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La speranza indignata

«Dovresti parlare della storia della regione», mi ha detto dom Pedro appena arrivata a casa sua, il 9 dicembre. Nell’apprendere che la rivista Caros Amigos mi aveva chiesto di tracciare un suo profilo per rendergli omaggio, Pedro mi aveva risposto per email: «Cara Maria Júlia, ti ringrazio per l’affetto, ma questo omaggio di Caros Amigos mi imbarazza molto. In ogni caso sei tu a rispondere di quello che scriverai. Io ti chiedo di dare risalto, soprattutto, al carattere comunitario di tutta la nostra lotta. Io sono solo un componente dell’ingranaggio».

Non riesco a vedere Pedro Casaldáliga meglio che in queste parole. È noto per chi minimamente conosce la storia della Teologia della Liberazione, della Chiesa cattolica brasiliana negli ultimi decenni e della regione dell’Araguaia che dom Pedro Casaldáliga è tra gli imprescindibili della poesia di Brecht. Ma egli si sente appena come un componente di un ingranaggio a servizio di qualcosa di più grande. «Le mie cause valgono più della mia vita», è del resto una delle sue frasi più famose. Concordando con Pedro, e rispettando il suo desiderio, è necessario evidenziare come le cause per le quali egli ha lottato dal suo arrivo in Brasile siano assai lontane da una soluzione. Le questioni di fondo che hanno permeato tutta l’azione del vescovo Pedro nella regione restano – purtroppo – estremamente attuali.

Il catalano Pedro Casaldáliga, ancora prete, arrivò nella regione dell’Araguaia nel 1968. Il suo viaggio da Goiânia a São Félix, che oggi dura in media 24 ore, richiese 8 giorni. Era un paesetto ai margini del Rio Araguaia che non aveva una scuola né un centro di salute. La prima scuola e il primo centro di assistenza sanitaria decente vennero costruiti proprio da lui e dalla sua équipe. La popolazione era costituita, essenzialmente, da piccoli contadini e da indigeni xavante, tapirapé e karajá. L’intera regione viveva l’intensa espansione del “progresso”, con territori divisi in lotti e venduti dal governo militare alle grandi compagnie agricole e zootecniche. Territori già abitati, come villaggi indigeni, paesini e persino interi municipi! Molto velocemente Pedro Casaldáliga comprese che era la terra la grande questione al centro del conflitto: indigeni e piccoli contadini da un lato, grandi fazendas latifondiste dall’altro. E si schierò. Dalla parte dei poveri.

Nel 1971 Pedro Casaldáliga viene consacrato vescovo, la regione in cui opera diventa una Prelatura, ed egli approfitta della visibilità del momento per lanciare un documento fondamentale in cui denuncia l’azione delle fazendas e la piena collaborazione di queste con il governo militare. “Una Chiesa dell’Amazzonia in conflitto con il latifondo e l’emarginazione sociale” è il titolo del testo, diventato immediatamente un punto di riferimento. Stampato e diffuso clandestinamente, il documento rivela le innumerevoli situazioni drammatiche vissute da contadini, indigeni e lavoratori di queste fazendas (in condizioni di lavoro schiavo). E quanto è ancora attuale ciò che Pedro scriveva nel 1971!

«Sentiamo, in coscienza, che anche noi dobbiamo contribuire alla demistificazione della proprietà privata. E che dobbiamo premere – insieme a tante altre persone sensibilizzate – per una Riforma Agraria giusta, radicale, sociologicamente ispirata e tecnicamente realizzata senza ritardi esasperanti, senza intollerabili trucchi. L’ingiustizia ha un nome in questa terra: il Latifondo. E l’unico nome vero dello Sviluppo qui è Riforma Agraria».

La situazione è dolorosamente attuale: non stiamo parlando di storie del passato. Quest’anno si è registrata una situazione drammatica in un municipio vicino a São Félix, a Luciara, che ha coinvolto una popolazione tradizionale – i retireiros – e alcuni fazendeiros della regione. Di nuovo, il centro della questione è la terra. A settembre gli ingressi della città di Luciara sono stati tutti bloccati per protesta contro la creazione di una Riserva di Sviluppo Sostenibile (RDS), rivendicata dai retireiros. I quali, da circa un secolo, vivono dell’allevamento collettivo di bestiame in un’area di Luciara. Si tratta di circa 100 famiglie, per un totale di 450 persone, che utilizzano nei mesi in cui non piove (da maggio a settembre) il letto del Rio Araguaia, per il pascolo del bestiame. Durante la stagione della pioggia, quando il fiume sale, le famiglie si spostano verso la terra più alta, dove conducono il bestiame, traendo dai boschi diversi tipi di piante, sementi e radici per il consumo proprio e per le diverse necessità delle famiglie. Questa terra alta è un’area contesa. È una terra dell’Unione di cui si sono recentemente appropriati in maniera illegale i fazendeiros mirando alla coltivazione della soia.

