Non c'è alcuna ricerca di Pace credibile senza giustizia, diritti umani e libertà: anche nelle chiese cristiane ma non solo.
L'intervista a Matteo della Torre, direttore de "Il grido dei poveri".
Pubblicata sul n. 17 del 25 febbraio 2007 della newsletter della comunitàQuesto indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
1) In Italia o all'estero ci sono ancora preti operai? Quale è stato e/o quale è il senso della loro presenza - a suo avviso - nella chiesa cattolica romana e nel mondo del lavoro?
Nell'Italia dei primi anni '70, i sacerdoti che fecero la scelta profetica del lavoro manuale nel mondo operaio erano circa trecento. Sotto l'impulso del Concilio Vaticano II, essi decisero di condividere la condizione operaia e mettere in discussione la ministerialità sacerdotale, sempre più imbalsamata nella pastorale intra moenia ed estranea alle istanze provenienti dal mondo dei diseredati. La loro esperienza rivoluzionaria è stata una delle molteplici espressioni della cosiddetta Chiesa di frontiera. Ne cito solo alcuni: Bruno Borghi, Carlo Carlevaris, Luisito Bianchi, Gianni Fornero, Giuseppe Stroppiglia, Aldo Bardini, Gino Chiesa... Oggi, in Italia, i preti operai sono un centinaio.
I preti operai suscitano, nella Chiesa dei sacerdoti con il sostentamento assicurato, una domanda inquietante che mi permetto di prendere in prestito da Gandhi: "Possono gli uomini guadagnarsi il pane con il lavoro intellettuale? No. A bisogni del corpo deve pensare il corpo. Il mero lavoro mentale, cioè intellettuale riguarda l'anima ed è compenso a se stesso. Non dovrebbe mai pretendere di essere retribuito. Nello stato ideale, dottori, avvocati e simili lavoreranno solo a beneficio della società, non per se stessi".
Alla luce della nonviolenza gandhiana, possiamo affermare che nessuno può ritenersi esentato dal lavoro delle mani, né il professore, né l'insegnante, né il notaio, né l'avvocato, e neppure il sacerdote, come chiunque altro svolga un'attività intellettuale, a meno che non voglia rinunciare a tutto ciò che per prodursi comporta fatica. Questa, a mio avviso, è la più grande provocazione dei sacerdoti operai. Tutti devono guadagnarsi il cibo che mangiano con il lavoro delle proprie mani, lo prescrive Dio nella Bibbia costituendo l'uomo coltivatore e custode della creazione: "Con il sudore del tuo volto mangerai il pane" (Gn 3, 19). Il lavoro delle mani è quindi sacro, perché con il suo esercizio l'uomo obbedisce alla volontà di Dio, al suo primo ed essenziale comandamento che gli prescrive il dovere di procacciarsi onestamente il pane, senza far gravare su altri questo compito. Chi accumula ricchezze senza lavorare, e così facendo parassitizza il suo prossimo, commette una gravissima ingiustizia ("Chi non vuol lavorare, neppure mangi" - 2 Tessalonicesi 3, 10).
Il lavoro per il pane, quindi, è la prima forma di nonviolenza, un atto d'amore per il prossimo, che comporta, perciò, la rinuncia allo sfruttamento della fatica altrui per il soddisfacimento dei propri bisogni fondamentali.
L'uomo astuto, nel corso della storia, in dileggio del volere di Dio, ha raggirato questo precetto industriandosi al meglio per far lavorare i propri simili al suo posto. Non c'è uomo al mondo che non nutra in sé l'aspirazione di emanciparsi dalla fatica fisica. Il rifiuto del lavoro fisico per il pane è alla radice di ogni sfruttamento ed ingiustizia ed è la chiave interpretativa con cui leggere il dramma della violenza strutturale che opprime le società che si sono strutturate in classi a motivo dell'iniqua ripartizione del lavoro tra fasce sociali agiate, "dispensate" dal lavoro manuale e classi subordinate, sfruttate e costrette ad un lavoro svalutato e degradato. Il lavoro delle mani diventa così la forza rivoluzionaria e il mezzo attraverso cui minare alle radici la divisione del lavoro, causa di innumerevoli ingiustizie. "Lo sfruttamento - scrive Giuliano Pontara - comincia là dove vi sono uomini che mangiano il pane che altri hanno prodotto, senza fornire un corrispettivo lavoro. E, si badi, per lavoro si intende qui lavoro manuale, fatica fisica, sudore".
