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L’importanza della scuola per don Milani come luogo di formazione e di emancipazione sociale

Un folto gruppo di aclisti, provenienti da quindici circoli delle Provincie di Bergamo, Brescia, Milano, Monza-Brianza, Varese e Vicenza si sono ritrovati per una giornata di studio sulla figura di don Lorenzo Milani in occasione dei cinquant’anni della morte.

Ci siamo trovati a Forneletti di Valeggio sul Mincio (Verona). Durante la giornata abbiamo incontrato vecchie conoscenze e nuove, siamo stati accolti con cordialità, abbiamo ascoltato una preziosa relazione, abbiamo discusso tra noi, abbiamo pregato e, alla fine, abbiamo chiuso con una allegra compagnia a base di canti e di dolci.

Il relatore dell’incontro Agostino Burberi ha concesso una intervista a Rocca, rivista della Pro Civitate Cistiana di Assisi n. 20.

Di seguito il testo registrato della giornata non rivisto dal relatore.

Cordiali saluti

Angelo Levati




Enzo Torri

ACLI – San Polo – Brescia

Oggi abbiamo postato con noi la nostra comune bandiera dei nostri circoli di Cernusco e di San Polo, bandiera storica che ci ricorda i nostri percorsi insieme partiti il 10 novembre 1996. Il fatto che continuiamo a vederci vuol dire che i nostri incontri sono una scambio positivo di relazione tra noi, oggi tra l’altro accompagnati da una bella giornata, che vogliamo dedicare alla figura di don Lorenzo Milani, figura che incrocia molte delle nostre storie, sia di realtà come Forneletti che di circoli ACLI

Come relatore abbiamo oggi Agostino Burberi, ex ragazzo di don Milani, che è vice-Presidente della Fondazione don Lorenzo Milani. Anche qui s’intrecciano diverse storie, perché don Milani ha pensato bene di utilizzare Agostino per valorizzare l’esperienza di Barbiana, inviandolo da queste parti come sindacalista. Perciò è stato, più o meno contemporaneo, oltrechè collega mio e di Beppe Marchi perché provenienti dallo stesso sindacato. Pertanto ci siamo abbeverati di questa storia perché come vedete ci sono storie che si intrecciano e percorsi che si alimentano.

Adesso faremo le introduzioni, poi Agostino ci parlerà non tanto e solo della figura di don Milani, che tanti di voi ormai conoscono, ma di quello che ci ha lasciato e cosa c’è di attuale in don Lorenzo.



Beppe Marchi

Associazione Forneletti

Grazie della vostra presenza che ormai è diventata una costante nella storia di questa struttura di accoglienza, cioè la presenza dei vostri circoli ACLI, perché i temi che avete affrontato nei vostri incontri ci coinvolgono e s’intrecciano con le finalità di Forneletti. Il tema di quest’anno in particolare, come diceva Enzo prima, ci tocca ancora di più e ci mette assieme. Quando nel 2001 abbiamo fatto una revisione del nostro percorso associativo, perché anche noi abbiamo avuto una crisi come spesso succede nei gruppi, nel momento di ridefinire lo statuto, dovendo indicare delle sintesi che ci aiutassero a definire il senso della nostra esperienza abbiamo scelto due persone e due frasi. Una è della scuola di Barbiana e di don Milani: “I care”, il moto intraducibile degli americani migliori, che significa “mi importa” “mi sta a cuore”.

La realtà di Forneletti compie trent’anni, dopo essere stata trasformata da casa di contadini a quella che è oggi “luogo di incontri”, frutto del lavoro di molti volontari che hanno prestato la loro opera. Abbiamo quindi scelto percorsi educativi approfondendo tre filoni, quali la pace, la mondialità e l’ambiente. Tutti i fine settimana ospitiamo dei gruppi ai quali cerchiamo di trasmettere queste finalità. Stamattina avrete visto un po’ di trambusto e di movimento perché abbiamo tra noi un artista brasiliano, Anderson Augusto, che ci raggiungerà più tardi perché anche lui appassionato di don Milani. Sta facendo dei laboratori sulla “Laudato Si” e sull’ambiente con delle scuole della zona. Noi definiamo il percorso di Forneletti, perché siamo un po’ tutti legati al Brasile, con la parola brasiliana: “Mutirao”. In Brasile si usa questa parola, quando nelle realtà molto povere, la gente si mette assieme per fare qualcosa non per sé; è un lavoro comunitario e gratuito per tutti quelli che ne hanno bisogno. La stessa cosa è stata fatta a Forneletti con l’impegno di tantissima gente. Siamo partiti trenta anni fa con l’aiuto di un prete che ritornava dal nord-est del Brasile, don Sandro Spinelli, missionario che quelli di Cernusco sul Naviglio conoscono molto bene. Don Sandro ci ha dato la spinta iniziale e stiamo proseguendo in questo cammino. Abbiamo preso le parole di Barbiana, “mi impegno” “mi sta a cuore”, che sono più che mai attuali perché sono l’esatto contrario del motto “me ne frego”. Mi importa mi sta a cuore è quello che cerchiamo di fare con il nostro impegno per Forneletti. Per questo vi ringrazio ancora della vostra presenza.



Giuseppe Parmendola

ACLI Cernusco sul Naviglio (Milano)

Qualche giorno fa ho fatto una chiacchierata con Angelo Levati per capire il senso e la storia di Forneletti: siccome io sono arrivato dopo, avevo bisogno di conoscere questa realtà per me assolutamente nuova.

Per il circolo di Cernusco sul Naviglio, l’esperienza di Forneletti, è iniziata ventuno anni fa come esigenza di incontro tra circoli per approfondire problematiche della società che ci stanno particolarmente a cuore. Nel nostro DNA abbiamo sempre avuto la volontà di occuparci di questioni sociali con uno sguardo dal basso, che hanno il vantaggio di rinnovarci e riproporci ogni anno con argomenti di attualità.

Quest’anno viene proposto come esempio don Lorenzo Milani che, con don Mazzolari, don Zeno e Turoldo, spesso sono andati in controtendenza rispetto alle autorità della chiesa e ci hanno raccontato un modo diverso di fare chiesa, quindi una freschezza di linguaggio e di formazione per tutti. Forneletti, nel nostro piccolo, assume un livello di formazione importante. Questo è uno stile su cui dobbiamo riflettere: perché mantenere questa etica è un valore che dobbiamo salvaguardare.

