Pubblicato su "Notizie minime della nonviolenza, n. 609 del 15 ottobre 2008"
L'educazione alla pace, fin dalla sua origine, si è sempre caratterizzata per alcune specificità, connesse con le particolari finalità di un'azione formativa di questo tipo.
"Pace" è, infatti, un concetto complesso e anche controverso; se poi per "pace" si intende non solo l'assenza di guerra (pace negativa), ma la pace positiva, la nonviolenza come orizzonte personale e politico, etico e pragmatico, ancor più evidenti diventano gli elementi caratterizzanti: il rapporto di interconnessione tra livelli micro e macro; il carattere di inter-trans-disciplinarità; lo stretto collegamento tra ricerca-educazione-azione; la necessaria omogeneità tra contenuti e metodologie.
"Pace" è, infatti, un concetto complesso e anche controverso; se poi per "pace" si intende non solo l'assenza di guerra (pace negativa), ma la pace positiva, la nonviolenza come orizzonte personale e politico, etico e pragmatico, ancor più evidenti diventano gli elementi caratterizzanti: il rapporto di interconnessione tra livelli micro e macro; il carattere di inter-trans-disciplinarità; lo stretto collegamento tra ricerca-educazione-azione; la necessaria omogeneità tra contenuti e metodologie.
Ma ogni stagione ha anche il suo specifico contesto. Se negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso erano comunque in primo piano, da un lato, l'aspetto contenutistico che ha portato a sviluppare i diversi ambiti del "cono della pace" (l'educazione al disarmo; ai diritti umani, alla giustizia, alla differenza, alla sostenibilità...) e dall'altro il richiamo alla qualità della relazione, oggi mi pare che le trasformazioni avvenute a livello globale nel mondo contemporaneo, in questi decenni di passaggio tra un secolo e l'altro, aprano nuovi orizzonti e nuove frontiere all'educazione alla pace. Due mi paiono le sfide più significative per l'oggi: la prima è quella di sviluppare piena consapevolezza del contesto in cui ci muoviamo, caratterizzato da problemi complessi e situazioni drammatiche, che mettono a rischio la sopravvivenza di intere popolazioni se non dell'intera specie umana; la seconda, a questa collegata, è di come riuscire ad agire in modo efficace su più livelli, da quello profondo, interiore, a quello macro, globale, per produrre effettivo cambiamento.
1. Una cultura di pace trova oggi il suo primo fondamento nella ineludibile necessità di passare "dal modello del dominio a quello della partnership" (Riane Eisler, 2004) (1).
Nonostante questa espressione appaia quasi ovvia e scontata, nulla è più lontano da una simile prospettiva nella realtà contemporanea, sia a livello culturale che strutturale, sia nelle relazioni interpersonali che nei processi macroeconomici e sociali.
Il paradigma conflittuale fondato sul gioco a somma zero, sul vincere o perdere (possibilmente vincere a tutti i costi...) è tuttora quello dominante nella cultura profonda e, se possibile, sembra coinvolgere dimensioni e ambiti via via più vasti, in primo luogo quello del rapporto con i sistemi naturali, nei confronti dei quali l'azione umana si pone in una relazione di sfruttamento e di dominio sempre più intensi.
Tra le diverse visioni del mondo presenti, gli atteggiamenti e i comportamenti prevalenti sembrano essere ancora quelli che denotano una volontà di controllo e di dominio, nonostante la palpabile incertezza che connota le nostre "società del rischio" (o forse proprio per questo), con tutte le nefaste conseguenze del caso.
Si crea così una situazione sempre più insostenibile e gravida di conflitti a tutti i livelli.
Diventa perciò necessario mettere a fuoco gli elementi strutturali che portano a questa situazione, ampliando lo sguardo a livello temporale e spaziale. Ciò fa emergere nodi e vincoli.
Il nodo fondamentale della mancanza di equità nella distribuzione delle ricchezze, che mette in pericolo la sopravvivenza a livello globale, perché, in un contesto di finitezza del pianeta, e in assenza di limiti allo "sviluppo", scatena la concorrenza sulle risorse, come le guerre del nuovo secolo mettono in evidenza.