Il lavoro manuale, oltre ad essere, come diceva Lanza del Vasto, "il tirocinio della probità", è un'esigenza profonda della nonviolenza, perché se non si instaura "una certa uguaglianza tra quel che si prende e quel che si rende" si dipende dal lavoro altrui, si sfrutta i propri simili e si esercita, di conseguenza, un'inaccettabile violenza sul prossimo.
2) Durante una visita al Monastero di Bose rimasi colpito anni fa - quale uditore occasionale - da una domanda posta da un uomo ad un gruppo di altri cattolici credenti impegnati: "ma come mai in Africa si muore ancora di fame? La chiesa (intendeva ovviamente quella cattolica romana) possibile che non riesca con tutte le sue energie a livello mondiale a dare risposte concrete in tal senso?
A mio avviso la Chiesa cattolica, per contrastare la fame nel mondo, dovrebbe agire su tre fronti:
3) Come è la situazione in Puglia? Ci sono ancora molti giovani che lasciano la loro regione per trovare un lavoro altrove?
Tutti i miei amici sono emigrati a Milano, Torino e Bologna alla ricerca di lavoro. Io sono rimasto perché ho scelto di fare il contadino nella mia piccola azienda agricola a conduzione biologica.
Mi auguro che nel prossimo futuro i giovani in cerca di lavoro resistano il più possibile alla tentazione dell'emigrazione. I nostri paesi meridionali, specie quelli piccoli e bisognosi di crescita culturale e sociale, si stanno svenando dei giovani e dei migliori cervelli, emigrati al centro-nord alla ricerca affannosa dell'ambito "posto fisso", di un lavoro da scivania o comunque un lavoro non manuale. Queste persone dopo essere state, negli anni della crescita, un peso per la loro comunità cittadina, prendono il volo per fecondare altre realtà meno bisognose delle nostre. Ci sono interi settori lavorativi - il sociale, l'ecologia e l'agricoltura - che attendono di essere rifondati da forze nuove, motivate e motivanti, che sappiano trasfondere una ventata di novità, competenza ed entusiasmo nel loro lavoro quotidiano al servizio della comunità cittadina.
Da qui sorge l'esigenza di riflettere sul significato dell'istruzione. A che cosa serve l'istruzione? Ernest Schumacher, nel suo libro "Piccolo è bello", riferisce di calcoli scientifici che dimostrano come sia necessario il lavoro di trenta contadini per mantenere un uomo all'università, il quale in un corso di cinque anni consumerebbe 150 anni di lavoro contadino.
Poniamoci, allora, questo inquietante interrogativo: "l'istruzione è un passaporto per il privilegio o è qualcosa che alcuni assumono su di sé quasi come un voto monastico, un impegno solenne a servire il popolo?".
Il senso della giustizia spinge a ritenere la conoscenza un sacro debito, un servizio da rendere ad ogni uomo ed in modo particolare alla comunità locale che lo ha accolto, lo ha fatto crescere e gli ha permesso, grazie al lavoro altrui, di acquisire un elevato grado di conoscenza e di divenire "ricco di istruzione".
4) Cosa intende esattamente per non violenza? Si tratta di un progressivo processo politico, di uno strumento di testimonianza evangelica, di una bandiera pacifista fra le altre, ... Ci spieghi sinteticamente il suo punto di vista.
La nonviolenza è un'idea durissima, alle volte inconcepibile da una mente occidentale. Gandhi era convinto che la nonviolenza fosse "un'arma infallibile" e si spinse a definirla "più potente della più potente arma di distruzione escogitata dall'ingegnosità dell'uomo". Lui stesso ne sperimentò il valore, realizzandola in una vita operosa e frugale. La sua prima condizione è la giustizia, realizzata in ogni settore della vita. In questo senso la nonviolenza è in sintonia con l'etica evangelica. Poi è anche coerenza tra il fine che si intende perseguire e i mezzi usati per raggiungere tale fine.