Per il nostro circolo non è una novità: nel decennio della morte del priore di Barbiana (1976) abbiamo invitato Neera Fallaci che ci ha presentato il suo libro “dalla parte dell’ultimo” e, sempre in quell’anno, abbiamo organizzato a Barbiana un pellegrinaggio per constatare la realtà di quella struttura. Don Milani quindi, rappresenta per tutti noi quella pietra miliare che il papa ha sdoganato quest’anno: la sua esperienza scolastico-educativa in favore degli ultimi. Del resto, anche in questi giorni i ragazzi sono scesi in piazza per evidenziare le criticità dell’esperienza scuola-lavoro.

Il messaggio di don Milani è da esempio per le ACLI per una attenzione e un impegno verso gli ultimi. Ieri abbiamo raccolto in piazza più di cento firme nell’ambito della campagna “ero straniero”. Ho visto famiglie intere che venivano a firmare mentre, dall’altra parte, si va diffondendo un senso della paura che ci rinchiude nelle nostre case e nel nostro egoismo: l’esatto contrario del messaggio di don Milani.



Agostino Burberi

Buongiorno a tutti. Oggi mi sembra di essere in famiglia sia per età, sia per storia: siamo stati giovani insieme nelle vesti di sindacalisti, oltre che come aclisti in un periodo d’oro della nostra vita. Successivamente, abbiamo forse disperso lungo la strada, quel ruolo di idee e di guida che il sindacato e le ACLI avevano. Ora, entrambe queste identità sono diventate organizzazioni di servizi, ma in questo contesto dovremmo fare uno sforzo, perché sono convinto che la nostra generazione abbia avuto certamente meriti, ma poi si sia persa. Persa nell’avere valori e ideali per i quali era giusto sacrificare la vita. Devo dire che la mia vita di sindacalista, quella di stare da una certa parte nel fare delle scelte, è dipesa certamente dall’incontro con don Milani.

Quando si sente dire “poverino quel prete l’hanno mandato in esilio a Barbiana”, io vi dico che, in quell’esilio, io c’ero e dentro di me ringrazio ancora il cardinale Elia Della Costa per avere deciso di mandare là don Lorenzo.

Parleremo di lui rifiutando l’immagine del santino: quello che abbiamo saputo su di lui lo abbiamo preso da quanto scritto da Neera Fallaci. Era venuta lassù per preparare la stesura del libro “Dalla parte dell’ultimo”, perché don Milani non ci ha mai parlato della sua vita che lui definiva “periodo del buio”, dal quale sarebbe riscattato con la decisione di farsi prete. Va detto che lui era arrivato all’età di diciotto-diciannnove anni senza una educazione religiosa. La mamma, ebrea, e il padre cattolico, di comune accordo, avevano deciso per il battesimo a un anno dalla nascita, ma escludendo l’educazione religiosa. Dunque Lorenzo è arrivato alla fede per motu proprio.

A tre anni dalla morte e, dopo aver letto il libro della Fallaci che narrava questi fatti, ci sarebbe piaciuto conoscere le ragioni che lo avevano spinto ad abbracciare la fede e a decidere di diventare prete. Pensavamo ad accadimenti straordinari, ma poi abbiamo pensato che “Quello lassù” non ha bisogno di effetti speciali per chiamare a sè le persone.

Credo che sulla figura di don Milani siano stati scritti e si continueranno a scrivere tonnellate di articoli; raccogliere questi lavori impegnerà moltissimo, e pur avendo la disponibilità di tante persone all’impegno, anche per la Fondazione si pone il problema del ricambio generazionale.

Non siamo riusciti nell’intento di attrarre giovani e, come genitori, nei confronti dei nostri figli ci siamo ammosciati considerandoli dei “deboli” da proteggere da chi tenta di… etc. Questo nella scuola ha creato problemi grandissimi. Non siamo riusciti in quello che don Milani esprimeva allora nella “Lettera a una professoressa”, un libro che non è scritto per gli insegnanti, ma è scritto per i genitori in modo che siano loro ad interessarsi perché vi sia una scuola di un certo tipo che prenda in considerazione gli ultimi.

Si augurava che questo avvenisse, così come prefigurava che a guida del sindacato e della scuola ci fossimo io e Michele (Gesualdi) in chiave di motori. Questo però non è successo, abbiamo disobbedito. Credo che questo sia il nocciolo del problema: voi siete del mio tempo, quello in cui seguivamo il modello educativo che gli insegnanti si davano, ma erano cose completamente diverse. Ricordo che in prima elementare avevo combinato qualcosa che non avrei dovuto fare e la maestra mi mollò una sberla. A casa riferii alla mamma, la quale me ne mollò altre tre e mi riportò a scuola. Probabilmente mia madre non aveva un livello culturale per discutere con l’insegnante, ma d‘altro canto io non potevo sfuggire a quello che allora era il modello di comportamento. Oggi non è più così, oggi non si mollano sberle, però qualche dubbio mi prende, sia sui metodi di allora, sia su quelli di adesso. Prima le situazioni si risolvevano in un certo modo e tutto finiva lì; ora si comincia con la nota, a casa bisogna fare i conti con la mamma… e poi con il papà facciamo i conti. Comunque ci si schiera per difendere i figli e io penso che ciò rappresenti un danno nella costruzione di un mondo migliore per il domani.

Ricordo un ragazzo a cui erano stati comminati venti giorni di sospensione per qualcosa di serio che aveva combinato a scuola: di fronte all’insegnante che cercava di spiegare la decisione, il padre invitò il ragazzo ad andare con lui una settimana a sciare. Questo non va assolutamente bene, ma non è che i ragazzi siano particolarmente svogliati, il problema è che non hanno motivazioni serie nello spendere il loro tempo. Quando vado nelle scuole e chiedo agli studenti (quelli delle superiori) quali insegnanti ricordano con più vigore; la risposta non è quelli che li hanno lasciati o si sono fatti dare del “tu”, ma quelli che hanno fatto loro il mazzo per insegnargli qualcosa. Purtroppo oggi l’esempio che si dà nei programmi scolastici è quello di annacquare le cose, ma non è vero che i giovani vogliono meno.

E’ certo che sul discorso del modello educativo ci siamo fatti fregare. Prima dei Decreti Delegati le battaglie abbiamo fatte. Prima le scuole popolari (anche all’interno delle ACLI) perché c’era la necessità di dare il Diploma della terza media, ma anche di elevare il livello culturale che permettesse di aiutare i nostri figli nello svolgere i compiti a casa. Successivamente il sindacato ha fatto la grande battaglia delle 150 ore, che è il frutto di “Lettera a una professoressa”, ma anche del volontariato che, su questo fronte, era stato piuttosto ampio. Oggi discutiamo di cose diverse, oggi si discute sulla carta igienica, non del modello educativo; va anche detto che il mondo insegnante si era opposto al fatto che i genitori potessero avere il diritto di dire la loro sul modello educativo, ma va anche detto che, come sindacato nel mondo della scuola, abbiamo difeso più la busta-paga, i diritti e quant’altro, piuttosto che fare un altro discorso.