Così, alla fine di settembre, in una situazione già tesa, (…) viene data alle fiamme la casa di due leader retireiros, vari dirigenti vengono minacciati e qualcuno spara contro la casa di Zecão e Rita.

José Raimundo, detto Zecão, e Rita, entrambi professori, si erano trasferiti a Luciara nel 1990, provenienti da São Paulo. Volevano unirsi all’esperienza della Prelatura. Erano venuti con le figlie di alcuni mesi appena: Dandara Terra e Naiara Terra. Alcuni anni dopo nasce Matheus Terra, figlioccio di Pedro. I tre bambini trascorrono tutta l’infanzia e l’adolescenza a Luciara e oggi vivono a São Paulo, dove lavorano e studiano. Poco più di 10 anni fa, Zecão viene consacrato diacono da dom Pedro. Zecão e Rita diventano in questi 20 anni e passa fra i leader più importanti della Chiesa della regione, e tra le persone più fidate di Pedro. Non è un caso che siano stati loro i più minacciati. Quando ha inizio l’assedio a Luciara erano fuori città. E la tensione giunge a un punto tale che non possono far ritorno. Gli amici di Luciara, preoccupati per le minacce, chiedevano loro di non tornare. Senza sapere dove andare, si recano allora a São Félix per parlare con Pedro sul da farsi.

Rita ricorda i dettagli di quei giorni oscuri: «Cosa facciamo?», era la domanda che si ponevano. «Pedro ci disse immediatamente: “Restate qui in casa con me”. Prese lui stesso tutti i contatti con il governo federale. Se non ci fosse stato questo contatto diretto in ambito federale, quanto avvenuto a Luciara non avrebbe avuto alcuna visibilità. E noi non saremmo mai potuti tornare a casa. Passammo un mese con quanto avevamo in valigia. Non tornammo a Luciara neppure per prendere il cambio. Ci mandavano tutto alcuni vicini solidali. Il gruppo federale di protezione dei testimoni venne qui a parlarci: “La situazione è ancora tesa, non potete tornare”. Pensavamo: perché si sente il bisogno di così tante cose? L’essenza della vita è essere giusti, essere onesti, essere pronti a denunciare. (…)».

Zecão aggiunge: «Un giorno in cui mi sentivo particolarmente a disagio per quanto ci stava succedendo, chiesi a Pedro come faceva a convivere con le minacce ricevute per tutta la sua vita. Pedro mi rispose: “Chiedo al Divino di trasformare la rabbia in speranza indignata. E così mi sento sollevato”. Il nostro cuore deve essere così, sempre più grande, e deve relativizzare. Non significa cedere politicamente, ma non nutrire odio. Io piango, mi emoziono, e questo mi rende più forte. Alcuni dicono che sono una persona molto emotiva. Ma una vita senza passione è come cibo senza condimento. È la passione che mi muove».


DALLA PARTE DEGLI XAVANTE

Questa situazione di Luciara si ricollega al caso della disintrusione, avvenuta nel 2012, dell’area xavante di Marãiwatsédé, situata a circa due ore da São Félix. In un documento del 1970, “Schiavitù e Feudalismo nel nord del Mato Grosso”, Pedro aveva già indicato: «In vari punti della regione, gli stessi indios sono stati letteralmente espulsi dall’invasione delle fazendas latifondiste». Ed è esattamente questa la storia degli xavante di Marãiwatsédé, espulsi con aerei della Fab (Forza Aerea Brasiliana) nel 1968 e reinsediati in un’area distante del Mato Grosso, in un viaggio in cui morirono decine di indigeni. Un fatto che avrebbe provocato probabilmente uno scandalo se non si fosse trattato di indigeni di una regione remota del Mato Grosso.

Gli xavante non hanno mai rinunciato all’idea di tornare a Marãiwatsédé, recandosi tante volte nell’area. Strategicamente, chiedevano agli amministratori della fazenda di poter visitare i cimiteri degli antenati, ma, una volta all’interno dell’area, mappavano ogni nuovo intervento, ogni disboscamento e ogni opera. All’inizio degli anni ‘90, quando presero la decisione di organizzarsi politicamente, disponevano di una mappa dettagliata di tutto ciò che era stato fatto nell’area negli ultimi 25 anni. Riuscirono ad avviare il processo di demarcazione e a ottenere l’omologazione nel 1998. Ma anche i politici locali si organizzarono, promuovendo l’occupazione di uno spazio nel cuore dell’area xavante, nel tentativo di impedire il ritorno degli indigeni. Inventarono da un giorno all’altro una città, Posto da Mata, sostenendo di vivere nella regione da molto più tempo di loro. Finché, nel 2012, il governo federale non coordinò la disintrusione dell’area restituendo definitivamente la terra agli xavante. La posizione di Pedro, nuovamente al lato degli indigeni, produsse, nel 2004, scritte offensive su un muro della Chiesa della città di Alto de Boa Vista - “Fuori il vescovo comunista” -, e minacce più serie alla fine del 2012, tali da indurlo, per la prima volta, ad accettare di allontanarsi da São Félix per qualche tempo, sotto la protezione della Polizia Federale. Ritornò subito, all’inizio del 2013: non voleva più restare lontano.