In una situazione di ingiustizia il singolo o la collettività hanno davanti tre opzioni: 1) la reazione violenta 2) la passiva rassegnazione o l'indifferenza 3) la nonviolenza. Le prime due opzioni sono disvalori, mentre la nonviolenza, che in questo senso è "il varco attuale della storia" è una forza "pro-attiva" e provocatrice di conflitti, che non vengono negati o evitati per paura o per distorta interpretazione della religione, ma affrontati con decisione muovendo da una prospettiva di radicale alternativa alla violenza. La storia e l'esperienza gandhiana insegnano che non può esserci nonviolenza senza un costante sforzo costruttivo in antitesi alla propensione distruttiva di chi si affida alla violenza. Dove l'inumanità distrugge, degrada e corrompe, la nonviolenza costruisce, eleva e purifica. Per far ciò è centrale il ruolo dell'educazione, poiché come scriveva Ernesto Balducci "senza l'educazione nulla può essere fatto, perché i rapporti nonviolenti sono essenzialmente rapporti educativi".
Questa nonviolenza non può essere la bandiera di un certo pacifismo, che rifiuta la guerra e i suoi effetti (violenza diretta), che inorridisce e si indigna alla vista degli orrori della guerra, ma rinuncia ad intervenire - a livello individuale e collettivo - sulle cause che la provocano (la violenza strutturale e culturale).
5) Ragaz sosteneva che nel socialismo vi fossero dei rimandi al Regno e precisava puntigliosamente che era cristiano in quanto socialista e socialista (anche senza tessera come ha dimostrato) in quanto cristiano. Come interpreta l'impegno dei cristiani oggi in ambito sociale e politico? Riescono ad essere il sale della trasformazione del mondo?
Credo che il cristiano possa essere oggi, a livello sociale e politico, sale della trasformazione del mondo se:
È evidente quanto la pratica cristiana in occidente sia distante da questi valori e quante poche "anime belle" vi si rispecchino. Il cristiano devoto è spesso lì a girare volenteroso gli ingranaggi di un'economia, sospinta da un mercantilismo idiota, che opprime e stermina i poveri del mondo e distrugge la natura a ritmi forsennati. Così l'incenso della preghiera dei tanti narcisisti dello spirito, ostinati nel rifiuto dell'impegno politico-sociale quotidiano, sale al cielo e risuona come una menzogna blasfema.
6) Dove passa la via della pace in Iraq? È pensabile un progetto di riconciliazione a medio termine?
Condivido appieno il pensiero del norvegese Johan Galtung - fondatore dell'International Peace Reserch Institute, docente di Studi sulla Pace all'Università delle Hawaii - quando afferma che l'uscita dal vicolo cieco della violenza in Iraq è possibile solo ricorrendo a robuste iniezioni di creatività, cioè la capacità di trovare soluzioni valide per tutte le parti in conflitto. Attualmente questa creatività manca all'Europa, fin troppo allineata alla politica americana. La via della pace in Iraq, come anche in Afghanistan, che Galtung suggerisce è rappresentata "dalla creazione di una comunità musulmana in Asia centrale. Un progetto di Afghanistan federale e di un Iraq federale. Occorre, pertanto, abbandonare l'illusione occidentale di voler creare un Iraq ed un Afghanistan unitari. È un'idea impossibile. Sia l'Iraq che l'Afghanistan non esistono come stati unitari. È invece possibile un modello federale, perché in Afghanistan convivono almeno dodici nazioni differenti, in Iraq quattro (sunniti, sciiti, turcomanni e curdi)".
7) Siamo stati in più circostanze censurati su Peacelink* adducendo motivazioni talvolta di ordine "tecnico" e a volte politiche: perché - in linea generale - fa così paura anche la diversità di opinioni? Lo sperimenta anche Lei questo disagio, sia pur in altre forme e modalità ?
No. In qualità di redattore di Peacelink, fino ad ora, non ho avuto il ben che minimo problema. Ho notato che con me gli altri redattori sono stati sempre gentili e disponibili. Nessuno mi ha mai rivolto obiezioni sui contenuti e la linea editoriale del nostro mensile di riflessione nonviolenta, "Il grido dei poveri", che Peacelink ospita da circa tre anni.
8) Cosa si augura nella sua vita per il futuro?
Mi auguro di rifiutare ogni giorno l'atteggiamento delle tre scimmiette, di chi non vuol vedere, sentire, parlare; di provare giusta collera di fronte alle ingiustizie, di fuggire la tentazione subdola della comodità, dell'indifferenza e del fatalismo per dire "cose che non si dicono" e fare "cose che non si fanno".
Mi auguro di camminare nella vita oltre la morale comune e il comune buon senso.
Mi auguro di ascoltare sempre, in mezzo al fragore della civiltà moderna, il suono impercettibile dei miliardi d'alberi che crescono.