Oggi la nostra priorità è quella di chiedere agli insegnanti come vanno i nostri figli (del modello educativo non se ne parla proprio) e se portano a casa dei voti, magari migliori rispetto ai loro compagni. Una corsa inutile magari nell’illusione che in questo modo si farà carriera e si apriranno possibilità di successo, ma guardate come è andata a finire: saranno anche primi della classe, ma disoccupati! Inoltre una regola non scritta sosteneva che i nostri figli non dovevano fare i lavori che noi facevamo perché ritenuti poco onorevoli, dunque quei lavori li faremo fare a quelli che noi disprezziamo, agli immigrati. Dobbiamo dirlo chiaramente: noi abbiamo introdotto nel nostro modo di pensare concetti privi di valori importanti e adesso tutto questo lo stiamo pagando molto caro.

Detto questo, io penso che si possa fare ancora qualcosa, sono ottimista, anche perché ho contatti con molti insegnanti che si impegnano, ma lo fanno come se fosse un fatto privato, non organizzativo. Anche a Barbiana stiamo facendo qualcosa di utile: abbiamo fatto un accordo con la Provincia di Trento che prevede quattro turni all’anno di  formazione per gli insegnanti e per i genitori. Si cerca soprattutto di trasmettere ai genitori un messaggio per un rapporto più collaborativo con la scuola. Alla fine di tutti questi “mea culpa” andiamo a vedere quali sono gli insegnamenti che questo nostro maestro ci ha lasciato e vediamo quali – aggiornati ad oggi – possono essere valori che ci servono per riprendere il cammino.

Ai ragazzi dico sempre che se stanno ad aspettare che noi vecchi pensiamo a loro, allora questi giovani non hanno capito nulla; noi siamo interessati alla pensione e alla sanità. Altro non ci tocca. Adesso tocca a loro darsi da fare e battagliare e la cosa sarà molto onerosa e difficile.

Vi ricordate i volantini distribuiti fuori dalle fabbriche alle sei del mattino o le notti a prepararli, perché credevamo in quello che facevamo. E le manifestazioni ripetute ad ogni dove? Ai giovani dobbiamo ricordare e indicare queste cose perché si impegnino a loro volta per conquistarle.

Dopo la visita del Papa, Barbiana è stata per così dire assaltata, ma tornando a don Milani voglio ricordare che lui, quando ha deciso di essere prete, ha chiesto a Dio di farlo diventare negro tra i negri, povero tra i poveri, ultimo tra gli ultimi. E Dio lo ha accontentato mettendogli accanto il Cardinale Elia Della Costa che fece chiudere e listare a lutto tutte le chiese della diocesi per non omaggiare Hitler di passaggio a Firenze, al massimo dell’euforia perché convinto di avere in tasca la bomba atomica.

A chi gli contestava quella decisione egli rispondeva che non avrebbe mai stretto la mano a un sanguinario. Della Costa era un cardinale mal visto a Roma, e noi eravamo del parere che lo Spirito Santo si fosse fermato in città dove c’era un viavai interessante: c’erano Balducci, Turoldo, Mazzolari. Colpire quella realtà significava colpire il sindaco Giorgio La Pira, obiettivo principale di Roma.

Quando il Pignone chiuse, il Cardinale Della Costa mandò un prete a celebrare la messa dove si trovavano gli occupanti e scrisse una lettera, che poi determinò la decisione di Enrico Mattei, per conto dell’ENI, di comprare il Pignone e farla diventare una grande fabbrica per costruire le trivelle per estrarre il petrolio. Della Costa è lo stesso cardinale che nel 1958 dette l’imprimatur al libro di don Milani “Esperienze pastorali”, che tre mesi dopo, il Cardinale Ottaviani, Segretario del sant’Uffizio, decretò il divieto di ristamparlo e di diffonderlo.

Dunque la prima condanna viene da lì e, in tutti questi anni, come “Fondazione don Lorenzo Milani”, abbiamo chiesto a tutti di togliere quel vincolo ma inutilmente. C’è stato il concilio, che ha già superato i concetti che don Milani sottolineava allora, ma non siamo riusciti a nulla se non con l’arrivo di Papa Francesco e – per così dire – con un colpo di mano. Avevamo scritto una lettera a Papa Francesco, ma come fargliela arrivare direttamente? Conoscevamo una suora che ad Assisi, presente il Papa, in mezzo alla ressa gli si avvicina, consegna la lettera al segretario, nel farlo incrocia gli occhi del Papa e gli parla con lo sguardo facendosi capire. Dopo una settimana lo stesso papa chiede al Cardinale di Firenze di fare una relazione positiva, cosa che avviene e, nel 2014 emana il decreto per togliere il vincolo voluto dal cardinale Ottaviani.

Quando Papa Francesco è venuto a Barbiana ci è parso di toccare il cielo con un dito, ma rimane anche il rischio che ora don Milani diventi di moda e diventi il santino. Speriamo che non lo facciano santo, perché se ciò avvenisse rovinerebbero tutto. Noi facciamo il tifo perché ciò non avvenga. Quali sono allora quei valori che vanno ripresi? Prima di tutto quello di non essere superficiali. Se a don Milani avessi detto che mi sembrava che la tal persona indossasse una maglietta giallina, mi sarebbe arrivato uno sberlone. A chi interessa il tuo parere? Una cosa la si deve verificare, dopo di che si agisce di conseguenza. In seminario, si rendeva antipatico proprio per questa sua mania: un suo insegnante parlava dell’Antico Testamento, e lui, don Lorenzo, dall’ultimo banco, con la traduzione in latino, greco, ebraico e francese, lo contestava affermando che la traduzione nelle lingue di quei paesi era diversa da quella che il professore insegnava.

Quando era a Barbiana, ci portò in gita a Roma ospiti di una zia piuttosto facoltosa, spesati di tutto. Dopo aver trascorso l’intera estate a prepararci al viaggio, compresa la visita allo zoo, avevamo studiato le abitudini degli animali, il loro luogo di provenienza, l’alimentazione. E là, di fronte agli animali, allungavamo lo sguardo alle altre gabbie e ne salutavamo gli occupanti come fossero vecchi amici, sulla base di quanto avevamo approfondito su di loro.