Educare alla pace e alla nonviolenza mi pare, allora, che in primo luogo oggi significhi rovesciare questo paradigma: prendere coscienza della costitutiva fragilità degli esseri umani, della loro interdipendenza gli uni dagli altri e della dipendenza di tutti dalla natura che ci accoglie e ci sostiene (2). Solo così potrebbe nascere una nuova etica della cura e della partnership che renda sostenibile (sustinere, "tenere da sotto", mantenere, avere cura di...), ora e nel futuro, la presenza delle comunità umane sulla Terra, capaci di con-vivere con se stesse, con gli altri esseri e con l'ambiente naturale.
La nonviolenza è la cultura del futuro proprio perché è fondata su questo paradigma e fa della debolezza una forza e del limite un criterio. La nonviolenza è infatti la forza del debole, che sa di non dover cercare la "vittoria" sull'altro, perché ogni "vittoria" è l'inizio di una nuova guerra. Che accoglie il conflitto come una risorsa a patto di saperlo nutrire di ascolto, empatia, assertività, comunicazione nonviolenta, perché solo in questo modo si realizza pienamente e fino in fondo l'umanità di ciascuno e si entra in relazione con l'umanità profonda dell'altro, anche quando si è in conflitto con lui. Che sceglie la semplicità volontaria perché è consapevole che il ben-essere di ciascuno non può che essere in relazione con il ben-essere di tutti. Che accoglie il limite come elemento costitutivo dell'esperienza umana e come condizione per una vita sostenibile per tutti.
2. Per acquisire la consapevolezza necessaria in questo contesto e agire in modo efficace è essenziale sviluppare la dimensione interiore dell'educazione alla pace, trovare le strade che connettono al proprio Sè più profondo, incontrare l'essenza della comune umanità e condividerla.
Certamente è importante sviluppare tutte le competenze relazionali necessarie, offrire tutti gli elementi che a livello cognitivo possono portare a nuove consapevolezze e produrre cambiamento.
Ma sappiamo che il solo livello cognitivo non è sufficiente. Nelle situazioni in cui si sviluppano paure e atteggiamenti discriminatori, là dove ci sono forti disparità e ingiustizie che originano sofferenza e alimentano rancore, in tutte le situazioni di conflitto è indispensabile confrontarsi con le basi emotive profonde che irrigidiscono le posizioni e ostacolano le trasformazioni, ma che possono invece essere anche una risorsa per connettersi con le energie che ci possono riportare all'unità nel rispetto delle diversità, all'armonia come risultato della pluralità.
Trovare le vie di accesso a queste basi profonde è allora indispensabile.
Ciascuno troverà le proprie strade. L'essenziale è mettersi su questo cammino.
Nel primo numero del 2008 del "Journal of Peace Education", la rivista della Commissione sull'Educazione alla Pace dell'International Peace Research Association, c'è un articolo che sottolinea l'importanza di lavorare in profondità per costruire attitudini di pace nei giovani, seguendo percorsi che tentano una sintesi tra principi delle scienze del comportamento sviluppate nella cultura occidentale e principi che sono patrimonio millenario di culture e filosofie orientali (3).
È quanto viene sperimentato nel progetto svedese Dodg ("The dream of the good") fondato su due principi-chiave.
Il primo sottolinea l'importanza di "comprendere la connessione tra sè e ciò di cui si fa esperienza, vale a dire che la nostra esperienza del mondo dipende intimamente da noi stessi e può dunque cambiare. Una accresciuta consapevolezza della connessione tra il sè e l'altro motiva a cercare la pace in se stessi, invece che limitarsi a combattere contro condizioni esterne spiacevoli" (4). Tale principio mette in luce l'influenza che l'inconscio può avere sui nostri pensieri, sentimenti, comportamenti, rende consapevoli di come le emozioni negative possano essere proiettate sul mondo esterno e di quanto le nostre attuali esperienze siano collegate a pensieri, emozioni e comportamenti passati.