Questi stessi militanti anti-xavante di Posto da Mata si sono trasferiti quest’anno a Luciara per lanciare il loro allarme: «Fate attenzione, perché a voi può accadere quello che è avvenuto a noi. Vogliono cancellare Luciara e lasciare tutta la città ai retireiros». Parole come queste hanno sortito un effetto enorme: la quasi totalità della popolazione di Luciara è contro la Riserva di Sviluppo Sostenibile, malgrado si tratti di terra dell’Unione occupata illegalmente da mezza dozzina di fazendeiros. E, nel frattempo, i leader dei retireiros e i loro sostenitori continuano a ricevere intimidazioni. «La Riforma agraria, qui come in altre parti del Paese e del mondo, non è un’illusione sovversiva. Non può continuare a essere una frode pubblicitaria. Né può essere rinviata»: così affermava Pedro nel documento-denuncia del 1970. Ma in questo quadro è sicuro che la soluzione alla situazione dei retireiros venga rinviata. E i latifondisti grileiros ringraziano.

La verità è che la disintrusione dell’area xavante di Marãiwatsédé ha fatto emergere altre situazioni. La questione di fondo con cui abbiamo a che fare qui è l’avanzata della soia: la politica di trasformazione della regione del basso Araguaia nella nuova grande frontiera della soia del Mato Grosso. La terra xavante ha rappresentato un ostacolo all’espansione, un sassolino nella scarpa, così come la Chiesa di Pedro e dei suoi seguaci. E la RDS dei reitireiros costituisce una potenziale minaccia.


UNA CASA DALLE PORTE SEMPRE APERTE

Pedro è anche poeta. Il tema del popolo dell’Araguaia, con i suoi dolori e la sua vita, è uno dei più ricorrenti nelle sue poesie. Penso a quanto è avvenuto a Luciara, alla solidarietà di Pedro nei confronti degli amici e dei retireiros, e mi viene sempre in mente questa poesia, un’evocazione del «viandante, non c'è cammino, il cammino si fa camminando» del poeta spagnolo Antônio Machado:

«Retirante, l’unico cammino è quello che c’è. / Di campi e di case non ve ne sono più. / Neppure i sette palmi di terra di un tempo saranno per tutti! / Retirante, viandante, c’è un solo cammino. / Il cammino che siamo, il cammino che facciamo: / Per vivere, per andare; perché altri viandanti si uniscano. / Il cammino perché i disoccupati riprendano coraggio. / Perché chi si è perso si ritrovi./ Il cammino che siamo, il cammino che facciamo. / Se c’è uno steccato, non hai braccia e falce per distruggerlo? / Se la notte ti ha nascosto la direzione, cercala insieme ai fratelli: / un cuore in compagnia trova sempre il chiaro di luna. / Viandante, compagno, c’è un solo cammino: / il cammino che siamo, il cammino che facciamo! / Per ora, questo è quello che c’è... / Ma, un giorno, il mondo si ribalta e c’è quel che ci sarà!».

Dom Pedro Casaldáliga compie 86 anni a febbraio. Da 25 anni convive con “fratello Parkinson”, come gli piace dire. Questa prolungata convivenza gli ha portato molte limitazioni. Negli ultimi anni non gli è più possibile scrivere e, pertanto, rispondere personalmente ai tanti messaggi che riceve ogni giorno. Ma non sono mai mancate mani amiche per aiutarlo con la posta elettronica, mantenendo in tal modo la tradizione: tutti i messaggi trovano risposta.

Per tutto il giorno passano persone a rendergli visita a casa, che continua, letteralmente, a tenere le porte aperte. Le persone del popolo lo hanno sempre chiamato semplicemente Pedro. O, più raramente, “vescovo Pedro”, espressione pur sempre affettuosa. L’atteggiamento del popolo nei confronti di Pedro Casaldáliga dice molto della relazione che con esso egli ha stabilito. Mi ricordo sempre della prima volta che sono stata a São Félix, nel 2003, e delle risate che suscitavo quando lo chiamavo “Casaldáliga” o “dom Pedro Casaldáliga”. Sarebbe comprensibile se le difficoltà causategli dal Parkinson lo avessero reso una persona ombrosa e poco propensa a ricevere visite. Ma è esattamente il contrario. Pedro riceve tutti volentieri. Sempre e tutti. Fa domande sulle cose concrete della vita, dà la benedizione e scherza. Scherza molto! Nel 2009 passai di nuovo a casa sua per visitarlo e mi spaventai a vederlo usare, per la prima volta, il bastone. Egli certamente colse la mia espressione preoccupata e addolorata, perché mi guardò e disse: «È per spaventare i cani». Forse il suo senso dell’umorismo è stato in questo momento della sua vita una forma di protezione. Può essere. Egli non si lamenta della sua condizione, ma scherza. È qualcosa di assolutamente incredibile... I problemi di salute non gli hanno sottratto la sua caratteristica ironia, quella che lo fa parlare di “fratello-Parkinson”.