Siamo anche venuti a Milano, ospiti sul palco delle autorità, alla Scala. Rappresentavano la Bohème e noi entravamo con il nostro prete in quel “pozzo di perdizione”, come veniva definito allora in Diocesi di Milano. Ricordo che, tempo prima, avevamo trascorso mesi con un vecchio grammofono ad ascoltare la Bohème entusiasti oltre ogni dire. Alla fine, dirigenti e personale della Scala, ci presero in gruppo e, per un paio d’ore, ci fecero visitare tutto il teatro. Vi ho narrato queste due esperienze per dirvi come don Milani procedeva, d’altra parte questo era il suo modo di essere.

Anche su “Esperienze pastorali” non tutti erano d’accordo sul suo pensiero, sulla comunione ai comunisti e su certe tesi che lui sosteneva, tipo la condanna della raccomandazione. E la Chiesa era schierata con il potere, con la Democrazia Cristiana e con i personaggi che le gravitavano attorno, cosa che scatenava la sua critica.

Però il Presidente della Repubblica Einaudi, che non era certo un cattolico, gli ha scritto una lettera apostrofandolo così: “Caro don Milani, io non dico nulla per quanto concerne la religione, non mi riguarda, però le dico che se avesse la possibilità di avere gli strumenti che lei ha utilizzato nell’analisi della sua parrocchia, io farei arrivare la rivoluzione”.

Devo dire che era molto, molto pignolo al momento della confessione o della comunione, lui osservava da vicino i comportamenti, il vestiario, il modo di porsi, sottolineando l’esteriorità della fede dei parrocchiani.

Inoltre quando andava a visitare le famiglie, noi si portava sempre un librone sul quale don Milani segnava di quanti componenti contava quella famiglia, quanti i migranti, quanti letti c’erano, quanti gabinetti: tutte notizie che fotografavano quella realtà.

In “Lettera a una professoressa” era la stessa cosa, c’è chi dice che abbia rovinato la scuola italiana, ma sui dati e i contenuti non c’è discussione, perché per trovarli aveva faticato molto, all’Ufficio di Statistica, al Ministero dell’Istruzione, nella scuola (scuola per scuola) dove era chiaro chi erano i bocciati, figli di chi, a quale classe sociale appartenevano, quale selezione avevano subito. Credo che tutto questo sia importante e noi oggi viviamo una fase molto superficiale: basta che un tipo qualsiasi urli una cosa e noi la crediamo. Non abbiamo voglia di approfondire e di cercare la verità.

A Calenzano lui ha cominciato a fare a sportellate: di fronte agli oratori che avevano il calcetto e altri marchingegni per perdere tempo, lui propose a tutti di cercare la verità attraverso gli strumenti che ci sono dati, cioè la parola, la padronanza che viene dal sapere leggere e scrivere. Certo, oggi è molto più complicato, i nostri giovani hanno apparecchiature che, in pochi secondi, fanno sapere tutto di tutti, notizie che poi scompaiono in un amen; inoltre noi anziani siamo disarmati per il fatto di non sapere manovrare questi strumenti che sono pane quotidiano per ragazzini che iniziano le elementari e che già sono bombardati da notizie che in un amen arrivano e in un amen non ti danno più perché non corrispondono a fatti veri.

Tornando a noi e al periodo di don Milani, siamo nel periodo in cui chi era iscritto al Partito Comunista veniva scomunicato, il clima era molto diverso rispetto a quello che poi è stato vissuto; inoltre i giovani che prima andavano alla Casa del Popolo, ora andavano da lui, cosa che scatenava l’invidia dei preti. Questa situazione iniziò quando il vecchio parroco di Calenzano, ormai stanco, chiese un aiuto; gli venne mandato don Lorenzo, che lui accolse come un figlio e lo protesse pur non condividendo il suo modo di fare apostolato.

Quando il vecchio parroco morì, i vari benpensanti si scatenarono e impedirono che don Milani continuasse la sua opera a Calenzano. Il Cardinale Della Costa, preso atto della situazione, lo mandò a Barbiana, un nome che don Lorenzo cercò inutilmente sulla cartina geografica, perché era solo una piccola frazione, tanto che alle due donne che accudivano il vecchio parroco di Calenzano (Leda e Giulia) disse che non sarebbe andato a vedere Barbiana, ma se l’avessero voluto fare loro, andassero pure. Con il Cardinale Della Costa nonna Giulia si permise di dissentire per quell’incarico che avrebbe condotto don Lorenzo in un posto di lupi. Il Cardinale le rispose: “quando in un campanile ci sono quattro campane e tre suonano in un modo e una solamente suona diversamente, quella da cambiare è quella che suona diversamente”. Dunque il primo insegnamento è quello di approfondire e non essere superficiali nei valori da trasmettere alle giovani generazioni.

Il secondo insegnamento è l’obbedienza: ricordiamoci quella bellissima lettera “L’obbedienza non è più una virtù” scritta da uno che ha sempre obbedito alla chiesa! Cosa voleva dalle autorità? Solamente che riconoscessero che lui era un prete della chiesa fiorentina. In fondo – diceva - il Cardinale Siri di Genova benediceva le armi e stava nella chiesa, lui le armi le malediceva, ma anch’egli aveva il diritto di stare nella chiesa.

Nel frattempo era arrivato a Firenze il Cardinale Florit, mandato da Roma per far fuori il Cardinale Della Costa per ripulire la zona dai comunisti e impedire a tutti i costi che don Milani – mandato a Barbiana perché non rompesse più le scatole – continuasse con i suoi metodi. Erano i momenti in cui predicava il dopo-scuola sostenendo che per arrivare alla cultura della terza media bisognava fare giustizia fra diversi, bisognava convincere i genitori e convocarli. Allora arrivava puntualmente la lettera di Florit che gli imponeva di non andare là: lui obbediva, ma il giorno dopo compariva una sua lettera sui giornali che contestava la decisione del Cardinale.

Don Milani ha avuto la capacità di stare dentro la chiesa. Quello che va detto è che chi sta dentro le associazioni e, per dissidi con il presidente o altri se ne va, non lascia nessun segno di sé. In quel periodo storico di contestazione della chiesa, chi la contestava e poi se ne andava altrove, di costoro non si parla più, mentre il fatto di avere la forza di stare dentro la chiesa e di combattere le storture e proponendo e vincendo con le idee è cosa positiva e costruttiva.