Il secondo principio-chiave è quello di potenziare le capacità di concentrazione e l'esperienza di una mente calma attraverso diversi metodi di rilassamento, per contrastare i pensieri e le emozioni negative. La concentrazione e la calma ci aiutano ad accedere alle nostre risorse interiori e la maggiore consapevolezza rafforza la comprensione di quanto le nostre esperienze dipendono da noi stessi (primo principio).
Nella "cassetta degli attrezzi" del progetto Dodg ci sono perciò diversi metodi di rilassamento centrati sulla relazione mente-corpo, come la pratica del silenzio e della meditazione, lo yoga, il quigong, oppure la pratica del dialogo in piccoli gruppi su questioni esistenziali. La comune esplorazione di questioni di senso crea un setting idoneo per esaminare i propri pensieri e sistemi di valori, per superare rigide percezioni reciproche, per sviluppare sentimenti di interdipendenza e di empatia e aumentare la consapevolezza della connessione. D'altra parte, sviluppare lo spazio interiore rende possibile accedere al significato e trasformare gli "eventi" esterni in "esperienze" vissute e consapevoli.
Anche da noi ci sono sperimentazioni che vanno in una direzione analoga. Una di queste è l'esperienza della pratica del silenzio come feconda dimensione di incontro tra arte, pedagogia e scienza, vissuta dal gruppo che si è ritrovato intorno alla monaca buddista di tradizione zen Dinajara Doju Freire a Torino (5).
Tra le metodologie didattiche innovative, i giochi di ruolo come quelli ideati dal gruppo di Ricerca e didattica delle scienze naturali coordinato da Elena Camino, dell'Università di Torino, per affrontare situazioni complesse e controverse (6), sono strumenti idonei per attivare diverse modalità e processi di apprendimento che coniugano dimensione cognitiva ed emotiva, lavoro a livello personale e comprensione di dinamiche conflittuali a livello macro; che sviluppano capacità di decentramento e di empatia, creatività e rispetto delle regole, nella consapevolezza delle proprie attitudini e modalità relazionali.
Lo stretto collegamento tra micro (cambiamento personale) e macro (cambiamento strutturale), che è una specificità dello statuto dell'educazione alla pace, è dunque oggi ancor più evidente e richiede un approfondimento che faccia emergere il nucleo centrale in entrambe le direzioni: ricercare e contrastare i meccanismi che producono violenza a livello individuale (7) e allo stesso tempo individuare e contrastare i nodi cruciali che sono all'origine della violenza diretta, strutturale e culturale nel mondo contemporaneo, per sviluppare atteggiamenti, comportamenti e azioni di pace.
Le due sfide sono intimamente collegate tra loro: per poter passare dal modello del dominio a quello della partnership è indispensabile "trovare il proprio centro", entrare in contatto con le basi profonde ed emotive che possono dare la stabilità necessaria per riconoscere i legami che ci connettono agli altri e al mondo esterno, aprendoci ad una relazione di solidarietà e di partnership, unica condizione che può rendere possibile un futuro vivibile per tutti.
Il superamento del mito dello yogi (credere che sia sufficiente cambiare la persona umana per cambiare la società) e del commissario (credere, all'opposto, che basti cambiare le strutture sociali perché tutta la società sia diversa), che propone Galtung (8), va allora inteso non solo nel senso che occorre agire contemporaneamente sui due livelli, ma che essi sono interdipendenti, al punto che non è possibile l'uno senza l'altro, perché tutto avviene in un continuum, senza nette separazioni di campo. In altri termini ciò significa sostenere che si può immaginare un mondo diverso, ma questo non si realizza finché non viene "praticato", qui e ora, nelle forme e dimensioni immediatamente possibili, dunque a partire da sè, dai propri atteggiamenti, pensieri, relazioni, mettendo in campo tutta la responsabilità e il potere che è nelle nostre mani, perché, come afferma Gandhi, nonviolenza è essere consapevoli che "dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere".