Mi auguro di non perdere l'ottimismo della volontà, volgendomi al futuro con lo sguardo della speranza, consapevole che in ogni singolo istante della storia umana il male, con tutto ciò che di negativo c'è nel mondo, non ha mai prevalso, né mai prevarrà.
Mi auguro negli anni che mi restano da vivere, di dare il mio microscopico contributo per sospingere fuori dalla storia la pena di morte, la tortura, la fame, la follia delle spese militari e lo stesso ricorso alla guerra.
Mi auguro - questo è il più importante - di vivere in prima persona la vita che vorrei che il mondo viva.
Matteo Della Torre
Coordinatore della Casa per la nonviolenza e direttore del mensile "Il grido dei poveri" (mensile di riflessione nonviolenta).
Edito dalla Casa per la nonviolenza, associazione di ispirazione gandhiana.
71046 San Ferdindando di Puglia (Fg).
via XXIV maggio, 76 tel. 0883.622652
e-mail:Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Sito web: http://italy.peacelink.org/pace/indices/index_1422.html
(* Vorrei solo ricordare ai nostri lettori che l'occasione della censura più clamorosa e vergognosa è stata l'iniziativa di contrastare l'invio di fax di protesta all'ambasciata iraniana a Roma, contro l'impiccagione di giovani omosessuali: il o i moderatori della lista "Pace" coi loro amici (un umanista e alcuni cattolici, fra cui una giornalista molto conosciuta sul web - e a suo dire - sostenitrice e sostenuta dell'Ulivo romano oltre che amica di ambienti vaticani) hanno preso a pretesto l'occasione per fare il tiro al bersaglio parlando di massoneria e protestantesimo, di istigatori alla violenza in favore della politica della guerra americana oltre a offese personali, insulti, ecc. ecc. Maurizio Benazzi)
L'intervista a Matteo della Torre, direttore de "Il grido dei poveri".
Pubblicata sul n. 17 del 25 febbraio 2007 della newsletter della comunità
1) In Italia o all'estero ci sono ancora preti operai? Quale è stato e/o quale è il senso della loro presenza - a suo avviso - nella chiesa cattolica romana e nel mondo del lavoro?
Nell'Italia dei primi anni '70, i sacerdoti che fecero la scelta profetica del lavoro manuale nel mondo operaio erano circa trecento. Sotto l'impulso del Concilio Vaticano II, essi decisero di condividere la condizione operaia e mettere in discussione la ministerialità sacerdotale, sempre più imbalsamata nella pastorale intra moenia ed estranea alle istanze provenienti dal mondo dei diseredati. La loro esperienza rivoluzionaria è stata una delle molteplici espressioni della cosiddetta Chiesa di frontiera. Ne cito solo alcuni: Bruno Borghi, Carlo Carlevaris, Luisito Bianchi, Gianni Fornero, Giuseppe Stroppiglia, Aldo Bardini, Gino Chiesa... Oggi, in Italia, i preti operai sono un centinaio.
I preti operai suscitano, nella Chiesa dei sacerdoti con il sostentamento assicurato, una domanda inquietante che mi permetto di prendere in prestito da Gandhi: "Possono gli uomini guadagnarsi il pane con il lavoro intellettuale? No. A bisogni del corpo deve pensare il corpo. Il mero lavoro mentale, cioè intellettuale riguarda l'anima ed è compenso a se stesso. Non dovrebbe mai pretendere di essere retribuito. Nello stato ideale, dottori, avvocati e simili lavoreranno solo a beneficio della società, non per se stessi".
Alla luce della nonviolenza gandhiana, possiamo affermare che nessuno può ritenersi esentato dal lavoro delle mani, né il professore, né l'insegnante, né il notaio, né l'avvocato, e neppure il sacerdote, come chiunque altro svolga un'attività intellettuale, a meno che non voglia rinunciare a tutto ciò che per prodursi comporta fatica. Questa, a mio avviso, è la più grande provocazione dei sacerdoti operai. Tutti devono guadagnarsi il cibo che mangiano con il lavoro delle proprie mani, lo prescrive Dio nella Bibbia costituendo l'uomo coltivatore e custode della creazione: "Con il sudore del tuo volto mangerai il pane" (Gn 3, 19). Il lavoro delle mani è quindi sacro, perché con il suo esercizio l'uomo obbedisce alla volontà di Dio, al suo primo ed essenziale comandamento che gli prescrive il dovere di procacciarsi onestamente il pane, senza far gravare su altri questo compito. Chi accumula ricchezze senza lavorare, e così facendo parassitizza il suo prossimo, commette una gravissima ingiustizia ("Chi non vuol lavorare, neppure mangi" - 2 Tessalonicesi 3, 10).