Durante quel periodo storico sono state combattute anche battaglie sociali, ad esempio l’obiezione di coscienza: vi invito a leggere la sua lettera di autodifesa dai giudici, di altissimo valore che, ancora oggi, ci insegna – fra tante altre cose – il primato della coscienza di fronte alla quale l’obbedienza cieca non può essere una virtù e nemmeno una giustificazione, né davanti agli uomini, né davanti a Dio. Ricordiamoci che a Norimberga i gerarchi nazisti sono stati giudicati richiamandoli a una norma che non era scritta in nessun codice, né quello tedesco né quello dei paesi che avevano vinto la guerra, ma era dentro la coscienza di ognuno di noi. Mettere nelle camere a gas degli innocenti non c’è bisogno di scrivere una legge che lo vieti, è cosa che ogni essere umano dovrebbe avere dentro di sé nella sua coscienza, quindi dobbiamo insegnare che di fronte al male c’è un ordine interiore che disobbedisce a certi comandi, anche a costo di pagare con la propria vita.

A quel tempo chi rifiutava di fare il militare di leva, finiva in galera. Le galere erano piene di Testimoni di Geova, prima ancora degli obiettori cattolici, e proprio sugli obiettori fu scritta una lettera di condanna per la loro scelta nonviolenta da parte dei cappellani militari.

Un alto fatto importante è stata una lettera scritta a don Milani da un gruppo di insegnanti nella quale gli chiedevano quale metodo avrebbe dovuto usare perché la loro scuola funzionasse meglio. A quella lettera rispose con una bellissima frase “non è importante come si fa a fare scuola, ma come bisogna essere per fare scuola”. Questo oggi vale per tutti: per gli insegnanti, per i politici, per i genitori; poi bisogna essere coerenti tra quello che si dice e quello che si fa.

E poi c’è il tempo: don Milani sul tempo era durissimo, diceva che il tempo è un dono di Dio, non va sciupato e sciupare il tempo è la più grossa bestemmia che si possa fare. Perché il tempo, al netto dei propri doveri, deve essere impegnato per il prossimo, per fare del bene agli altri, secondo l’ambiente religioso o politico di cui fai parte. L’importante è avere dentro di sé i valori per i quali impegnarsi.

Quando stava molto male per la malattia, a chi gli scriveva rispondevamo che il priore era molto malato e non poteva rispondere. Un giorno arrivò una lettera di una ragazza di Napoli, universitaria, che gli chiedeva come fare per trovare Dio, visto che lo stava cercando tanto. Durante un breve miglioramento, don Lorenzo rispose in questi termini: “Cara Nadia, abbandona l’università, gira per la tua città a radunare i ragazzini che non vanno a scuola e impegnati a portarli a un livello culturale come si deve. Quando avrai speso tutta la tua vita, così come è successo a me, troverai sicuramente Dio come premio”.

Questo passaggio è importante perché spiega cosa è il prossimo: io amo tutti i poveri del mondo! E chi ti crede? Noi del sindacato ci battiamo per la classe operaia! Ci dobbiamo credere? Difficile! In realtà Dio ti potrà chiedere di rispondere di quelle decine di persone che ci mette intorno e, per noi, questi sono i nostri fratelli che vengono a trovarci, magari di colore diverso, di abitudini diverse…

Don Milani confessava di avere fatto quello che ha fatto, perché doveva salvarsi, per farsi perdonare da Dio tutto quello che era stata la sua prima vita e questo lo affermava durante il suo tempo di agonia, arrivando a confidare a Michele Gesualdi, che lo assisteva, che stava avvenendo un miracolo, cioè che il cammello stava passando attraverso la cruna dell’ago. In sostanza, lui riteneva di essersi conquistato un posto in paradiso e dirà nel suo testamento: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, speriamo che lui non sia permaloso”.

Lui comunque è andato a morire a casa della mamma e bisogna anche sapere che un anno prima di morire aveva mandato via da Barbiana chiunque avesse più della terza media in modo che si facessero le ossa per conto loro, con il bagaglio culturale di cui erano in possesso, e lo spendessero in discussioni e ragionamenti, che trovassero la loro strada e si abituassero a cavarsela.

Tutto questo noi ragazzi di Barbiana l’abbiamo capito dopo, quando don Lorenzo confessava di aver dato ai poveri quello che gli è tornato indietro di amore, era cento volte più di quanto non avrebbe mai saputo soddisfarsi.

Per quanto riguarda Leda – da sempre stata con don Milani, anche dopo la sua morte – è morta a sua volta circa 15 anni fa. Non ci stava più con la testa, si trovava in un ricovero, accettava di mangiare solo da Michele che la assisteva: è morta di sabato e, poco prima di spirare, si è alzata sul letto, ha spalancato gli occhi e si è messa a ridere in modo pieno e sguaiato. Michele la racconta così: Leda stava andando in paradiso in carrozza e ha visto sulla strada don Milani che arrancava per andare anche lui lassù.