Note:
1. Riane Eisler, Ron Miller, Educating for a culture of peace, Portsmouth, 2004.
2. G. Ferrara, La vita buona e i conflitti ambientali, intervento al convegno Conflitti ambientali: analisi e trasformazione nonviolenta (Modena, 30 novembre - primo dicembre 2007).
3. Ole Henning Sommerfelt, Vidar Vambheim, "The dream of the good". A peace education project exploring the potential to educate for peace at an individual level, in "Journal of Peace Education", 5, n. 1, march 2008, Routledge, Taylor&Francis, 2008, pp. 79-95.
4. Op. cit., p. 83.
5. AA. VV., Di silenzio in silenzio, Anima Mundi Editrice, 2007.
6. Si veda, ad esempio, di Colucci-Camino, Gamberetti in tavole: un problema globale, Ega, 2000, oppure, sul conflitto arabo-israeliano: A. Dogliotti Marasso - M. C. Tropea, La mia storia, la tua storia, il nostro futuro, Ega, 2003.
7. Si veda in particolare, in questo ambito, l'ultimo testo di Pat Patfoort, Difendersi senza aggredire, Ega, 2006.
8. Citato anche nell'ultimo libro di Alberto L'Abate, Per un futuro senza guerre, Liguori, 2008.
1. Una cultura di pace trova oggi il suo primo fondamento nella ineludibile necessità di passare "dal modello del dominio a quello della partnership" (Riane Eisler, 2004) (1).
Nonostante questa espressione appaia quasi ovvia e scontata, nulla è più lontano da una simile prospettiva nella realtà contemporanea, sia a livello culturale che strutturale, sia nelle relazioni interpersonali che nei processi macroeconomici e sociali.
Il paradigma conflittuale fondato sul gioco a somma zero, sul vincere o perdere (possibilmente vincere a tutti i costi...) è tuttora quello dominante nella cultura profonda e, se possibile, sembra coinvolgere dimensioni e ambiti via via più vasti, in primo luogo quello del rapporto con i sistemi naturali, nei confronti dei quali l'azione umana si pone in una relazione di sfruttamento e di dominio sempre più intensi.
Tra le diverse visioni del mondo presenti, gli atteggiamenti e i comportamenti prevalenti sembrano essere ancora quelli che denotano una volontà di controllo e di dominio, nonostante la palpabile incertezza che connota le nostre "società del rischio" (o forse proprio per questo), con tutte le nefaste conseguenze del caso.
Si crea così una situazione sempre più insostenibile e gravida di conflitti a tutti i livelli.
Diventa perciò necessario mettere a fuoco gli elementi strutturali che portano a questa situazione, ampliando lo sguardo a livello temporale e spaziale. Ciò fa emergere nodi e vincoli.
Il nodo fondamentale della mancanza di equità nella distribuzione delle ricchezze, che mette in pericolo la sopravvivenza a livello globale, perché, in un contesto di finitezza del pianeta, e in assenza di limiti allo "sviluppo", scatena la concorrenza sulle risorse, come le guerre del nuovo secolo mettono in evidenza.
Educare alla pace e alla nonviolenza mi pare, allora, che in primo luogo oggi significhi rovesciare questo paradigma: prendere coscienza della costitutiva fragilità degli esseri umani, della loro interdipendenza gli uni dagli altri e della dipendenza di tutti dalla natura che ci accoglie e ci sostiene (2). Solo così potrebbe nascere una nuova etica della cura e della partnership che renda sostenibile (sustinere, "tenere da sotto", mantenere, avere cura di...), ora e nel futuro, la presenza delle comunità umane sulla Terra, capaci di con-vivere con se stesse, con gli altri esseri e con l'ambiente naturale.
La nonviolenza è la cultura del futuro proprio perché è fondata su questo paradigma e fa della debolezza una forza e del limite un criterio. La nonviolenza è infatti la forza del debole, che sa di non dover cercare la "vittoria" sull'altro, perché ogni "vittoria" è l'inizio di una nuova guerra. Che accoglie il conflitto come una risorsa a patto di saperlo nutrire di ascolto, empatia, assertività, comunicazione nonviolenta, perché solo in questo modo si realizza pienamente e fino in fondo l'umanità di ciascuno e si entra in relazione con l'umanità profonda dell'altro, anche quando si è in conflitto con lui. Che sceglie la semplicità volontaria perché è consapevole che il ben-essere di ciascuno non può che essere in relazione con il ben-essere di tutti. Che accoglie il limite come elemento costitutivo dell'esperienza umana e come condizione per una vita sostenibile per tutti.