Il lavoro per il pane, quindi, è la prima forma di nonviolenza, un atto d'amore per il prossimo, che comporta, perciò, la rinuncia allo sfruttamento della fatica altrui per il soddisfacimento dei propri bisogni fondamentali.
L'uomo astuto, nel corso della storia, in dileggio del volere di Dio, ha raggirato questo precetto industriandosi al meglio per far lavorare i propri simili al suo posto. Non c'è uomo al mondo che non nutra in sé l'aspirazione di emanciparsi dalla fatica fisica. Il rifiuto del lavoro fisico per il pane è alla radice di ogni sfruttamento ed ingiustizia ed è la chiave interpretativa con cui leggere il dramma della violenza strutturale che opprime le società che si sono strutturate in classi a motivo dell'iniqua ripartizione del lavoro tra fasce sociali agiate, "dispensate" dal lavoro manuale e classi subordinate, sfruttate e costrette ad un lavoro svalutato e degradato. Il lavoro delle mani diventa così la forza rivoluzionaria e il mezzo attraverso cui minare alle radici la divisione del lavoro, causa di innumerevoli ingiustizie. "Lo sfruttamento - scrive Giuliano Pontara - comincia là dove vi sono uomini che mangiano il pane che altri hanno prodotto, senza fornire un corrispettivo lavoro. E, si badi, per lavoro si intende qui lavoro manuale, fatica fisica, sudore".
Il lavoro manuale, oltre ad essere, come diceva Lanza del Vasto, "il tirocinio della probità", è un'esigenza profonda della nonviolenza, perché se non si instaura "una certa uguaglianza tra quel che si prende e quel che si rende" si dipende dal lavoro altrui, si sfrutta i propri simili e si esercita, di conseguenza, un'inaccettabile violenza sul prossimo.
2) Durante una visita al Monastero di Bose rimasi colpito anni fa - quale uditore occasionale - da una domanda posta da un uomo ad un gruppo di altri cattolici credenti impegnati: "ma come mai in Africa si muore ancora di fame? La chiesa (intendeva ovviamente quella cattolica romana) possibile che non riesca con tutte le sue energie a livello mondiale a dare risposte concrete in tal senso?
A mio avviso la Chiesa cattolica, per contrastare la fame nel mondo, dovrebbe agire su tre fronti:
- Puntare alle cause della povertà.
Dom Helder Camara, vescovo brasiliano di Recife, diceva: "Rimanete nelle vostre società sforzandovi di cambiarle". La Chiesa Cattolica attualmente, nella sua componente maggioritaria, (escludo da quest'analisi la chiesa di frontiera) considera la solidarietà internazionale come un'attività assistenzialistica, che agisce sugli effetti della povertà senza incidere profondamente sulle radici, sulle cause strutturali che l'hanno generata. Ma solo l'intenzione salda di rimuovere le cause che determinano l'impoverimento può considerarsi autentica solidarietà, che è paritetica, non fa elemosina, ma guarda ai poveri come soggetti di diritti e crea autosviluppo locale ad opera dei protagonisti della loro stessa liberazione dall'oppressione e dall'indigenza endemica.
La solidarietà assistenziale è asimmetrica ed irrispettosa. In alto c'è l'occidente cristiano e virtuoso che guarda se stesso allo specchio e dispensa la propria elemosina a popoli "inferiori", bisognosi ed incapaci di autodeterminazione. Si fornisce ai poveri del Sud del mondo ad libitum pesce pescato nel mari del Nord, rinnovando così la sottomissione e il ciclo di dipendenza materiale, finanziaria e culturale dei beneficiati dalla volontà e bontà dei benefattori.