Interventi

  • Nell’ultima parte della sua vita, don Milani apre le porte alla macchina da presa che lo riprende per quarantacinque minuti. Questo breve filmato è stato presentato all’ultimo Festival di Venezia, comprese le riprese interrotte richiesta da don Milani. E’ stata una richiesta da prima donna o il timore di essere dimenticato se non vi fosse stato questo breve filone a testimoniare il suo impegno?
  • In concomitanza con gli avvenimenti del ’68 ci si è appropriati degli ideali di don Milani riducendone però gli ideali: è così cominciato il sei politico, non si bocciava più nessuno, si doveva essere tutti bravi e si è annullato il diritto di tutti a vivere una vita dignitosa che cominciava dall’infanzia, dall’essere oggetto di attrazione da parte dei genitori e non solo. Oggi tutto è molto diverso e gli ideali di don Milani si riaffacciano insieme a quello che è riuscito a fare malgrado fosse osteggiato dall’opinione pubblica ma anche da movimenti degenerativi.
  • Io credo che le parole di don Milani siano più attuali che mai in un momento come l’attuale in cui si sta privatizzando tutto in nome di una efficienza che non è né cristiana né sociale, è d’obbligo tornare ai veri valori che sono quelli di una scuola laica, cioè libera, gratuita, pubblica e di qualità. Per quanto riguarda la sofferenza questa ha accomunato lui e P. Turoldo ed altri, che sono rimasti dentro la chiesa pur essendone perseguitati. Un tempo finivano al rogo, dopo torture. Romero era venuto a Roma a chiedere di essere aiutato: dal vaticano Giovanni Paolo II° gli ha risposto di arrangiarsi. Al suo ritorno in patria, qualche giorno dopo, venne ucciso sull’altare della chiesa dove stava per celebrare la messa. Per quanto riguarda “Lettera a una professoressa” ricordo che questo libro venne studiato dai Comitati Studenteschi, dalle Assemblee sindacali, proprio come fosse un libro di testo.
  • Don Milani è stato tirato per la giacca da una parte e dall’altra. Ho letto “lettera a una professoressa” in prima superiore, su consiglio del professore di matematica marxista- leninista,  ma ci avevo capito poco o niente. Oggi, grazie al relatore si intuisce quanto sia complessa questa figura e come non la si possa interpretare in modo unilaterale. A dieci anni dalla morte di don Milani, mi ha colpito la dura reazione di Padre Turoldo, il quale racconta che assistendo a un servizio del telegiornale che faceva del Priore di Barbiana un santino, lo stesso ruolo di santino che in precedenza la chiesa aveva riservato ad altri personaggi di identica caratura, sbottò urlando come sapeva fare lui: “Il mio amico don Milani non è come dite voi! Di fronte a quel santino inesistente Turoldo si è ribellato e ha scritto un testo dal titolo “il mio amico don Milani” nel quale non descrive il personaggio, semplicemente perché è impossibile inquadrare una figura cosi ricca e complessa. Inoltre le stesse persone che ne hanno fatto il santino in televisione sono le stesse che non si pongono la domanda segreta: “obbedientissimo”. Ma obbedientissimo chi? Al vangelo, solo a quello ne riconosce l’autorità e la separa dal potere.
  • Uno dei principi di don Milani è quello che non si possono fare parti uguali fra disuguali. E’ difficile are una valutazione diversa in base ai livelli di partenza, anche perché adesso, più che in passato, bisogna fare i conti con l’intervento dei genitori, come ha sottolineato anche il relatore.
  • In una società come l’attuale, in cui la povertà è creata, dove la mancanza di cultura è organizzata, cosa ci direbbe don Milani? Quanti compiti ci darebbe da fare a casa?
  • Non c’è più una cultura riconoscibile come tale e se essa esiste è la cultura del mercato, inoltre le agenzie educative (scuola, chiesa, partiti, sindacati) di allora facevano parte di un apparato che non esiste più e la scuola diventa una delle tante agenzie, forse nemmeno la più importante per la formazione delle persone. Come farebbe don Milani in una situazione come questa?
  • Io credo che tutti i valori espressi da don Milani, tutti noi dobbiamo prenderli in mano, farli nostri e vedere come tradurli, alla ricerca della verità, nel primato della coscienza, nell’uso del tempo. Sul concetto di obbedienza di don Milani, un mio amico, seguace del prete di Barbiana, sostiene che se oggi don Milani fosse vivo, sarebbe una sentinella in piedi.
  • Ciò che colpisce in don Milani e la sua scuola è il senso della critica e dell’obbedienza. Essere obbediente è molto semplice, non richiede alcuna partecipazione, mentre la scuola di don Milani ha dato vita ad un senso critico della realtà, quindi la conoscenza per poi decidere. Credo sia questa la grande esperienza che don Milani dona a tutti.



Replica

Sul breve filmato di cui si fa menzione nel primo intervento, devo dire che don Milani non ne era entusiasta e, alle nostre rimostranze sul perché avesse aderito a quella proposta, rispose che, visto che stava morendo, lo avrebbe lasciato a noi come ricordo e chiese ad Alessandro di non renderlo pubblico. Il film lo distribuisce Luce, da parte nostra abbiamo dato il beneplacito per il patrocinio e avevamo dato l’incarico a una persona di seguirne l’iter, ma poi non si fece nulla. So che questo breve film verrà proiettato dalla Diocesi di Milano alla Corsia dei Servi. Questo è tutto quello che so.

Dai vari interventi si è visto come sia stato interpretato in modi diversi “Lettera a una professoressa”: certo, l’obiettivo era non bocciare, ma perché a quelli che sono più indietro si deve dare più scuola e portarli a livello degli altri. Attenzione, qui siamo all’interno della scuola dell’obbligo, dove si formano i cittadini, quindi è giusto che a livello della cultura della terza media arrivvino tutti i cittadini. E’ vero che anche durante le contestazioni studentesche, quel libro di don Milani è stato utilizzato come il libretto di Mao, ma lo è stato in maniera sbagliata. Chi è stato più attento ne ha ripreso i contenuti e cioè che, andare a scuola, presupponeva di avere un obiettivo da raggiungere: oggi che obiettivo siamo in grado di indicare ai nostri figli? A domanda perché bisogna andare a scuola i più rispondono “per imparare” e quelli più sinceri “perché mi mandano”.

In qualche modo si insegna a fare i furbi fin dall’inizio, con compiti risolti attraverso internet in una sorta di giochino copia-incolla. E alloro bisogna pur dirlo che si studia per accontentare gli insegnanti,non per il sapere. A Barbiana non avevamo soldi per comprare i libri di testo, ma costruivamo i libri alla parete, ci si arrangiava e così siamo riusciti a costruire con mezzi di fortuna un telescopio per guardare le stelle di cui sapevamo i nomi e anche una macchina fotografica rudimentale. Da qui è partita l’idea di un corso industriale per imparare un mestiere. Gli esami a fine corso li davamo come privatisti nelle Scuole di Stato.

Noi si lavorava il legno e il ferro e, a quei tempi, il lavoro faceva parte della scuola e a noi è rimasto in testa come si costruisce un attrezzo e una macchina fotografica perché l’avevamo fatta con le nostre mani e con la testa… e con dodici ore filate di scuola. Quando rammento questi orari, gli studenti di adesso mi guardano straniti e increduli ma, d’altra parte, così si imparava un lavoro e l’alternativa erano le stesse ore a lavorare nei campi o con gli animali.

Era comunque una scuola di vita e noi ragazzi eravamo contenti di fare quello che ci formava ed entusiasmava. E oggi? Io sono del parere che se anche la scuola facesse fare ai ragazzi cose che essi stessi sarebbero contenti di fare, questo sarebbe positivo. Una iniziativa di questo tipo, la stanno facendo a Varese i vostri colleghi nell’ambito delle scuole, dura tutto un anno e ruota attorno all’esperienza di Barbiana con don Milani. D’altra parte dobbiamo dire che il problema vero degli insegnanti (fatti salvi i diritti sindacali, stipendio e pensione) è il ruolo delle società: una volta nei nostri paesi a contare erano il prete, il sindaco, il farmacista e il maestro: oggi ai giovani chi indichiamo come i soggetti che contano? Calciatori, veline, blog. Ieri c’era l’ideologia, contestabile finchè si vuole, però per portarla avanti erano necessari insegnamenti e valori, giusti o sbagliati che fossero.

