua. Nel periodo che doveva essere di gestazione della pace si moltiplicarono e intensificarono tanto il terrorismo palestinese quanto gli insediamenti ebraici nei territori, gli uni e gli altri violenza pura e simbolo del rifiuto o peggio della negazione. Discende da lì il fallimento in serie del negoziato, benché in teoria non ci fosse più ragione di contendere visto il contestuale e reciproco riconoscimento di Israele da parte dell'Olp e della Palestina da parte del governo israeliano.
Sul terreno, israeliani e palestinesi sono ora intrecciati come mai in passato. In apparenza, l'opposto dei due stati per due popoli. Di per sè, il muro in costruzione tagliando il profilo delle colline o separando i villaggi e i quartieri delle città non è un confine in senso stretto. È una umiliazione per i palestinesi e un impedimento alla circolazione delle persone e delle esperienze già fra le diverse porzioni di Palestina, che infatti stanno assumendo fisionomie diverse come altrettanti bantustan, ma ribadisce tutti gli inconvenienti di una coabitazione obbligata in uno stesso ambito geopolitico. La decolonizzazione implica una separazione fisica e psicologica. L'assimilazione è un tabù perché confonde colonizzati e colonizzatori offuscando le identità e facendo venir meno la superiorità di chi è in grado di gestire in proprio la sicurezza.
Anche Israele e Palestina devono dividersi. Così è stato deciso: poco importa se dalla storia, dall'ideologia o dalla scarsa fantasia della diplomazia. Si attende sempre il momento cruciale della bandiera che scende e dell'altra bandiera che sale sul pennone più alto, come nell'Independence Day dei vari possedimenti coloniali per salutare la partenza del colonizzatore e l'avvento del nuovo potere. Tutti però, confusamente, avvertono che quell'eventuale distacco lascerebbe intatte le rivendicazioni, le paure e le minacce. Non c'è un mare da porre fra colonizzati e colonizzatori. Il muro, paradossalmente, se divenisse un confine non farebbe altro che ricordare in modo inquietante l'ostilità che ha provocato tante guerre. I raid israeliani sono continuati a Gaza anche dopo il traumatico sgombero del 2005 e i palestinesi della striscia continuano a lanciare i loro razzi perché, rispettivamente, i primi sono intesi come atti di difesa, a cui ogni governo è tenuto per tutelare i suoi cittadini, e i secondi appartengono all'armamentario della resistenza. Nella sostanza sono un test dell'impotenza generale. La letteratura sul colonialismo, ma anche la politica di questi 40-50 anni nel Medio Oriente, dimostrano che il colonialista non può tradire mai la minima debolezza nei confronti del colonizzato e che il colonizzato può alimentare nel chiuso dei propri comportamenti e dei propri codici il risentimento che alla fine sarà più forte della repressione.

I tremendi attentati perpetrati nei centri israeliani da giovani palestinesi, uomini o donne, imbottiti di esplosivo e le ripetute, abituali e impunite operazioni degli armati israeliani nei territori teoricamente soggetti all'Autorità nazionale palestinese sembrano fatti apposta per confermare il dubbio angoscioso che, malgrado tutto, il riconoscimento da Oslo e Washington non è calato nel profondo della leadership, delle forze politiche e dell'immaginario collettivo di israeliani e palestinesi. Finché la sindrome coloniale non sarà stata pienamente elaborata dalle due parti, ciascuna per il fine di "liberazione" che le compete, non sarà possibile nè il colonialismo nè la decolonizzazione ma solo una specie di guerra civile permanente.