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La guerra ai poveri

L'Italia partecipa a diverse guerre nel mondo, con migliaia di militari armati e organizzati nelle cosiddette «missioni di pace». Se è vero, cioè se queste missioni servono a fermare le guerre in qualche parte sia pure infinitesimale del globo in cui sono impegnate, un giorno ci verranno dati i risultati. Al momento, purtroppo, sembrano scarsi quelli positivi, pallide lucine in mezzo al buio di centinaia di migliaia di morti, feriti, dispersi, profughi, odii, ritorsioni, fuoco amico, focolai di terrorismo, bombardamenti preventivi, omicidi mirati, kamikaze e così via.

Ora le missioni di pace si diffondono anche nella penisola: sono missioni di pace per la sicurezza dei cittadini nei confronti dei poveri. Le organizzano le istituzioni pubbliche, ovvero quei sindaci e presidenti di provincia e di regione (alcuni tronfi personaggi si lasciano chiamare, e addirittura a volte si autodefiniscono, «governatori») che sono eletti direttamente dal popolo. Ripeto: direttamente, e già qui occorrerebbe una riflessione decisa sui metodi elettorali detti democratici, dove vincono sempre i personaggi più facoltosi o intriganti.


Chi ha più denaro ha più istruzione, più potere, più amici, più capacità di ammassare dietro di sé tutti coloro che hanno meno potere, meno istruzione, meno amici ma vogliono sentirsi parte di questo gruppo dominante. Il gruppo dominante promette sempre di creare ricchezza nell'ordine e nella sicurezza. Siamo attenti alle parole: «creare ricchezza» (creare, come dio), «ordine e sicurezza». Un galantuomo non può predicare di essere in grado di «creare ricchezza» spingendo gli esseri umani a lottare tra di loro per un lavoro precario o sottopagato, e nessuno che non abbia animo di despota può pensare a missioni di pace per garantire «ordine e sicurezza» cacciando dalle strade i poveri, italiani o stranieri.


Negli anni del fascismo, in Italia la malavita organizzata e i poveri non c'erano, semplicemente perché il regime imponeva che non se ne scrivesse. Le operazioni contro l'una e gli altri esistevano, ma non se ne parlava. La stampa era imbavagliata. Si pacificava, per così dire, in maniera violenta, ma senza che nessuno del popolo che acclamava il regime nelle piazze lo potesse sapere. Perfino la Chiesa, nonostante le sue imponenti opere di carità in tutta la penisola, era sventuratamente chiamata a tacere.


Oggi per fortuna le cose cambiano. Non so fino a quando durerà, ma abbiamo ancora vescovi cattolici che protestano pubblicamente contro la guerra ai poveri mascherata da ordine e sicurezza, dalla Sicilia, a Firenze, a Milano, al Veneto. C'è sopra tutti il vescovo di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi, che da anni segnala, ed anzi accusa, questa guerra ai poveri condotta dalle istituzioni pubbliche ovvero laiche. Denuncia pubblicamente lo sfruttamento dei lavoratori, chiede dignità e comprensione per coloro che sono considerati lavoratori «marginali». Denuncia gli sgomberi forzati di famiglie intere, costrette a scappare e a rifare comunità da un punto all'altro della metropoli: sotto i ponti, lungo le periferie, nei campi inquinati dalla nostra immondizia.


Sempre pronte a protestare contro l'invadenza della Chiesa, ma a servirsene in caso di necessità elettorali o finanziarie, molte pubbliche istituzioni oggi si levano senza pudore in difesa della loro guerra ai poveri. Altro che il mazzolariano «dare la parola ai poveri». Una missione di pace mascherata di perbenismo e di moralità: via gli accattoni, pulizia quasi etnica nei campi dei nomadi, manganelli ai poliziotti locali (ex vigili urbani), cacciata da tutti gli angoli delle strade degli extracomunitari che sopravvivono vendendo cianfrusaglie e dormono all'addiaccio o nei peggiori angoli della città.


Ordine e sicurezza? No, le parole del vescovo Tettamanzi in favore dei poveri e dei lavoratori sfruttati da chi arma i poliziotti locali e allontana la povera gente invece di aiutarla a un vivere civile, rivelano che con questi metodi non c'è né l'uno né l'altra. E come risponde Milano? Il sindaco Letizia Moratti si dice amareggiata: non per lo stato di miseria, ma per le parole del cardinale.

Mario Pancera