La società, nel suo insieme, non è però stata capace di sostituirli con valori alternativi. Neanche nel sindacato si è riuscito a proporre valori che tenessero uniti e così è venuto avanti, con prepotenza, l’individualismo e l’egoismo più sfrenato. L’egualitarismo, forse proposto in maniera esagerata, era comunque un valore che ha tenuto insieme.

Don Milani è stato tirato per la giacca da molti, una volta era la Democrazia Cristiana, un’altra era la sinistra o altri: l’unica cosa certa e che non si è capito che lui era un prete e che aveva dedicato la sua vita agli ultimi e a chi gli stava accanto, convinto che ciò avrebbe formato e affinato le coscienze, cosa assai necessaria anche alla chiesa, schierata con i ricchi e il potere, che non stanno certo dalla parte degli ultimi di cui parla il Vangelo.

C’è una sua lettera a Pipetta, giovane comunista di Calenzano, che dice chiaramente chi fosse don Milani: “Caro Pipetta, tutte le volte che tu mi incontri, mi dici “ah se tutti i preti fossero come lei!” invece la chiesa è quella con l’altra faccia”. E don Milani risponde: “tu pensi di farmi felice dicendomi queste cose? In realtà così facendo tu strofini sale nella mia ferita: devi sapere che il giorno in cui combattendo al tuo fianco avremo insieme conquistato il potere, e tu sarai al posto del ricco, non ti fidare, Pipetta, perché quel giorno io ti tradirò. Io tornerò nella casetta umida e puzzolente a pregare il mio signore e l’unico pane che mi interessa è quello dell’eucarestia”.

Da queste parole si capisce che don Milani voleva dal cardinale un’unica cosa: che lo riconoscesse come uno dei preti della Chiesa di Firenze. Ha sperato invano, perché il cardinale ha sempre rifiutato di andare a Barbiana per questo riconoscimento e prima di morire. Cosa chiedeva don Milani al Cardinale Florit? Chiedeva di accettare – da parte della Chiesa – la sua opera come opera della Chiesa. Anche questa richiesta gli fu rifiutata, adesso questa soddisfazione gli è venuta dal Vescovo di Roma, il Papa.

Tornando agli interventi precedenti c’è un punto di fondo che va oltre le agenzie formative. E’ certo che la prima di esse è la famiglia ma se si è dissociati tra gli uni e gli altri, questo è un problema. Da giovani, se per strada si combinava qualcosa di riprovevole, l’adulto presente era pronto a dar sberle e, se correva dal padre a lamentarsi, ne prendeva delle altre che gli facevano passare la voglia di fare casino. Oggi questo controllo sociale non c’è più, si guarda il proprio orticello e tutto finisce lì; oggi non è il bene a fare notizia sui mezzi di comunicazione sociale, oggi fanno furore scandali, omicidi, furti, ladrocini e più sono grandi meglio è. Una notizia positiva non trova un tamtam per propagarla: non fa tendenza.

Eppure il bene è presente, c’è tanto volontariato, gente che spende la propria vita per il prossimo, ma le notizie che filtrano non fanno presa. Cerchiamo almeno di non vergognarci dei comportamenti di tante persone che per tutta la loro vita hanno buttato semi che, a tempo debito, germineranno e daranno frutti positivi.

Una battaglia da combattere è salvaguardare la figura di questo prete, di questo maestro, perché il tentativo c’è: per esempio, c’è un giornalista che si interessa di avvenimenti religiosi che ha pubblicato una “opera omnia” su don Milani e, sottilmente, fa intuire che lui ha la vera interpretazione sul Priore di Barbiana. Questo è il più grosso dispetto nei confronti di don Lorenzo: ricordo che don Milani, prima di morire si è raccomandato perché difendessimo la sua immagine da certe interpretazioni, soprattutto che l’ex suo mondo si riappropriasse di lui.

Via assicuro che ciò che quel giornalista afferma nel suo libro non corrisponde assolutamente alla figura del prete di Barbiana. Quel prete che il salotto buono della canonica l’aveva trasformato in aula per la scuola, quel prete che – a differenza dei proprietari a mezzadria – non si teneva il 50% del raccolto ma lo dava per intero ai contadini che avevano coltivato e raccolto quel campo.



Omelia di don Antonio Giovannini

Io sono lombardo e sono orgoglioso di essere lombardo e sono più lombardo di tutti voi perché ho passato cinque anni della mia vita a Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, dopo il terremoto. Sono stato anche a Longobardi di Calabria e da lì in Kosovo, dove sulla strada ho visto un cartello che indica il nome del fiume Lumbard, lumi significa fiume, bard vuol dire bianco.

Quella di essere lombardo può essere una occasione di ringraziamento, ma anche occasione di chiusura. Un prete di Milano che vive in Albania ebbe a dire che io ho scoperto la chiesa italiana stando in Albania per via dei gemellaggi. A dire il vero io l’avevo già scoperta prima, quando ero in Irpinia per il terremoto, poi c’è la chiesa europea, quella mondiale, le missioni. C’è però un pericolo, quello di essere contenti di essere di Milano o di altre città, ma anche di essere autoreferenziali, con la difficoltà di guardare lontano, non solo per cattiva volontà, ma anche perché al presente stiamo bene.

Se andate nel Duomo di Milano -oggi è la sua festa- ed entrate nella parte a pagamento, sul lato destro entrando, c’è una lapide che porta tutti i nomi degli Arcivescovi di Milano. Dall’anno 569 c’è un buco: l’invasione dei Longobardi ha fatto scappare l’Arcivescovo a Genova e, per quasi novant’anni, a Milano non c’è stato l’Arcivescovo. Ciò vuol dire che questi Longobardi avevano qualche problemino. Poi, a poco a poco, le congregazioni religiose, gli ospedali, la farmacia e quant’altro hanno aiutato i Longobardi ad avvicinarsi un po’ alla fede cattolica così che l’arcivescovo del tempo ha potuto ritornare a Milano: quell’arcivescovo era un ligure.