- Denunciare l'ingiustizia
L'illuminata civiltà occidentale, culla del cristianesimo, sperpera per spese militari 1.118 miliardi di dollari, pari a 173 dollari per ogni abitante della terra, il 2,5% del Pil mondiale, privando i poveri delle risorse di cui hanno disperato bisogno per programmi di lotta alla denutrizione, analfabetismo, malattie, etc.. Basterebbe che ogni anno il 10% delle spese mondiali per gli armamenti fosse destinato all'autosviluppo dei paesi poveri per debellare la fame nel mondo nel giro di un decennio. Oggi l'umanità ha tutti i mezzi necessari per realizzare la profezia di Isaia e contemporaneamente mettere in scacco la guerra e sconfiggere la miseria. Se esistono ancora miliardi di fratelli che vivono in condizioni di estrema povertà è perché i popoli ricchi, che potrebbero fare qualcosa, volgono la testa dall'altra parte per non vedere. E la Chiesa cattolica che fa? Come non avvertire l'evidenza che non c'è nulla di più inutile e perverso delle spese militari? Perché i cardinali invece di tuonare contro questa ingiustizia, benedicono le portaerei e le guerre? Perché nelle parrocchie non si parla mai di Obiezione alle spese militari, opzione fiscale, Difesa Popolare Nonviolenta? Come mai lo Stato ti obbliga a dare il 5 per cento delle tue tasse perché dilapidi 36 miliardi di euro all'anno per le spese militari e la Chiesa non dice niente? Neppure una piccola nota ufficiale vincolante per i cattolici da parte della CEI, come nel caso delle unioni di fatto. Credo che la Chiesa cattolica debba far valere l'etica del "non uccidere", abbandonando il tradimento evangelico rappresentato dalla dottrina della "guerra giusta" e sanando l'incoerenza che la porta a mantenere in vita l'ordinariato e i cappellani militari, come anticipazione profetica dell'inevitabile e profondo processo di rifondazione della difesa delle nazioni.
- Riformare l'omiletica
Credo che il livello delle omelie dei sacerdoti della mia zona, tranne rarissime eccezioni, sia bassissimo. Sono stanche, ripetitive fino alla nausea, atemporali, mai attualizzate, oppiacee ed acquietanti, e rendono il cristianesimo estraneo al cristiano. Urge un profondo rinnovamento dell'omiletica, accompagnata da una nuova etica del sacerdozio. Il popolo di Dio ha diritto di ascoltare parole nuove, di liberazione, pregne della carica sovversiva del vangelo, capaci di far sognare, pronunciate da sacerdoti lordi di terra e sudore. Questo potrà accadere quando la Chiesa smetterà di essere una "galera medioevale di minorenni" che coltiva un laicato acefalo, clericalizzato, passivo, acritico, dalla religiosità schizzoide, che non deve pensare ma solo "obbedire, pregare, pagare e soffrire"; anime belle dalla spiritualità crudelmente individualista.
3) Come è la situazione in Puglia? Ci sono ancora molti giovani che lasciano la loro regione per trovare un lavoro altrove?
Tutti i miei amici sono emigrati a Milano, Torino e Bologna alla ricerca di lavoro. Io sono rimasto perché ho scelto di fare il contadino nella mia piccola azienda agricola a conduzione biologica.
Mi auguro che nel prossimo futuro i giovani in cerca di lavoro resistano il più possibile alla tentazione dell'emigrazione. I nostri paesi meridionali, specie quelli piccoli e bisognosi di crescita culturale e sociale, si stanno svenando dei giovani e dei migliori cervelli, emigrati al centro-nord alla ricerca affannosa dell'ambito "posto fisso", di un lavoro da scivania o comunque un lavoro non manuale. Queste persone dopo essere state, negli anni della crescita, un peso per la loro comunità cittadina, prendono il volo per fecondare altre realtà meno bisognose delle nostre. Ci sono interi settori lavorativi - il sociale, l'ecologia e l'agricoltura - che attendono di essere rifondati da forze nuove, motivate e motivanti, che sappiano trasfondere una ventata di novità, competenza ed entusiasmo nel loro lavoro quotidiano al servizio della comunità cittadina.
Da qui sorge l'esigenza di riflettere sul significato dell'istruzione. A che cosa serve l'istruzione? Ernest Schumacher, nel suo libro "Piccolo è bello", riferisce di calcoli scientifici che dimostrano come sia necessario il lavoro di trenta contadini per mantenere un uomo all'università, il quale in un corso di cinque anni consumerebbe 150 anni di lavoro contadino.
Poniamoci, allora, questo inquietante interrogativo: "l'istruzione è un passaporto per il privilegio o è qualcosa che alcuni assumono su di sé quasi come un voto monastico, un impegno solenne a servire il popolo?".
Il senso della giustizia spinge a ritenere la conoscenza un sacro debito, un servizio da rendere ad ogni uomo ed in modo particolare alla comunità locale che lo ha accolto, lo ha fatto crescere e gli ha permesso, grazie al lavoro altrui, di acquisire un elevato grado di conoscenza e di divenire "ricco di istruzione".