2. Per acquisire la consapevolezza necessaria in questo contesto e agire in modo efficace è essenziale sviluppare la dimensione interiore dell'educazione alla pace, trovare le strade che connettono al proprio Sè più profondo, incontrare l'essenza della comune umanità e condividerla.
Certamente è importante sviluppare tutte le competenze relazionali necessarie, offrire tutti gli elementi che a livello cognitivo possono portare a nuove consapevolezze e produrre cambiamento.
Ma sappiamo che il solo livello cognitivo non è sufficiente. Nelle situazioni in cui si sviluppano paure e atteggiamenti discriminatori, là dove ci sono forti disparità e ingiustizie che originano sofferenza e alimentano rancore, in tutte le situazioni di conflitto è indispensabile confrontarsi con le basi emotive profonde che irrigidiscono le posizioni e ostacolano le trasformazioni, ma che possono invece essere anche una risorsa per connettersi con le energie che ci possono riportare all'unità nel rispetto delle diversità, all'armonia come risultato della pluralità.
Trovare le vie di accesso a queste basi profonde è allora indispensabile.
Ciascuno troverà le proprie strade. L'essenziale è mettersi su questo cammino.
Nel primo numero del 2008 del "Journal of Peace Education", la rivista della Commissione sull'Educazione alla Pace dell'International Peace Research Association, c'è un articolo che sottolinea l'importanza di lavorare in profondità per costruire attitudini di pace nei giovani, seguendo percorsi che tentano una sintesi tra principi delle scienze del comportamento sviluppate nella cultura occidentale e principi che sono patrimonio millenario di culture e filosofie orientali (3).
È quanto viene sperimentato nel progetto svedese Dodg ("The dream of the good") fondato su due principi-chiave.
Il primo sottolinea l'importanza di "comprendere la connessione tra sè e ciò di cui si fa esperienza, vale a dire che la nostra esperienza del mondo dipende intimamente da noi stessi e può dunque cambiare. Una accresciuta consapevolezza della connessione tra il sè e l'altro motiva a cercare la pace in se stessi, invece che limitarsi a combattere contro condizioni esterne spiacevoli" (4). Tale principio mette in luce l'influenza che l'inconscio può avere sui nostri pensieri, sentimenti, comportamenti, rende consapevoli di come le emozioni negative possano essere proiettate sul mondo esterno e di quanto le nostre attuali esperienze siano collegate a pensieri, emozioni e comportamenti passati.
Il secondo principio-chiave è quello di potenziare le capacità di concentrazione e l'esperienza di una mente calma attraverso diversi metodi di rilassamento, per contrastare i pensieri e le emozioni negative. La concentrazione e la calma ci aiutano ad accedere alle nostre risorse interiori e la maggiore consapevolezza rafforza la comprensione di quanto le nostre esperienze dipendono da noi stessi (primo principio).
Nella "cassetta degli attrezzi" del progetto Dodg ci sono perciò diversi metodi di rilassamento centrati sulla relazione mente-corpo, come la pratica del silenzio e della meditazione, lo yoga, il quigong, oppure la pratica del dialogo in piccoli gruppi su questioni esistenziali. La comune esplorazione di questioni di senso crea un setting idoneo per esaminare i propri pensieri e sistemi di valori, per superare rigide percezioni reciproche, per sviluppare sentimenti di interdipendenza e di empatia e aumentare la consapevolezza della connessione. D'altra parte, sviluppare lo spazio interiore rende possibile accedere al significato e trasformare gli "eventi" esterni in "esperienze" vissute e consapevoli.
