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La macelleria della politica (Ida Dominijanni)

Pubblicato su "Il Manifesto" del 15 giugno 2007
Il senso di appartenenza a un corpo di stato e la carità di patria sono due brutte bestie, non estranee a quello che Hannah Arendt definì, a proposito dei gerarchi nazisti, «banalità del male». Fa parte invece dell'imprevedibilità del bene il fatto che Michelangelo Fournier abbia tradito l'una e l'altra per amore di verità, ribadendo in aula, al processo sui fatti di Genova 2001, quello che già aveva detto nel suo primo interrogatorio. «Macelleria messicana», ecco cosa fu, parola del vicequestore, l'agguato alla scuola Diaz. «Metodi cileni», commentò all'epoca Massimo D'Alema, accompagnato da pochissimi e meritori esponenti diessini ma nel silenzio tombale del grosso dell'Ulivo. Absit iniuria verbis: sarà facile, per i post-colonial latinoamericani di oggi, definire d'ora in poi «metodi italiani» eventuali efferatezze in casa loro. E del resto, dopo il massacro della Diaz e le torture di Bolzaneto, fu per primo il presidente del Senegal a dirsi esterrefatto che lo stato di diritto fosse in Italia meno solido che in casa sua.
I parlamentari italiani, invece, a larghissima maggioranza lo ignorarono finché poterono. La macelleria risultava dettagliatamente dalle cronache: sangue, ciuffi di capelli strappati, oggetti personali fuoriusciti dagli zainetti abbandonati, pianti, paura di morire, ferite sui corpi e lividi nelle menti fu ciò che vedemmo, chiamati a testimoni dai ragazzi sopravvissuti al pestaggio quella lugubre notte. Ma tornati a Roma, poco o niente dello stato d'eccezione sperimentato sulla pelle a Genova sembrava turbare la normalità del palazzo. Il centrodestra di governo militava per il teorema berlusconiano della colpa del movimento. Il centrosinistra d'opposizione era più preoccupato di scongiurare il ritorno dei fantasmi «violenti» degli anni '70 che di denunciare la rottura dello stato di diritto. Altro che intercettazioni: se c'è una data della morte della rappresentanza in Italia, è in quei giorni che va fissata.
Ci volle l'intenso agosto della commissione parlamentare d'indagine, le audizioni dei leader del movimento, l'ostinazione degli esponenti Verdi e Prc (che a Genova c'erano stati) nel lavorare ai fianchi chi nella sinistra moderata era in ansia più per le sorti di Gianni De Gennaro che per l'accaduto, perché la nebbia su Genova si dissipasse. Molte verità sono depositate e documentate nelle due relazioni di minoranza, dell'Ulivo e di Rifondazione, di quella commissione. Abbattuta in diretta, il pomeriggio dell'11 settembre, dagli aerei kamikaze puntati contro le Twin Towers. Il teorema della colpa, a quel punto, venne riscritto su scala planetaria. Genova fu dimenticata, il garantismo ritornò peloso, i magistrati vennero lasciati a lavorare nell'ombra, i testimoni a elaborarsi il trauma ciascuno a casa propria, o in un movimento costretto da allora a occuparsi più della guerra globale che delle sue prove generali genovesi.
La deposizione di Michelangelo Fournier non è solo un atto morale dovuto e un'ammissione di responsabilità. È una rivalsa della memoria, che chiama ciascuno, la politica per prima, alle proprie responsabilità. Sangue, pianti, paura: quelle immagini tornano a scorrere in tv e ci interpellano. C'è chi chiede, e non da oggi, un'altra commissione parlamentare, con poteri giudiziari. C'è chi torna a presentare il conto al capo della polizia. Sono cose buone e giuste, ma prima ce n'è un'altra più buona e più giusta e più urgente: riaprire il fascicolo di Genova nel dibattito pubblico.
Fu una macelleria. Lasciò molte ferite. Quelle ferite sono ancora aperte, come labbra che aspettano di dire quello che non possono tacere.