4) Cosa intende esattamente per non violenza? Si tratta di un progressivo processo politico, di uno strumento di testimonianza evangelica, di una bandiera pacifista fra le altre, ... Ci spieghi sinteticamente il suo punto di vista.
La nonviolenza è un'idea durissima, alle volte inconcepibile da una mente occidentale. Gandhi era convinto che la nonviolenza fosse "un'arma infallibile" e si spinse a definirla "più potente della più potente arma di distruzione escogitata dall'ingegnosità dell'uomo". Lui stesso ne sperimentò il valore, realizzandola in una vita operosa e frugale. La sua prima condizione è la giustizia, realizzata in ogni settore della vita. In questo senso la nonviolenza è in sintonia con l'etica evangelica. Poi è anche coerenza tra il fine che si intende perseguire e i mezzi usati per raggiungere tale fine.
In una situazione di ingiustizia il singolo o la collettività hanno davanti tre opzioni: 1) la reazione violenta 2) la passiva rassegnazione o l'indifferenza 3) la nonviolenza. Le prime due opzioni sono disvalori, mentre la nonviolenza, che in questo senso è "il varco attuale della storia" è una forza "pro-attiva" e provocatrice di conflitti, che non vengono negati o evitati per paura o per distorta interpretazione della religione, ma affrontati con decisione muovendo da una prospettiva di radicale alternativa alla violenza. La storia e l'esperienza gandhiana insegnano che non può esserci nonviolenza senza un costante sforzo costruttivo in antitesi alla propensione distruttiva di chi si affida alla violenza. Dove l'inumanità distrugge, degrada e corrompe, la nonviolenza costruisce, eleva e purifica. Per far ciò è centrale il ruolo dell'educazione, poiché come scriveva Ernesto Balducci "senza l'educazione nulla può essere fatto, perché i rapporti nonviolenti sono essenzialmente rapporti educativi".
Questa nonviolenza non può essere la bandiera di un certo pacifismo, che rifiuta la guerra e i suoi effetti (violenza diretta), che inorridisce e si indigna alla vista degli orrori della guerra, ma rinuncia ad intervenire - a livello individuale e collettivo - sulle cause che la provocano (la violenza strutturale e culturale).
5) Ragaz sosteneva che nel socialismo vi fossero dei rimandi al Regno e precisava puntigliosamente che era cristiano in quanto socialista e socialista (anche senza tessera come ha dimostrato) in quanto cristiano. Come interpreta l'impegno dei cristiani oggi in ambito sociale e politico? Riescono ad essere il sale della trasformazione del mondo?
Credo che il cristiano possa essere oggi, a livello sociale e politico, sale della trasformazione del mondo se:
- crede nella forza sovversiva del Vangelo e nelle potenzialità rivoluzionarie della nonviolenza;
- si lascia sconvolgere la vita dal volto sfigurato dei poveri, i cui "segni evidenti di morte dovrebbero provocare in lui un tale shock che lo obbliga a cambiare" (Lévinas);
- lavora per cambiare se stesso, il suo cuore, il luogo privilegiato delle trasformazioni individuali e sociali;
- con il suo stile di vita inserisce nel ventre molle del mondo opulento le provocazioni rivoluzionarie, in forma di spina, della povertà volontaria e della disobbedienza alla violenza diretta, strutturale e culturale;
- insegna con l'esempio personale;
- contribuisce a rifondare l'educazione basandola sulla pratica;
- si oppone radicalmente alla guerra, agli armamenti e alla loro imbecillità intrinseca;
- crede nel disarmo unilaterale e nella Difesa Popolare Nonviolenta;
- promuove e lavora per l'alternativa economica locale alle storture imposte dalla globalizzazione; - riscopre il lavoro manuale;
- rispetta e valorizza le diversità religiose;
- pratica la rivoluzione della gratuità;
- si adopera per creare le condizioni per un ritorno ad una politica di tutti, "all'omnicrazia" teorizzata da Aldo Capitini.
È evidente quanto la pratica cristiana in occidente sia distante da questi valori e quante poche "anime belle" vi si rispecchino. Il cristiano devoto è spesso lì a girare volenteroso gli ingranaggi di un'economia, sospinta da un mercantilismo idiota, che opprime e stermina i poveri del mondo e distrugge la natura a ritmi forsennati. Così l'incenso della preghiera dei tanti narcisisti dello spirito, ostinati nel rifiuto dell'impegno politico-sociale quotidiano, sale al cielo e risuona come una menzogna blasfema.