Anche da noi ci sono sperimentazioni che vanno in una direzione analoga. Una di queste è l'esperienza della pratica del silenzio come feconda dimensione di incontro tra arte, pedagogia e scienza, vissuta dal gruppo che si è ritrovato intorno alla monaca buddista di tradizione zen Dinajara Doju Freire a Torino (5).
Tra le metodologie didattiche innovative, i giochi di ruolo come quelli ideati dal gruppo di Ricerca e didattica delle scienze naturali coordinato da Elena Camino, dell'Università di Torino, per affrontare situazioni complesse e controverse (6), sono strumenti idonei per attivare diverse modalità e processi di apprendimento che coniugano dimensione cognitiva ed emotiva, lavoro a livello personale e comprensione di dinamiche conflittuali a livello macro; che sviluppano capacità di decentramento e di empatia, creatività e rispetto delle regole, nella consapevolezza delle proprie attitudini e modalità relazionali.
Lo stretto collegamento tra micro (cambiamento personale) e macro (cambiamento strutturale), che è una specificità dello statuto dell'educazione alla pace, è dunque oggi ancor più evidente e richiede un approfondimento che faccia emergere il nucleo centrale in entrambe le direzioni: ricercare e contrastare i meccanismi che producono violenza a livello individuale (7) e allo stesso tempo individuare e contrastare i nodi cruciali che sono all'origine della violenza diretta, strutturale e culturale nel mondo contemporaneo, per sviluppare atteggiamenti, comportamenti e azioni di pace.
Le due sfide sono intimamente collegate tra loro: per poter passare dal modello del dominio a quello della partnership è indispensabile "trovare il proprio centro", entrare in contatto con le basi profonde ed emotive che possono dare la stabilità necessaria per riconoscere i legami che ci connettono agli altri e al mondo esterno, aprendoci ad una relazione di solidarietà e di partnership, unica condizione che può rendere possibile un futuro vivibile per tutti.
Il superamento del mito dello yogi (credere che sia sufficiente cambiare la persona umana per cambiare la società) e del commissario (credere, all'opposto, che basti cambiare le strutture sociali perché tutta la società sia diversa), che propone Galtung (8), va allora inteso non solo nel senso che occorre agire contemporaneamente sui due livelli, ma che essi sono interdipendenti, al punto che non è possibile l'uno senza l'altro, perché tutto avviene in un continuum, senza nette separazioni di campo. In altri termini ciò significa sostenere che si può immaginare un mondo diverso, ma questo non si realizza finché non viene "praticato", qui e ora, nelle forme e dimensioni immediatamente possibili, dunque a partire da sè, dai propri atteggiamenti, pensieri, relazioni, mettendo in campo tutta la responsabilità e il potere che è nelle nostre mani, perché, come afferma Gandhi, nonviolenza è essere consapevoli che "dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere".
Note:
1. Riane Eisler, Ron Miller, Educating for a culture of peace, Portsmouth, 2004.
2. G. Ferrara, La vita buona e i conflitti ambientali, intervento al convegno Conflitti ambientali: analisi e trasformazione nonviolenta (Modena, 30 novembre - primo dicembre 2007).
3. Ole Henning Sommerfelt, Vidar Vambheim, "The dream of the good". A peace education project exploring the potential to educate for peace at an individual level, in "Journal of Peace Education", 5, n. 1, march 2008, Routledge, Taylor&Francis, 2008, pp. 79-95.
4. Op. cit., p. 83.
5. AA. VV., Di silenzio in silenzio, Anima Mundi Editrice, 2007.
6. Si veda, ad esempio, di Colucci-Camino, Gamberetti in tavole: un problema globale, Ega, 2000, oppure, sul conflitto arabo-israeliano: A. Dogliotti Marasso - M. C. Tropea, La mia storia, la tua storia, il nostro futuro, Ega, 2003.
7. Si veda in particolare, in questo ambito, l'ultimo testo di Pat Patfoort, Difendersi senza aggredire, Ega, 2006.
8. Citato anche nell'ultimo libro di Alberto L'Abate, Per un futuro senza guerre, Liguori, 2008.