E la casa è così carica di significato! Una casa semplice, come quella di qualunque sertanejo. Verniciata solo esternamente, le pareti interne sono di mattoni a vista, ed è piena di quadri, oggetti indigeni, foto, manifesti, prodotti artigianali di diversi Paesi dove Pedro è stato o dove vivono tanti amici della Prelatura. «Qui nulla è stato messo a caso, Maria Júlia, tutto ha un significato», mi disse nel 2003, quando andai a casa sua per la prima volta e rimasi completamente incantata ad osservare ogni dettaglio, con la voglia di conoscere la storia di ogni oggetto. Per non stancare Pedro, non stavo sempre a far domande, ma come avrei voluto... So che la piccola croce di cuoio gli è stata data da Frei Betto, quando quest’ultimo si trovava nel carcere Tiradentes, all’inizio degli anni ‘70. So che la foto della vecchietta ricoperta completamente di rughe che ci guarda sorridente in cucina è stata scattata da Carlos Moura, uno degli operatori di pastorale più importanti della storia della Prelatura, durante un viaggio all’interno del Piauí. E so che ci sono molte decorazioni karajá, tapirapé e xavante: dimostrazioni di affetto e amicizia nei confronti del vecchio vescovo, grande compagno di strada durante i conflitti vissuti dagli indigeni nella regione. Tutti i giorni della settimana di dicembre in cui sono stata ad Araguaia sono passati indios karajá per la casa di Pedro. In un luogo tanto carico di pregiudizi contro gli indigeni come São Félix, il “palazzo episcopale” dalle porte aperte è sempre stato un rifugio per i karajá, i tapirapé e gli xavante di passaggio per la città.

La consacrazione episcopale di Pedro Casaldáliga non è stata solo un momento di denuncia. È stato compiuto in quell’occasione un gesto ancora più profondo di impegno pastorale e politico. Una simbologia incarnata della Teologia della Liberazione. Pedro rinunciò ad alcuni simboli classici: al posto della mitra, un cappello di paglia del sertão; al posto del baculo, un remo karajá, consegnato da un leader del popolo indigeno; al posto dell’anello d’oro, un anello di tucum. Dietro incoraggiamento di un’altra grande figura della Teologia della Liberazione, dom Tomás Balduíno, Pedro aveva accettato la nuova sfida del ministero episcopale. Ma con un diverso rituale. Nell’invito per la consacrazione, Pedro scrisse: «La tua mitra sarà un cappello di paglia sertanejo; il sole e la luna; la pioggia e il sereno; lo sguardo dei poveri con cui camminare e lo sguardo glorioso di Cristo, il Signore. Il tuo baculo sarà la Verità del Vangelo e la fiducia riposta in te dal tuo popolo. Il tuo anello sarà la fedeltà alla Nuova Alleanza del Dio liberatore e la fedeltà al popolo di questa terra».

L’anello di tucum diventò, da allora, un simbolo. In un primo momento, significava: chi usa questo anello sta assumendo la causa dei popoli indigeni. Ma poi diventò qualcosa di ancora più grande, passando a significare l’impegno con le cause dei poveri, degli emarginati, della trasformazione sociale. Molti militanti usano questo simbolo e, in qualche modo, si riconoscono. E quante coppie si sono scambiate l’anello di tucum al posto della fede? Il tucum è una palma molto comune in Amazzonia. È un legno duro, resistente. E il fusto della palma è pieno di spine, lunghe e acuminate. Come dice Pedro, sono spine intrepide; questo cammino non è una passeggiata... Nel film prodotto nel 1994 e ispirato a questa storia, dom Pedro, nel finale, spiega al protagonista il significato “di questo anello nero”: «È l’anello di tucum, una palma dell’Amazzonia, segno dell’alleanza con la causa indigena, con le cause popolari. Usare questo anello vuol dire normalmente assumere queste cause e le loro conseguenze». E chiede alla fine: «Tu accetteresti di portarlo? Accetti? Guarda, questo ti impegna, eh? Ti segna».

Voi accettate?

 

fonte: Comunità di via Gaggio (Lecco)