Da qui un invito ad aprire gli orizzonti al di là della Diocesi di Milano e a vedere la chiesa fatta non solo dal luogo materiale in cui ci si trova a celebrare le liturgie. A volte la messa all’aperto sulle montagne dell’Albania, fornisce un’altra sensibilità: ogni tanto si mette a piovere o a nevicare diventa una cosa un po’ problematica, magari alla sera di Natale. La casa della Chiesa è comunque molto importante, come è importante il Duomo di Milano che, in scatola di montaggio, è passato dal mio paese che sta sul naviglio.

E’ importante guardare avanti ed è importante ciò che dice Gesù “la mia casa sarà casa di preghiera per tutti i popoli e voi ne avete fatto una spelonca di ladri”. Le cose che abbiamo sentito stamattina nella conferenza ci aiutano a ringraziare Dio per quello che c’è, per quello che siamo , per quello che ci è stato donato e di vedere i valori di questa Lombardia. Quindici giorni fa sono stato a Nostra Signora d’Europa all’Alpe Motta a cercare cosa vorrei fare da grande; poi sono stato su fino a toccare la neve che era caduta fino a 2.300 metri. Aiutaci Nostra Signora d’Europa, aiutaci a guardare la Lombardia, a guardare Milano, a guardare l’Europa e la capacità di portare a condividere una pace e a portarla avanti guardando anche il Mediterraneo, guardando ai Balcani, invocare lo Spirito.

Sarebbe bello tornare in pellegrinaggio a Nostra Signora d’Europa chiedendo di riprendere lo spirito di quando l’hanno voluta perché non ci sia una terza guerra mondiale, anche se combattuta a pezzi. E qui ci siamo dentro anche noi ed è importante aprire gli occhi su una condivisione delle conquiste umane.

Guardando la Parola di Dio, abbiamo l’Apocalisse. L’Arcivescovo di Milano, don Mario il Vicario, ha scritto un libretto “ti mostrerò la sposa dell’agnello” che parte da una contemplazione della chiesa come avviene nell’Apocalisse, proprio l’Apocalisse che bolla la città del potere, la città dei sette colli. Oggi Trump sta andando molto vicino, per questo è necessario fermarsi a guardare “ti mostrerò la sposa dell’agnello”.

Anche noi in questa messa, cerchiamo di contemplarla e vederla dentro gli intrecci della storia di oggi: andate a vedere il capitolo 21 e 22, per chi vuole andare a vedere quel libretto.

Il Vangelo è di Matteo cap. 31, quindi siamo già verso la fine di Matteo, siamo già in un momento di tensione per “quell’osanna”, cosa vuol dire Osanna? Come “I care” è difficile da tradurre, eppure lo cantiamo sempre nel Sanctus. Osanna vuol dire che è il momento del Signore: vieni Signore, dona la salvezza e il Signore dà la salvezza. Gesù dice “è proprio adesso è il momento”.

Lo scacciare i mercanti dal tempio, l’evangelista Giovanni lo riporta invece al cap. 2 e, se volte andarlo a cercare, viene subito dopo l’episodio di Cana di Galilea, prima di Nicodemo. E’ interessante mostrare le differenze: là è all’inizio del vangelo, qui è alla fine. La casa di Dio, il tempio è sempre da rivedere, da ricercare, da contemplare per contemplare “la sposa dell’agnello” ed è da costruire nelle relazioni e nei passaggi che stiamo facendo nell’eucarestia.

Aiutaci Signore, ad aprire gli occhi in una geo-politica attuale. Questo mondo che sta scoppiando. L’Africa supera il miliardo di abitanti, tra due nazioni che mandano i satelliti nello spazio.

E’ stato citato, all’inizio, don Sandro Spinelli -mio compagno di studi- ha fatto il militare e poi si è buttato nella missione.

Aiutaci, Signore, ad aprire gli occhi sul mondo intero, sulle diverse forze di liberazione, sulle diverse forze di cultura; aiutaci, Signore, ad avere una cultura biblica, approfondita che va avanti, che sa fare la lectio divina, stimolati da una attenzione alle esigenze di oggi, appunto alla geo-politica, alle ricchezze della Regione Lombardia, alle sue potenzialità e alle ingiustizie delle divisioni.

A Motta, prima della crisi economica, ho sentito parlare dei redditi da lavoro che restano fermi o diminuiscono mentre i redditi da rendita vanno crescendo.

Aiutaci, Signore, a trovare il mostro ruolo in questo mondo, a come reagire al potere dei militari e delle aziende collegate, con i rischi di chi può essere lasciato a casa senza lavoro e come è difficile la riconversione. In Albania ci sono due centrali elettriche costruite con tecnologia cinese con molta manualità e meno resa; la terza è stata costruita a Koman e l’hanno fatta quando avevano litigato con i cinesi e hanno chiamato i francesi per completarla. Però i francesi avevano il difetto di volere essere pagati e la miniera conteneva impurità d’oro che sono servite per pagare il lavoro.

Credo che le ACLI siano chiamate a rinnovare le richieste allo Spirito Santo per essere luce che guarda avanti, che vuole costruire, che sappia anche protestare, che vuole animare la chiesa.

Mons. Delpini dice che qui c’è un passo da fare, ciascuno per la sua parte. “Anche la Curia ha bisogno di essere riformata – dice Delpini – vi consegno queste indicazioni pastorali nella fiducia che, in questo anno pastorale, si sviluppino un confronto, una verifica critica, sia a livello delle istituzioni territoriali , parrocchie, comunità pastorali, decanati, associazioni, movimenti, sia a livello di base che negli uffici di Curia. Mi affido alla vostra preghiera e invoco da tutti un aiuto perché lo Spirito di Dio che dimora in ognuno e che parla per bocca di tutti, ispiri le decisioni”.

Abbiamo bisogno di recuperare una identità per noi e per gli altri. Per esempio, il Palio di Legnano, grandioso, che impegna tante persone e tanta buona volontà, aiuta a costruire l’identità; in Europa ci manca l’identità e andiamo a cercarla nel nazionalismo, nel regionalismo, nel particolarismo. E’ bene creare il proprio spazio, ma l’identità è qualcosa di più ricco, l’identità del Palio trasmette un passato, un presente della propria appartenenza ma non dice niente sul futuro che ha bisogno di passi concreti.

Sono andato alla fine del Ramadan a portare la lettera di auguri agli amici musulmani che facevano festa: questi costumi, quei dolci mi sembravano un altro palio.

Aiutaci, Signore, aiuta le ACLI, aiuta le persone vive sul territorio a ricercare l’identità, il futuro, il cammino, i rapporti dentro la Lombardia, i rapporti dell’espressione politica, che vuol dire conoscenza, impegno e lavoro comune.