6) Dove passa la via della pace in Iraq? È pensabile un progetto di riconciliazione a medio termine?
Condivido appieno il pensiero del norvegese Johan Galtung - fondatore dell'International Peace Reserch Institute, docente di Studi sulla Pace all'Università delle Hawaii - quando afferma che l'uscita dal vicolo cieco della violenza in Iraq è possibile solo ricorrendo a robuste iniezioni di creatività, cioè la capacità di trovare soluzioni valide per tutte le parti in conflitto. Attualmente questa creatività manca all'Europa, fin troppo allineata alla politica americana. La via della pace in Iraq, come anche in Afghanistan, che Galtung suggerisce è rappresentata "dalla creazione di una comunità musulmana in Asia centrale. Un progetto di Afghanistan federale e di un Iraq federale. Occorre, pertanto, abbandonare l'illusione occidentale di voler creare un Iraq ed un Afghanistan unitari. È un'idea impossibile. Sia l'Iraq che l'Afghanistan non esistono come stati unitari. È invece possibile un modello federale, perché in Afghanistan convivono almeno dodici nazioni differenti, in Iraq quattro (sunniti, sciiti, turcomanni e curdi)".
7) Siamo stati in più circostanze censurati su Peacelink* adducendo motivazioni talvolta di ordine "tecnico" e a volte politiche: perché - in linea generale - fa così paura anche la diversità di opinioni? Lo sperimenta anche Lei questo disagio, sia pur in altre forme e modalità ?
No. In qualità di redattore di Peacelink, fino ad ora, non ho avuto il ben che minimo problema. Ho notato che con me gli altri redattori sono stati sempre gentili e disponibili. Nessuno mi ha mai rivolto obiezioni sui contenuti e la linea editoriale del nostro mensile di riflessione nonviolenta, "Il grido dei poveri", che Peacelink ospita da circa tre anni.
8) Cosa si augura nella sua vita per il futuro?
Mi auguro di rifiutare ogni giorno l'atteggiamento delle tre scimmiette, di chi non vuol vedere, sentire, parlare; di provare giusta collera di fronte alle ingiustizie, di fuggire la tentazione subdola della comodità, dell'indifferenza e del fatalismo per dire "cose che non si dicono" e fare "cose che non si fanno".
Mi auguro di camminare nella vita oltre la morale comune e il comune buon senso.
Mi auguro di ascoltare sempre, in mezzo al fragore della civiltà moderna, il suono impercettibile dei miliardi d'alberi che crescono.
Mi auguro di non perdere l'ottimismo della volontà, volgendomi al futuro con lo sguardo della speranza, consapevole che in ogni singolo istante della storia umana il male, con tutto ciò che di negativo c'è nel mondo, non ha mai prevalso, né mai prevarrà.
Mi auguro negli anni che mi restano da vivere, di dare il mio microscopico contributo per sospingere fuori dalla storia la pena di morte, la tortura, la fame, la follia delle spese militari e lo stesso ricorso alla guerra.
Mi auguro - questo è il più importante - di vivere in prima persona la vita che vorrei che il mondo viva.
Matteo Della Torre
Coordinatore della Casa per la nonviolenza e direttore del mensile "Il grido dei poveri" (mensile di riflessione nonviolenta).
Edito dalla Casa per la nonviolenza, associazione di ispirazione gandhiana.
71046 San Ferdindando di Puglia (Fg).
via XXIV maggio, 76 tel. 0883.622652
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Sito web: http://italy.peacelink.org/pace/indices/index_1422.html
(* Vorrei solo ricordare ai nostri lettori che l'occasione della censura più clamorosa e vergognosa è stata l'iniziativa di contrastare l'invio di fax di protesta all'ambasciata iraniana a Roma, contro l'impiccagione di giovani omosessuali: il o i moderatori della lista "Pace" coi loro amici (un umanista e alcuni cattolici, fra cui una giornalista molto conosciuta sul web - e a suo dire - sostenitrice e sostenuta dell'Ulivo romano oltre che amica di ambienti vaticani) hanno preso a pretesto l'occasione per fare il tiro al bersaglio parlando di massoneria e protestantesimo, di istigatori alla violenza in favore della politica della guerra americana oltre a offese personali, insulti, ecc. ecc. Maurizio Benazzi)